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BIBLIOTECA
LATINA ITALIANA
OSSIA
RACCOLTA
ni CLASSICI LATINI
CON VERSIONI ITALI INE E NOTE
VOLUME QUARTO
P. VIRGILIO MARONE — 0. ORAZIO FLACCO —
TITO LUCREZIO CARO — FEDRO.
/
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LE OPERE
DI
P. VIRGILIO MARONE
CUN LE VERSIONI
A. CARO, D. STROCCHI, C. ARICI
NAPOLI .
mksso ACHILLE MORELLI timoni;
Strado S. Srl. astiano n. 51
mi
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4 h — U3
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E
DI VIRGILIO
DELI- E SUE OFEBE (1),
DELLA TRADUZIONE DI AISMBAL CARO
e de' Iradultori italiani in genere.
i.
Pochi sono gli scrittori che abbiano par-
lalo tanto parcamente di sò nelle opere loro,
quanto Virgilio : il che devesi attribuire al-
l’ indole de* subietti da lui trattati e alla sua
naturale modestia. Ha pochissimi altresì vi
inno saputo dal primo al! ultimo verso di-
pinger sé stessi con egual candore, ed espor-
vi tutte le abitudini della vita. Nella Buccoli-
ca facilmente trovi espressa la giovinezza con
la reminiscenza delie sue gioie innocenti e
delle sofferte sventure ; nella Georgica trovi
1* età più matura, quindi studi più sodi, e
rivolli, più che al diletto, ad una pratica uti-
lità ; nell' Eneide riconosccsi 1’ uomo pro-
vetto, che, avendo allargato le sue idee sulla
storia dell' umanità, non più si contenta di
ritrarre in un libro, come nell’ Eglughe e
nelle Georgiche, una sola condizion di vita,
ma tutte comprendendole in un gran quadro
insegna alla più grande delle nazioni la sua
origine, il suo avanzamento e gli alti destini
a cui i numi ancor la riserbano.
Cresciuto all - aura aperta de' mantovani
campi, lungi da'rumori politici, il suo genio
s' ispirò sotto il raggio di quel purissimo cie-
lo a cantare i poderi, le selve ed il patrio nu-
me, togliendo a modello de' suoi canti Teo-
crito. Ma, quantunque in sò potentissimo
sentisse T ingegno per diventar poeta, non
volle per altro abbandonatisi prima d' aver
nutrita la mente di buone dottrine. Avendo
un padre agiato e, per quel che pare, molto
sollecito della sua educazione, potò per gli
studi andare a Cremona, a Milano, poi a Na-
poli, ove più s’ internò nello studio delle
greche lettere. Diede opera nello stesso tem-
po alla filosofia, e perfino alla medicina e
alle matematiche, e tanto s'approfondò nelle
scienze, da esser chiamato dottissimo dei
poeti. E veramente per Virgilio si compie il
voto di Platone, che la sapienza sfolgoreggi
davanti ai nostri occhi in sua divina bellezza
e desti maraviglioso amore di sò. E meglio
di tutti sei vide l'Allighicri, che l’umana sa-
pienza volle in Virgilio simboleggiala, o Vir-
gilio chiamò suo duca, signore e maestro,
e il savio genlil che ludo seppe.
Quando gli parve potersi dare all' arte dif-
ficile dello scrivere, volea tentare 1' epico
canto, ma Apollo, com’ ei dice, soavemente
prendendolo per T orecchio gli susurrò che
meglio era per lui scegliere argomenti più
tenui, e cantare i pastori e gli armenti.
A mantenere il tranquillo stato che nelle
Buccoliche è descritto molto contribuiva Asi-
nio Pollione, capitano rinomatissimo di quei
tempi o letterato de' primi, allora governato-
re della Venezia (A. R. 112 ). Celebrando il
poeta la felicità de' pastori in quella provin-
cia, loda indirettamente la saviezza del capi-
tano, il qualo in mezzo alle guerre che arde-
vano di quei tempi concedeva loro ozi si lie-
ti. Quando gli pervenne all' orecchio il ro-
more della battaglia di Filippi, dava sfogo
all' anima afflitta da quelle stragi cittadine,
piangendo la cruda morte di Cesare, dalla
(I) Dal Discorso di G. Arcangeli posto.in fronte all'edizione di Prato.
Vnciuo, voi. carco * a
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«I
DI VIRGILIO E DELLE SI li OPEIIE
(|uale ripeteva lutti quei mali, impcroccliè,
al contrario dell' altro gran l ombardo suo
coetaneo, Tilo Livio, proverbialo perfino da
Augusto come pompeiano, Virgilio avea dai
primi anni partecipato all' entusiasmo desta-
to nelle provincic dalle vittorie di Cesare ed
area sperato il compimento delle magnifiche
promesse di quello.
Dopo la vittoria de' Cesariani a Filippi, i
tribuni pensarono, atteso lo esaurimento dei-
fi erario, di pagare i veterani in terre : Otta-
viano distribuì ai suoi la provincia cremone-
se, e siccome quei terreni non bastavano ni-
fi avidilà soldatesca, se nc aggiunse buona
parte di ' mantovani. 1 soldati corrcano sui
poveri campi o ne cacciavano i pacifici pos-
sessori e i vecchi coloni, e questi, lasciando
ai predatori tulle le case loro, andavano ra-
minghi pel mondo a cercar d' un asilo. Vir-
gilio, avvolto nella comune disgrazia, dovè
sgombrare dal suo poderello. e se non era
l'amicizia di l'ollione, il principe de’ poeti
Latini sarebbe sialo ridotto all'estrema ne-
cessitò. Quel buon patrono fi indirizzò a Me-
cenate, fin ilo quel lempo potentissimo sul
cuore d'dllaviano ed .unicissimo delle lede-
re c degenerali : il quale, accoltolo nella sua
buona grazia. lo pre-enlò al triumviro, c Ion-
io caldamente si adoperò che fi aviio podere
gli fu tosto restituito. Sennonché il benefizio
conseguilo |>oco mancò clic non gli tornasse
vano, perocché ritornalo al suo campiscilo
incontrò una fiera resistenza nel nuovo pos-
sessore, un certo Ario centurione, il quale,
avendo per nulla il dccrelo d' Ottaviano, gli
si scagliò conico e lo costrinse a precipitarsi
nel Mincio per salvare a nuoto la vita. Ed
ecco il poeta mettersi nuovamente sulla via
di Roma, ove accollo anche questa seconda
volta con grandissima benevolenza, riebbe
tulio quello che avea perduto ; ed invitato
dalla cortesia dei patroni, fermò la sua stan-
za colò, dove gli si offeriva maggiore op-
portunità per comporre le sue opere. Le liete
brigate degli amici nelle case di Mecenate, le
conversazioni con Orazio, con Vario, con
Gallo e con altri dotlissimi ed elegantissimi
(!) Ecl. i.
spiriti, le cene, i passalcmpi della grande
città gli fecero dimenticare per poco le pas-
sate disgrazie.
Se lieto gli pareva il presente, più lieto nel-
la benevola immaginazione gli si rappresen-
tava il futuro. In questa speranza lo veniva a
confermare anclie la pace di quel lempo con-
chiusa a brindisi fra Ottaviano c Antonio per
opera di l'ollione c di Mecenate. In questa
occasione compose ed a Polliono dedicò quel
misterioso canto, nel quale si presagisce il
vicino nascimento d' un fanciullo divino clic
discendendo dal cielo rinnoverebbe il mon-
do, incamminerebbe il secolo ringiovanito
per altre vie, e le Iracce delle auliche colpe
cancellerebbe (I). A chi poteva» convenire,
dice il Canlù (2), presagi tanto superbi? Non
ad un figlio di Pollione. governatore d' una
provincia : non a Marcello, del quale incinta
Ottavia sorella d' Ottaviano andava sposa di
Antonio nel di della pace di brindisi, perché
non germe del triumviro, ma del primo ma-
rito, nulla aveva a che fare col futuro pacifi-
catore del mondo ; non al figlio clic polca
nascere dalle nozze d' Ottaviano e Scribonia
conchiusc in quell'anno stesso, perchè Olia-
vamo avea spartito allora le proiincic co' due
colleglli uè polca sperare per qnel figlio la
successione alfi impero. Non trovandosi un
fanciullo al quale questi presagi si convenis-
sero, fu pensalo che il poeta alludesse non
più a un individuo, ma ad un’ intiera gene-
razione migliore, che nella sua fantasia spe-
rava ancor di vedere; o, se pure ad un indi-
viduo si dovesse tornare, si ricorse alfi anti-
ca supposizione d’ alcuni eruditi che videro
in quel fanciullo annunziato il Cristo. Virgi-
lio cerio non era profeta ; ma parla a nome
della Sibilla Cumana, i cui vaticini sono pu-
re citali dagli scrittori ecclesiastici. La tradi-
zione d' un vicino redentore era diffusa per
tutto l’Oriente : poteva egli benissimo averla
udita da qualche Ebreo d' Alessandria, e tra-
sfusa in un canto come simbolo di quella fe-
licità che si compiaceva di vedere nel futuro.
La pittura della sua vita privata, dalle gioie
campestri dell' età prima lino agli sludi suoi
(2) Si. Un hi- II.
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DI VIRGILIO E DEILE SUE OPERE
filosollci, era congiunta a quella più nobile C
più commovente delle sciagure pubbliche da
lui fortcmenlo sentite e compiante. E questi
canti soavi erano destinali appunto, sotto il
velo assai trasparente deU'allcgorin, a dipin-
gere le calamità cagionate dalla guerra civi-
le, e s' indirizzavano ad una generazione re-
sa tanto infelice dalla maledetta cupidigia di
sovrastare. Polevasi trovar poesia più capace
a richiamare 1’ umanità a più miti pensieri ?
Virgilio, prima di spiccare il volo, avea
fatto sperimento delle suo forze, c quando ne
Tu sicuro disse animosamente a sè stesso :
Surgamm : sole! esse gravi» cantanlibus umbra.
Ed. Kb
E lasciando 1' oscurità sorse tant' allo, da
esser poi concordemente appellato principe
de' poeti Latini.
L’ opera che in gran parte gli mcrilò que-
sto titolo fu la Gcorgiea, nella quale impiegò
selle degli anni più vigorosi. A quel modo
che nell' egloghe tolse a modello Teocrito,
qui Virgilio dice da sè medesimo d’ aver se-
guitale l'orme di Esiodo. Ma cosi esprimen-
dosi egli rende omaggio, più clic ad Esiodo,
alla greca letteratura, dalla quale molto ave-
va appreso e molto era ancor per apprende-
re rispetto alla forma dol favellare. In quanto
poi alla materia, la Geòrgie» è I' opera chu
mcn delle altre riscnlcsi della greca influen-
za : opera veramente romana per l'argomen-
to che tratta ; più romana ancora pel fine al
quale dal poeta nazionale 6 rivolta. E in ve-
ro, il carattere che distinse il genio latino lo
trovi nell' agricoltura c nello leggi : dall' a-
ratro si passava alle prime magistrature e al
comando degli eserciti, c da questi gloriosi
carichi si ritornava con cilladina modestia
all'aratro. Sennonché poi le conquiste porta-
rono le ricchezze, le ricchezze il lusso, e que-
sto i corrotti costumi, da' quali ogni male.
L'agricoltura s'ebbe in dispregio quanto pri-
ma era stata onorata. Yeniicr le guerre civili
irmiscr tutto sossopra : le campagne si de
tastarono; cacciali gli antichi coloni, vi s' i-
stallarono i soldati, più atti a metterle a ru-
ba che a coltivarle. Gli eifclli di queste vio-
lenze si fecero presto sentire : la miseria e la
fame errante per le campagne s'accostava di
VII
giorno in giorno alla popolosa città; gli umo-
ri per poco ricomposti s'uudavau nuovamen-
te turbando. Virgilio ben conobbe in questa
condizione di cose il tema più accomodato
a’ suoi canti : rimettere cioè in onore 1" ara-
tro abbandonalo allora e spregiato con tanto
danno delio nazione : oltre il hello idealo
delia vita campestre ritratto nella Buccolica,
i dimostrare i vantaggi reali che da quella vi-
ta si poteano ritrarre ; quindi detlare i pre-
cetti di quell'arte benefica. E per mettersi in
una condizione di vita consentanea al suo
genio amico della solitudine e della campa-
gna, abbandonò la vita agitata di Roma, elio
gii cominciava stranamente a pesare, c si
trasportò dapprima nella dolce quiete dei
campi Tarcntini ; indi sulle rive dello Spcr-
chio, sul Taigclo e nelle ombrose valli del-
l'Kino, beala sede delle boscherecce divinità.
.Nel tempo che ii poeta era lutto in questi
paciflci studi, divamparono nuove cagioni di
discordia fra Ottaviano e Antonio. Virgilio
muove lamcnloso grido a quel romoro di
guerra clic dalla Germania sino alle rivcdcl-
l'Eufrale si distendeva, e benevolo come suo-
le ad Augusto non sa trovare miglior parlilo
a giuslilicarlo clic il rappresentarcelo trasci-
nato da’ duri eventi, il mondo stette anche
adesso sospeso sopra i suoi fati ; ma la lotta
non fu tanto lunga quanto poteva temersi, e
tosto Roma ebbe a gioire delia nuova che
Antonio e Cleopatra s‘ eran dati disperata-
mente la morte.
Omai.non restava più segno alcuno di di-
scordia civile, nessun ostacolo più si oppo-
neva alle disposizioni beneficile per la re-
pubblica che Ollaviano aveva negli ultimi
tempi manifestale. Sopra lui solo tutte le
ambizioni, tulle le speranze si concentrava-
no. Ed egli, venuto al colmo della gloria e
della potenza, si dimostrava di sì modeste
voglie, elio i più de'conteniporanci si potero-
no sulle sue vere intenzioni ingannare.
Virgilio, coll' animo sì ben disposto verso
Augusto, più si confermava nelle concepite
speranze. Le guerre civili da lui tanto lamen-
tale eran terminate per sempre ; chiuso il
tempio di Giano ; a migliori costumi il po-
polo incamminato : veramente il nuovo orili-
vili
DI VIRGILIO E DELLE SUE OPERE
no di cose da lui proretato sorgeva. Coll’ ac-
cesa fantasia egli riandava tutta la storia di
quel popolo maraviglioso che da si umili
principi avea disteso il terror del suo nome
fino alle ultime regioni del mondo ; vedeva
qual era ancora, benché lacero e pesto dalle
civili discordie, c quale ancor diverrebbe al-
lorché le arti della pace avessero risanale le
antiche piaghe c ringentiliti i costumi; quan-
do, alTralcllandosi a lui tutti i popoli delle
provinole italiane in una grande cittadinan-
za, non formerebbero che un sol popolo, una
città sola ; non una Roma romana, ma una
Roma italiana. Questo vasto progetto di Ce-
sare, che pareva fosse morto con lui, lo ve-
deva adesso risuscitalo, vicino ad effettuarsi;
raccoglieva nell" Eneide le sparse tradizioni
di tuli' i popoli dell' Italia, le collegava con
quelle del popolo Romano; esaltando le menti
con la narrazione delle glorie passale, mag-
giori ne vaticinava nel futuro, c cantava l'im-
pero derno del popolo rigeneralo.
Dirigendo l' opera sua ad uno scopo mo-
rale c politico, il poeta volle rieducare il po-
polo Romano giunto al colmo della corruzio-
ne, e così rieducalo avviarlo a continuare e
compiere la sua alla destinazione d' incivilire
il mondo co' suoi esempi e con le sue leggi.
Con la pittura de' semplici costumi pastorali
richiamava gli animi dal lusso vituperoso,
dall’ amore soverchio delle ricchezze, e rac-
comandava la cittadina modestia; col rimet-
tere in onore l’ arte de’ campi glorificava la
parsimonia de' padri, quando il patrimonio
privato era piccolo, grandissimo quello del
pubblico ; col contare finalmente a' Romani
l’ origine loro divina c le solenni promesse
di Giove, ridestava ne’ pelli il sentimento di
nazionale grandezza, e gli spingeva ad esten-
dere sempre più quell" impero che i fati pro-
mettevano eterno.
Questo nobile scopo che si era proposto
nel triplice suo lavoro Virgilio non consegui:
le speranze create dalla sua benevola fanta-
sia svanirono come la libertà ; i costumi, ri-
formali per leggi, più si corruppero ; la re-
ligione cadeva a misura che nuovi templi si
fabbricavano, e si cantavano nelle feste resti-
tuite gl'inni sacri. Il clic proverebbe elio un
libro, sin pur qual vogliasi, non basta a ri-
mettere nella diritta via il popolo che cam-
mina a ritroso; ma non scemerebbe la lode
a quel sommo che potentemente volle il be-
ne di Roma e d' Italia, c a questo consacrò i
più bei versi che abbian mai risonato su lab-
bro mortale.
Quando imbarcò per Alene, Orazio gli di-
resse quell’ode nella quale prega Venere, le
lucenti stelle de' fratelli d'EIcnacilrc dei
venti a voler proteggere la nave su cui il
gran poeta, me/ <i dell' anima sua, si tra-
sportava nell' Attica. Giunto Virgilio in Ate-
ne, meditava di recarsi nell'Asia Minore per
visitare i luoghi da lui cantali, e dall'ispira-
zione di quelle eroiche memorie prender
nuova lena per ricorregger l' Eneide. Ma la
salute gli si alllcvolt di tal fatta clic, invece
di proseguire, dovè pensare a ritornare in
Italia, nel dolce clima della Campania. Au-
gusto, reduce dall' Oriente, passando per
Alene, lo invitò a continuar seco il viaggio
per Roma ; ma dovè lasciarlo in Mcgara, do-
ve il male stranamente gli si aggravò. Quan-
do parve al poeta d' essersi riavuto, si rimi-
se in mare, tanto era l' amore che all' Italia
lo spingeva ; ma questa nuova fatica lo fece
assai peggiorare c appena potè giungere a
Brindisi. Quivi, dopo alcuni giorni di dolo-
roso languore, il 22 di settembre pagò il co-
mmi debito alla natura nell'età ancora verde
d' anni cinquantadue.
Prima di morire, chiese caldamente gli
fosse data 1’ Eneide, deliberalo di darla alle
fiamme come opera indegna per la sua im-
perfezione d' esser lasciala nelle mani del
pubblico e tramandata a' posteri. Quello che
non potè fare da sé, ordinò fosse fatto da al-
tri ; ma Vario e Tucca gli dissero che Augu-
sto non avrebbe permesso mai quello stra-
zio ; ed allora lasciò loro il poema a patto
che nulla vi fosse aggiunto o levalo.
Per ordine d' Augusto furon le ossa di lui
trasportate a Napoli c sepolte sulla via cho
conduce a Pozzuoli. Quella tomba fu sem-
pre visitata da’ piò grandi ingegni, antichi c
moderni, i quali vi cercarono nuove ispira-
zioni a’ loro versi : fra gli altri Stazio, Silio
Italico, il Boccaccio, il Petrarca, e quel San-
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DI YinGILIO E DELIE SUE OPERE
li
nnzzaro clic bramò e ottcnno d'avervl vicino
il sepolcro.
Virgilio fu grande della persona, di larghe
spalle, di colore olivastro, di rusticana fac-
cio, tanto trascurato nel vestimento che gli
amici lo proverbiavano. Non ebbe nelle ma-
niere neppure il segno di quell'eleganza che
squisitissima ebbe ne’ versi ; era anzi rozzo
e impacciato nel discorrere come nel cam-
minare. Derivava ciò da un modesto ritegno
che talora aveva del selvatico. Se nel passar
per le vie si accorgeva d' esser mostralo a
dito dalle genti per P uomo grande eh’ egli
era, fuggiva a celarsi nella casa più vicina.
Epperò pochi ebbero la comune estimazione
al pari di lui, tributata non tanto all' inge-
gno, quanto alle sue singolari virtù. A Na-
poli per la sua continenza era chiamato Par-
tenia, cioè vergine : c questa lode la merita
pure per la castigatezza del costume, rara in
quel tempo, che regna in tutte le sue opere.
II.
Niuno, o che c' inganniamo, ha giudicato
con maggior sicurezza di discernimento e di
gusto delle traduzioni de' classici Latini fat-
te nc’vari secoli della nostra letteratura, che
il Cereselo nella sua eccellente Storia delta
Poesia in Italia. Epperò ci è avviso che non
sia per esser contrastata l' opportunità della
citazione, se qui riporteremo alcuni brani
della della opera, i quali varranno a viem-
meglio spiegare e confermare le ragioni, se-
condo le quali ci siamo determinali nella
scelta delle versioni, e che già abbiamo ac-
cennate in altri volumi di questa raccolta.
« Si potrebbe dire di quei dotti del Quat-
trocento ( cosi il sullodato autore nella sua
Lez. XLYI ) una cosa che sembrerebbe un
paradosso, ed è vera, che cioè studiarono
accanitamente — scusale il vocabolo — ma
non sentirono l’antichità. ., Quegli affaccen-
dali adunatori di letterarie dovizie giacque-
ro per la massima parte senza molla gloria ;
ma i ncpoli loro, giovandosi de' tesori appa-
recchiali, empierono del loro nomo e della
loro fama il secolo in cui vissero. Anzi il Cin-
quecento godette siffallamento della eredità
legatagli dagli antecessori, che spesso di-
menticò di fare da sè, sognandosi di poter
risuscitare l' età di Pericle e d’ Augusto. E
per fermo, un tale ritorno non sarebbesi mai
potuto credere tanto possibile, quanto in
questo secolo, nel quale scrivcvasi e parla-
va» latino quasi come a’ tempi d' Orazio e
di Virgilio, disputavasi presso il Rucellai
della filosofia greca siccome negli orti d' Ac-
cadendo, e lenta vasi di dare aspetto c forma
greca e latina, ossia pagana, anche a' doni-
mi ed a’ riti del Cristianesimo. Ora, essendo
cosi un tale studio passato in succo e sangue,
non è a stupire che il Cinquecento traduces-
se molto, e traducesse felicemente. Quel se-
colo pensava e sentiva come gli originali che
proponcasi di far conoscere. 11 Trecento tra-
dusse mollo, ma conservando sempre T im-
pronta propria e originale ; il Cinquecento
può dirsi che traducesse quasi sempre, anche
allora che scriveva di proprio.
ii Dna bella prova di ciò che vi dico sem-
brami di vederla in quella dote singolare
delle versioni del Cinquecento, le quali sono
fatte con tanta libertà e franchezza, che leg-
gendole siete ognora tentato di credere d'a-
vere innanzi agli occhi gli originali. Prende-
te il Tito Livio di Jacopo Nardi, il Tacito di
Bernardo Davanzali, c voi potete andare da
un capo all’ altro di quei libri senza pensare
clic i due storici abbiano scritto in altra lin-
gua. Leggete i versi del Caro e dell’ Anguil-
laia, e voi direte che T autore dell' Eneide
e quello delle Metamorfosi non sarebbersi
per avventura espressi diversamente, scri-
vendo nel nostro volgare.
« Ciò che vi dico di qnesti volgarizzatori,
che debbono a mio avviso tenersi come i
principi, puossi con egual dritto applicare
al Machiavello, al Firenzuola, al Segni, al
Bonfadio, al Varchi, all' Adriani, al Castel-
vetro, e in somma a quanti posero allora la
mano a tradurre....
« I pedanti dc'sccoli posteriori, intenden-
do la fedeltà a modo loro, cioè in un senso
lutto grammaticale, gretto c arido, abusaro-
no le più volle dell' arte critica, istituendo
una specie di nolomia poetica; c posta, per
esempio, di fronte la lesta coronata di Yirgi-
X
M VIRGILIO E DELLE Sl'E OPERE
lio a quella del commendatore Annibai Caro,
sentenziarono: Vedete/ quelle linee non sono
eguali; mancano alcune pennellale, quel-
le rughe tono meno profonde, o cosi via.
Talvolta presero i versi d' Ovidio, e staccan-
doli ad uno ad uno vollero poi appaiarli con
quelli dell'Anguiilara, stillandosi il cervello
per cercarne le differenze... Sennonché, ad
onta di tulli questi sforzi, non si giunse mai
a spodestare nè il Nardi, nè il Davanzali, nò
il Caro, nè l' Anguillara, e lo comune debi-
tori con la scorta del buon scuso riuscì a ri-
spondere alle freddure grammaticali, conti-
nuando a leggere quei volgarizzatori del Cin-
quecento, i quali tradussero più liberamen-
te, ma sentirono meglio d' ogni altro gli an- I
tic hi. i
IH.
Tenendo poi a parlare più particolarmen-
te del Caro c delta sua versione dell'Encide,
cosi si esprime il Ccrcscto :
o II Caro non istancossi mai di adoperare
intorno a' suoi lavori la lima... c quando per
lo inllevolimcnlo della salute scntivasi giù
costretto a desistere da ogni pubblico ufllzio
c a cercar riposo in una amena villetta di
Frascati, egli protcstavasi di non voler più
sapere nè di poeti nè di poesia, nè di prose
o prosatori; ma intanto non lasciava di dare
l' ultima mano alle cose sue, c per tratteni-
mento dallo scioperio preparava il suo più
grande lavoro, cioè la versione dell' Eneide.
Narrano ( ed egli medesimo panni ne accen-
ni in alcuna delle sue scritture ) che medi-
tasse di scrivere un poema, c clic la versio-
ne dclUEneidc non avesse a giovargli se non
come una prcpnrazionc alla grande intrapre-
sa. Non so quanto fosse per essere felice il
suo concetto... , ma noi dobbiamo almono
rallegrarci che il pensiero di quella futura
epopea cacciassclo anche non volendo nella
fatica del volgarizzare, a
E più innanzi :
a II Caro, quantunque nelle sue Rime si
adoperasse di sceverarsi alcun poco dalla
comune de' Petrarchisti, sarebbe, non meno
di tanti altri conlcm poranci suoi, caduto
nella dimenticanza, so in qualità di poeta
non si fosse serbalo un bello c luminoso di-
ritto alta corona poetica con la versione del-
l' Eneide, con la creazione di quel verso
sciolto che puossi dire veramente tutto suo.
con quello stupendo lavoro, che egli, senza
per avventura sospettare che ad esso princi-
palmente avrebbe il nome suo raccomanda-
to, ci lasciò appena compiuto morendo. Sic-
ché, per dirla con le parole del Carrcr, co-
in' era toccato di rimanere senza l' ultima
mano all’ originale Eneide, toccò pure di ri-
manere alta tradotta, e nell’ un caso c'ncl-
U altro per morte de’ loro autori.
« 11 Caro, per conservare la nobiltà grave
dell’ armonia virgi liana, tennesi in debito di
rinunziare al soccorso della rima, e in ciò
diede un duplice esempio d' accorgimento
artistico c di non comune ardimento. Quan-
tunque il verso sciolto risponda a maraviglia
all' esametro latino, pure il Caro, se fosso
stalo uomo di minor gusto e forza, avrcbbelo
ad ogni modo rifiutalo, avendo innanzi a sè
l' infelice tentativo del Trissino ed altri poco
più felici.. .. a
A'quali brani del Ccrcscto ci sia lecito ag-
giungere pur questo luogo d' un altro critico
di linissimo senso c giudizio, vogliam diro
di P. Pellegrini, il quale nel suo Indice del-
le scritture del leopardi, in proposito delta
versione del libro secondo dell'Encide, lavo-
ro giovanile di quel grande, cosi scrive:
« Il nostro giovine poeta studia suo passo,
compone la persona, gli atti, la voce, tutto
pendendo riverente c trepido dal suo Virgi-
lio, c non può intanto nè quello rappresen-
tare nè sè medesimo. Il Caro all’ incontro
non s' affanna di contraffare Virgilio, non
bada a' suoni della sua voce, non alle peste
delle sue piante; ma giltandosi per quei sen-
tieri che più sono dal suo gusto e dalle suo
forze, con quelle parole che la cosa gli dà,
che dal suo affetto prorompono, non batte la
stessa via, ma fa pari cammino, c con lui
giunge pari ad un medesimo termine. »
E nello stesso senso il Giordani, in queste
parole che pone in bocca ad esso Annibal
Caro : « — Prenderò le cose di Enea : ripe-
terò il racconto virgiliano ; darò i falli c le
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DI VIRGILIO E DELLE Sl'E OPERE
il
persemi;, anche gli alleili e le scnlcnzo del
poela Ialino: ma riceveranno vollo e abito
da me: di latini voglio che divengano ita-
liani. Non pretendo alla maestà di Virgilio;
comparirò non da principe, ina da gentiluo-
mo. Non lo uguaglierei nella dignità, lo vin-
cerò nell' evidenza. — E appunto di questo
( soggiunge il Giordani ) Io supera manife-
stamente ; poiché dell' altra, o volontario o
impotente, gli cedclle. E in prova mi basii-
no lo sterminio di Troia, le smanie della
sfortunato Didone ; senza eh' io ne adduca
altri luoghi non pochi. Sebbene quando volle
mostrò di poterlo pareggiare; e ben gli stelle
dappresso in una qualità diffìcilissima, che
dall' indole e dagli scritti di lui non si aspet-
terebbe ; ed è la nobile espressione di una
o avità d' affetti delicati, ccc. ere. »
Il Cinquecento però non ci à trasmessa
una versione della Buccolica nè della Geor-
gica, che valesse quelle di due poeti del se-
colo nostro, riusciti interpreti degni dcU'ctà
classica dello traduzioni: l'Arici e lo Shoc-
chi :
n Cesare Arici ( citiamo ancora il Ceresc-
lo ) scrisse di molti versi o tentò quasi tutl'i
generi di poesia, ma o fosse natura d' inge-
gno, o indirizzo di studi, pane nato alla di-
dascalica. Esordi col poema intitolato la Col-
tivazione degli Ulivi, ma con quello sulla
Pastorizia si mostrò tosto artefice consuma-
lo. La Pastorizia è l'opera più finita, l'ope-
ra dove sfolgoreggia in tutto la sua virtù l'in-
gegno dell’ Arici, o come diceva con insolita
lode il Giordani, l'opera classica e destina-
ta durarca per l' onore d' Italia, s
Le qualità dell' Arici poeta si ritrovano
ncll'Arici traduttore, e la sua Buccolica mo-
stra bene eh’ egli à sentito Virgilio, onde chi
non può legger questo nell' originale non à
mollo da rammaricarsi leggendolo nella sua
versione.
E lo stesso dicasi della Georgica volgariz-
zato da Dionigi Shocchi, che per delicatezza
e per grazia attica sto forse innanzi a tuli' i
moderni traduttori.
Sicché, dando la preferenza in questo no-
stra Raccolta al Caro, all' Arici e allo Shoc-
chi, noi crediamo non ci si possa contrasta-
re d' aver posto a fronte del lesto virgiliano
he classiche versioni.
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DELL’ ENEIDE
LIBRO PRIMO
llle ego, qui quondam gracili modulato» avena
Carmen, et, cgrcssus silvia, vicina coégi
Ut quamvis avido parermi arva colono,
(•rallini opus agricolis, al nunc liorrenlia Marti»
Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris
Italiani, fato profugus, l.avinaquc venit
l.itora ; multum ilte et tcrrìs iaclatus et alto
Vi superòm, saevac memorem lunonìs ob iram:
Multa quoque et bello passus, dum cnndcrcl urbem,
Inferrelquc deos Latio: genus linde I.alinum,
Albaniquc patres, atque aline moenia llomac.
Musa, mihi caussas memora, quo numinc laeso
Quidve dolcns regina dcùm tot volvere casus
Insignem pietale virum, tot adire laborrs,
Impulerit. Tanlaene animis coeleslibus irae?
Urbs antiqua fuit, Tjrii Icnuerc coloni;
Carthago, Ilaliam conira Tibcrinaque longc
Ostia, dives opttm, sludiisque asperrima belli:
Qtiam Iuno fcrlur terris magis omnibus imam
Postbabila coluisse Samo. Ilic illius arma,
Ilio curri» fuit; hoc regnum dea genlibus esse,
oiu’sainiu:, voi. III.
Quell’ io che già tra selve e Ira pastori
Iti Tiliro sonai l'umil sampogna,
K clic, de'bosclti uscendo, a mano a mano
Fei pingui e colti i campi, c pieni i voti
U’ogni ingordo colono, opra che forse
Agli agricoli è grata: ora di Marte.
I.’armi canto, c "I valor del grand’eroe
Che pria da Troia per destino ai liti
D’Italia c di Lavinio errando venne;
E quanto errò, quanto sofferse, in quanti
E di terra e di mar perigli incorse,
Come il trace l’insupcrabil forra
Del ciclo, c di Giunon l’ira tenace;
E con che dura c sanguinosa guerra
Fondò la sua rilladc, c gli suoi Dei
Ripose in Lazio; onde cotanto crebbe
Il nome de'Lalini, il regno d’Alba,
E le mura e l'imperio alto di Roma.
.Musa, tu ebe di ciò sai le cagioni,
Tu le mi détta: qual dolor, qual onta
Fece la Duo, ch’é pur donna e regina
De gli altri Dei, si nequitosa ed empia
Contra un si pio; qual suo nume l’espose
Per tanti casi a tanti affanni. Ahi I tanto
Possono ancor lassù l’ire e gli sdegni?
Grande, antica, possente e bellicosa
Colonia de’ Fenici era Carlago,
Posta da lungc incontr’ltalia e ’ncontra
A la foce del Tcbro: a Giunon cara
Sì, che le fur men care ed Argo c Samo,
Qui pose Farmi sue, qui pose il carro,
«
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1
HE 1.1.’ ENEIDE
Si qua falò siuant, iam lum Icnditque fovclquc.
Progcnicm scd onim Troiano a sanguine duci
Audierat, Tyrias olim quae vertere! arces;
llinc populum, late regem belloquc superbum,
Venturoni eicidio l.ibyae: sic voi vere Parcas.
Id nietuens, veterisqnc memor Saturnia belli.
Prima quod od Troiam prò caris gesserai Argis:
Nec dum eliain caussac irarum saevique dolorcs
Ezciderant animo; manct alla mente repostum
Iudicinm Paridi, , spretaeque iniuria fnrrnoe.
Et genus invisum, et rapii Ganymcdis bonoros:
His accensa super, iactatos aequorc loto
Troas, relliquias Danaum atque immilis Achilli,
Arcebai longe balio: multosque per annos
Errabant, acli fatis, maria omnia circum.
Tantao molis orai Romanam condere gentem.
Vi* e conspectu Siculae telluri* in allum
Vela dabant laeti et spumas salis aere rucbanl,
Quum limo, aetcninm senans sub pectore vulnus,
lloec secum: Meno inccpto desistere viclom,
Nec posse Italia Teucrorum avertere regem?
Quippe vetor fatis. Pallusne esurere classem
Argivftm, atque ipsos potuil submergere ponto,
Enius ob nolani et furias Aiacis Oilei?
Ipsa, lovis rapidum inculata e nubibus ignem,
Disiccitquc rates, everlitque aequora venlis,
lllum, evspiranletn transflzo pectore flammas,
Turbine corripuil, scopuloque infixil acuto.
Ast ego, quae ditóni incedo regina, lovisque
Et soror et coniuz, una cum gente tot annos
Bella gero. Et quiaquam numcn lunonis adorni
Praeterea, aul sappici aris imponal honorem?
Qui di porre avea già disegno c cura
(Se tal era il suo fato), il maggior seggio, •
E lo scettro anco universal del mondo,
ila già contezza avea ch'era di Troia
Per uscire una gente, onde vedrebbe
l.e sue torri superbe a terra sparse,
E de la sua ruina alzarsi in tanto,
Tanto avanzar d'orgoglio c di potenza,
Che ancor de l'Universo imperio avrebbe
Tal de le Parcho la voluhil rota
Girar saldo decreto. Ella, che tema
Avea di ciò, non posto anco in obblio
Come a difesa de'suoi cari Argivi
Posse a Troia acerbissima guerriera,
Ripetendone i semi e le cagioni,
Se ne senlia nel cor profondamenta
Or di Pari il giudicio, or l'arroganza
ll’Antigonc, il concubito d’Eletlra,
Lo scorno d’Ebe, alfin di Ganimede
E la rapina c I non dovuti onori.
Da tante, oltre il timor, faville accesa
Quei pochi alRilti c miseri Troiani
CIFavanzaro a gl'incendi, a le ruine,
Al mare, ai Greci, al dispieiato Achille,
Tcnea lungo dal Lazio; onde gran tempo
Combattuti dai venti e dal destino
Per tutti i mari andàr raminghi c sparsi.
Di si gravoso affar, di si gran molo
Fu dar principio a la Romana gente.
Eran di poco, e del cospetto appena
Ile la Sicilia navigando usciti,
E già, preso de l'alto, a piene vele
Se ne gian baldanzosi, e con le prore
F. co' remi farcan Fonde spumose;
Quando punta Giunon d'amara doglia.
Dunque (disse) ch'io ceda? e che di Troia
Venga a signoreggiare Italia un re?
Ch'io noi distorni? Oh mi son ronlra i Fati!
.Mi sieno. Osò pur Pallade, c polco
Ardere e soffocar già de gli Argivi
Tanti navilii, c tanti corpi ancidcre,
Per Beve colpa c folle amor d'un solo,
Aiace d'Oflèo. Conira costui
Ella stessa vibrò ili Giove il telo
Gii! da le nubi; ella commosse i venti
E turbò '1 mare e i suoi legni disperse:
E quando ei già dal fulminato petto
Sangue e fiamme anelava, a tale un turbo
In preda il diè, che per acuti scogli
Miscrabil ne fe'rapina e scempio.
Tanto può l'olla? Ed io, io de gli Dei
Regina, io sposa del gran Giove e suora,
Son di qncst'una gente onuii tant'anni
Nimica in vano? E chi più de' mortali
Sarà che mi sacrifichi, e m'adori?
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unno primo
3
Tuba Ruminalo scema (leu curde (ululili)*,
Mmboruui in palriam, loca Tela furenlibus austri*,
Acoliam renil. Ilic vasto rex Aeolus antro
Luctanles ventos Irmprslatesque sonortis
Imperio prendi, ac vinclis el carcere frenai.
Illi indignarne* magno nini murmurc molili*
Circum claustra fremimi: celsa sedei Acolus arce
Secplra tcnens, mollitque animo*, el temperai iras:
Si furiai, maria ac lerras eoelumque^irofundum
Quippe fcrant rapidi secum, vcrronlquc per auras.
Sed pater omnipolensspeluncis abdidit alris,
Hoc motuens: molemque el monlcs insuper allos
Imposuil, regemque dedii, qui focderc cerio
Ki premere, et laias sciret dare iussus habenas.
Ad quein lum luno supplex bis vocibus usa esl: .
Acolc, namque libi divùm paler alque boininuin rea
Ki mulccrc dedit lluctus el (oliere senio;
Gens inimica mibi Tyrrhcnum navigai aequor,
1 1 in m in Ilaliam porlans riclosquc Pcnales:
Incute vim venlis, submersasque obrue pupprs;
Aul agc diverso», et disiiec corpura ponto.
Sunl mibi bis septem prncslanli corporc Nymphae,
Quarum quae forma pulcherrima, Defopeam
Connubio iungam slabili propriamque dicabo:
Omnes ni lecum mcrilis prò talibus aiinos
Eligai, el pulrhra faciat le prole parentem.
Acolus liacc eonlra: Tuus, o regina, quid oples,
Esplorare tabor; niilii iussa capessero fas est.
Tu mibi, qundeniiiijnchnr rcgqj, ||| ggpplfl |(p'Q"<pm
CrnirmSTTln das epulis accumberc divùm,
THHItfÒrutliqdc faris lempeslalumquc polcnlem.
Hacc ubi dicla, eavum conversa cuspido montem
Impubi in latus; ac venti, velul agniine facto,
Qua data porla, ruunt, et lerras turbine perflant.
Incubuere mari, lolumque a sedibus imis
lina Eurusque Notusquc ruunl creberque proccllis
Ciò fra suo cor la Dea fremendo ancora,
Giunse in Eolia, di procelle e d’austri
E de le furie lor patria feconda.
Eolo è suo re ch’ivi in un antro immenso
Le sonore tempeste c i tempestosi
Velili, si com’è d’uopo, afTrcna c regge.
Eglino impetuosi c ribellanti
Tal fra lor fanno e per quei chiostri un fremilo.
Che ne trema la terra c n’urla il monte.
Ed ci lor sopra, regalmente adorilo
Hi corona c di scettro, in alto assiso
I.’ira e gl’impcli lor mitiga c molce.
Se ciò non fosse, il mar, la terra e ’l cielo
l acerali da lor, confusi e sparsi
Con essi andrian per lo gran vano a volo.
Ma la possa maggior del Padre eterno
Provvide a tanto mal; serrigli e tenebre
D'abissi e di caverne, e moli e monti
!.or sopra impose; ed a re tale il freno
Nè diè, cli’ei ne potesse or questi, or quelli
Con rcrla legge o ratlenere, o spingere.
A cui d’avauli l’orgogliosa Giulio.
Allora umile e supplichovol disse:
KOIo, poi clic il gran Padre del cielo
A lauto miuislcrio ti propose
Di correggere i venti c turbar Tonde,
Gelile inimica a me, mal grado mio.
Naviga il mar Tirreno; c giunta a vista
È giù d'Halia, al cui reame aspira,
E d'ilio le reliquie, ami Ilio lutto
Seco v’adduce e i suoi vinti Penati.
Sciogli, spingi i tuoi votili, gonfia Tonde,
Aggirali, conrondili, sommergili,
0 dispergili almeno. Appo me sono
Sette e sette leggiadre ninfe c belle;
E di tutte e più bella è più leggiadra
fi Dciopéa. Costei vogl’io, per merlo
Di ciò, che sia tua sposa, c che tu seco
Di nodo indissolubile congiunto
Viva lieto mai sempre, c ne divenga
Padre di bella e di te degna prole.
Eolo a rincontro: A le, regina (disse),
Conviensi che tu scopra i tuoi desiri,
Ed a me ch'io gli adempia, lo, ciò clic sono,
Son qui per te. Tu mi fai Giove amico.
Tu mi dèi questo scettro e questo regno;
Se re può dirsi un che comandi a’venti.
Io, tua mercè, su co'Celcsli a mensa
Nel ciel m’assido; e coi mortali in terra
Son di nembi posscnlo e di tempeste.
Cosi dicendo, al cavernoso monte
Con lo scettro d’un urlo il Ranco aperse;
Onde repente a stuolo i venti uscirò.
Avcan già co’ lor turbini ripieni
Dì polve e di tumulto i colli e i campi,
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I
DELL' ENEIDE
Africuj, ri vaslos volvunl ad lilora fi udii» .
Imequitur damorquc virimi stridorque rallentimi.
Eripiunl subilo nubes eoelumque ilirmque
Tcuerorum cv ocillit: potilo noi incubai Dira.
Inlonuere poli, et crebri.* mirai iguibus ocllirr:
Pracscnlcmque «iris inlrnlanl omnia niorlcm.
Estemplo Aencac soDuntur frigorc inombra.
Ingenui, cl, duplice* Icndcns ad sidera palma»,
Talia voce refert: 0 lerquc qiioterque beali.
Qui aule ora palrum Troiae sub nioenibus alti*
Contigli oppeierel 0 Danaum forlissiine genlis,
Tydide, mene Iliaci» occumbere campi»
Aon potuissc, Inaque animam liane eDunderc delira.
Sacvus ubi Acacidac telo iaccl llcrlor, ubi ingcns
Sarpedon: ubi lol Simois corrcpla sub tindis
Scula virtìm galea sepie et forlia corpo» \otvil?
Talia iactnnli stridens Aquilone procella
Vclum adversa ferii, fluclnsquc ad sidcra lullil.
Frangunlur renai : lum prora averli! ri undis
Dal latus: insequilur cumulo pracruplus aquac mons
Ili smunto in fluelu pendrnl: bis unda debiscons
Tcrram inlrr llticlus npcril; furi! acslus arrnis.
Trcs iSolus abreplas in saia lalrnlia lorqucl,
.Saia, vocali! Itali mcjliis quae in fluctibus Ara»,
llorsiiin immane mari stimino: trcs Eurus ab allo
In brevia cl Syrlcs urget, miserabile visu,
llliditqur vadis, atquc aggerc cingi! arrnac.
Dilani, quae Lycios lldumque vrlirbal Oronlcn,
Ipsius ante oculos ingcns a vertice potilo»
In puppim ferii : nciililur prouusquc magislrr
Volvilur in caput: asl ili un ter flurtus ibidem
Torqurt agcns circum, et rapidus voral arquore verini.
Apparcnl rari nanles in gurgitc vasto;
Arma virAm, labulacquc, ri Troia gara per undas-
laro validam llionci navrm, iam fortis Acbalac,
Kl qua vrelus Abas, cl qua grandaevus All'Ics,
Tiril liicnis: laiis lalcrum compagino» oninrs
Aeeipiunt iuimirum inibrem, riuiisquc fali-euul
t
Quando quasi in un gruppo ed Euro e Aulo
Savvenlaron net mare, c liti da l'imo
l.o lurliàr si, clic nc fèr valli c monti:
Molili, ch'ai ciel quasi di lieve aspersi,
Snrli l'un dopo I alini, a mille a mille
Volgendo, se ne glan caduchi e mobili
Con suono e con ruiiia i liti a frangere. :i
Il grido, lo stridore, il cigolare
De' legni, de 4c sarte e de le genti,
I nugoli chc'l ciclo e'I dì velavano,
l.a buia nollc, ond'era il mar covcrlo,
I luoni, i lampi spaventosi e spessi,
Tulio ciò che s'udla, ciò clic vedevasi
Rappresentato orror, perigli e morte.
Smarrissi Enea di tanto, c tale un gelo
Sentissi, che tremante al ciel si volse
Con le man giunte, e sospirando disse:
0 mille volte fortunati c mille
I Color clic scilo Troia e nel cospcllo
Dc'padri c de la patria ebbero in sorte
Di morir comballendo! 0 di Tidéo
Follissimo ligliuol! che io non potessi
Cader per le tue inani, e lasciar ivi
Questa vita alTaunosa, ove lasciolla
Vinto per man del bellicoso Aditile
F.llor famoso e Sarpedonle alierò?
E se d'acqua perire era il mio falò,
Perché non dote Xant», o Simoènla
Volgoli lanl'armi c laidi corpi nobili ?
Cosi dicca: quand'ecco d'Aquilone
Tua bulTa a rincontro, che stridendo
Squarciò la vela, c il mar spinse a le slello.
Fiaccàrsi i remi; o là 've era la prua,
(ìirossi il banco; e d'acqua un monlc intanto
Venne come dal cielo a cader giù.
Pendono or questi or quelli a Tonde in cima;
Or a questi or a quei s'apre la terra
Fra due liquidi monli, ove l'arena
Aon mcn cli'a i liti, si raggira c ferve.
Tre nc furori dal Nolo a Tare spinte:
(Are chiamali gli Vusonii un sasso alpestre
Da l'allena de Tonde allor celalo,
Clic sorgea primo in allo mare altissimo) :
E Ire ne fur dal pelago a le Sirli,
.Miserabile aspetto I nc le secche
Traile de l'Euro, e nc l'arena immerse.
Una, che 'I carco aveu del fldo Oronlc
Con le genli di Licia, avanti agli ocelli
Di lui perì. Venne da Borea un'onda,
Ami un mar che da poppa in guisa urlolla,
Clic 'I temoli fuori o 'I lenionicr nc spinse;
E lei girò si clic ’l suo giro slesso
Le si fe' sotto c vortice e vorago,
Da cui rapila, vacillante e china,
Quasi slamo palèo, Ire volle volta
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LIB110 i'HIJIO
S
Inlorea magno misteri murmurc poolum,
Emissamquc liicmcm sensi! Neplunus, et imis
Staglia refusa vadis. Gravitar commotus, et allo
Prospicicns, somma placiduin caput citulil unda.
Ilisicctam Aenoae (olo vide! acquorc classem:
Kluclibus oppressos Troas cocliquc ruina.
Ncc lalucrc doli fralrem lunonis et irac.
Eurum ad se Zephjrrumque vocat; dcliinc lalia fatar:
Tantanc vos generis tenuil fiducia rostri?
lutti coelum (erramque, meo sinc numinc, venti,
Itlisccre, et lantas audetis tollero nioles?
Quos ego — Sud ifiolos pracslat componerc fluctus.
Posi mitii non simili poena commossa luetis.
naturate lugani, regique liaec dicitc vcslro:
kon illi impcrium pclagi saevumque tridentem.
Sud milii, sorte datum. Tenet ille immania saia,
Vcslras, Euro, domos: illa se iactet in aula
Acoius, et clauso ventorum carcere regncl.
Sic ail, et dicto citius tumida acquora placai:
Collectasque fugai nubes, solcraquc reduci!.
Cymothoè simul et Trilon adnixus acuto
Detrudunt naves scopulo: levai ipso tridenti;
Et vastas aperii Syrtes, et temperai acquor;
Alque rolis sutnmas levibus perlabilur undas.
Ac, veluli magno in populo quum saepe coorla est
Scdilio, sacvitquc animis ignobile vulgus;
lamquc faces et sava volani; furor arma ministrai:
Tum, piotate graverò ac mcritis si forte virum quem
Conspcxere, sileni; arreclisquc auribus adslanl;
lllc rcgil dici» animos, et pectora mulccl:
Sic cunclus pclagi cecidil fragor, acquora postquam
Prospicicus genilor, cocloquc inveelus aperto,
Flcclit cquos, curruque volatis dal lora sccundo.
Calossi gorgogliando, c s'alToudù.
Già per l'ondoso mar disperse e rare
Le navi e i naviganti si vedevano:
Già per tutto di Troia a Tonde in preda
Arme, tavole, arnesi a nuoto andavano:
Già quel ch'era più valido c più forte
Legno d'Ilioneo, già quel d'Acale
E quel d'Abantc c quel del vecchio Alete,
Ed al fin tutti sconquassali, a Tondo
Micidiali arcano i fianchi aperti;
Quando a tanto rumor da l'antro uscito
Il gran Nettuno, e visto del suo regno
Rimescolarsi i più riposti fondi:
Oh, disse irato, ond'è questa importuna
Tempesta? E grazioso il capo fuori
Trasse de Tonde; c rimirando intorno,
Per lo mar tutto, dissipati c laceri
Vide i legni d'Enea; vidi Io strazio
Oe’suoi, ch’a la tempesta, a la ruina
E del mare e del ciclo erano esposti.
E ben conobbe in ciò, come suo frale.
Che ne fora cagion Tira c la froda
De Tempia Giuno. Euro a sò chiama c Zefiro,
E ’n (al guisa acremente li rampogna:
Tanta ancor tracotanza in voi s'allctta,
• Razza perversa? Voi, voi, senza me,
Nel regno mio, la terra e T cicl confondere,
E far nel mare un si gran moto osate?
Io vi farò Ma di mestiero è prima
Abbonazzar quesfonde. Altra fiata
In altra guisa il fio mi pagherete
Del fallir vostro. Via tosto di qua,
Spirti malvagi; e da mia parte dite
Al vostro re, che questo regno c questo
Tridente è mio, e che a me solo è dato.
Per lui sono i suoi sassi e le sue grotte,
Case degne di voi. Quella ì sua reggia:
Quivi solo si vanti; c per regnare,
De la prigion de’suoi venti non esca.
Cosi dicendo, in quanto appena il disse,
Lo tempesta cessi, s’acquetò ’l mare,
Si dileguàr le nubi, apparve il sole.
Cimolòc c Triton, l'utia con Tonde,
L'altro col dorso, le tre navi indietro
Ritirir da lo scoglio in cui percossero.
Le tre che ne l'arena cren sepolte,
Egli stesso, le vaste sirli aprendo,
Sollevò col tridente, ed a sè Irassele.
Poscia sovra ai suo carro d’ogn’inlorno
Scorrendo lievemente, ovunque apparve,
Agguagliò T mare, c lo ripose in calma.
Come addivicn sovente in un gran popolo,
Allor che per discordia si tumultua,
E ’mperversando va la plebe ignobile.
Quando Caste e le faci e i sassi volano,
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«
I tlL' ENEIDE
Defessi Aeneadao, quae prolima litora, ciirsu
Contendimi petcrc, et I.ibyac tertuntur ad oras.
Est in secesso longo loctis; instila portimi
Efflcil obicclu late rum, quilius onuiis ab alto
FrangilurThque sinus scindit sc*e linda rednetos.
Uìtic atqurhlnc Tnstae rupcs geminique minunlur
In coclum acopuli; quorum sub vertice late
.Equora tuta sileni: tum sii vis scena coruscis
Desuper, horrcnlique alruìR nemus imminet umbra.
Eronlc sub adversa scopulis pendcnlibus antnim;
lutila aquae dulc.es, viroque sediba saio;
Nympbaruui domus. Ilio fessas non vincola naves
lilla tenenl; urico non alligai ancora morso.
Due. seplcm Aeneas collcclis navibus ontni
Ex numero subii: ac. magno tclluris amore
Egressi, optala pntiunlur Trocs arena,
Et sale tabentes arlus in lilorc ponunl.
Ac primum silici scintillam eicudil Aeliates,
Susccpilquc ignem foliis, alque arida circiim
Mulrimenla dedit, rapuilque in romite (lammam.
Tum Ccrerem corruptam undis Cercaliaquc arma,
Eipediunt fessi rerum| frugesque receplas
Et torrerc parant flammis et frangere saio.
Aeneas scopulurn interra conscendil, et tunnem
Prospeclum late pelago petit; Antliea si quem
Iactalum Tento videal, Plirygiasquc biremes,
Aut Capyn, aut celsis in puppibus arma Caici.
Navcm in conspeetu nullam, tres lilorc cervos
Prospicil erranles: hos tota armenta sequuulur
A tergo, et longtim per vallcs pascitur agmen.
Constili! hic, arcumque manu ccleresquc sagitlas
Corripuit, fidus quae tela gcrebal Acbates;
Ducloresque ipsos primum, capila alta fcrcntcs
Cornibus arboreis, sterni!; tum vulgns;ol omnem
Miscct agcns lelis nemora inler frondea turbam;
Nec prius absistit, quam seplcm ingentia viclor
E l'impeto e 'I furor l'arme ministrano;
Se grave personaggio e di gran merito
Esce lor contro, rispettosi c timidi,
Patto silenzio, attentamente ascoltano,
Ed al detto di lui tulli s'acquetano:
Cosi d'ogni ruina e d'ogni strepilo
Fii 'I mar disgombro, allor che umile e placido
A cielo aperto il gran rellor del pelago
Co'suni lievi destrier volando scorselo.
Slancili i Troiani a i liti ch'eran prossimi
Drizzare il corso, e 'il l.ibia si trovarono.
É di là lungo a la riviera un seno.
Anzi un porto; che porlo un'isoletta
Lo fa. che in su la bocca al mare opponsi.
Questa si sporge cosuoi fianchi in guisa
Ch'ogni vento, ogni finito, d’ogni lato
Che vi percuota ritrovando intoppo,
0 si frange, o si sparle, o si riversa.
Quinci e quindi alti scogli e rupi altissime.
Sotto cui stagna spazioso un golfo
Securo e quelo: e v'ha d’alberi sopra
Tale una scena, che la luce e 'I solo
Vi raggia, c non penèlra: un'ombra opaca,
Anzi un orror di selve annose e folte.
D'incontro è di gran massi e di pendenti
Scogli un antro muscoso, in cui dolci acque
Fan dolce suono; e v'ha sedili c sponde
Di vivo sasso: albergo veramente
Di ninfe, ove a fermar le stanche navi
Kè d’àncora t'è d'uopo, nè di sarte.
Qui sol con selle, che raccolse appena
Di tanti legni, Enea ricovcrossi;
Qui stanchi lutti c maceri, c del maro
Ancor paurosi, i liti appena attinsero.
Clic a terra avidamente si gettarono.
Arale fece in pria selce c focile
Scintillar foco, e diegli esca c fotnrnlq^
Altri poscia d'intorno ad altri fuochi
(Come quei clic di villo avean disagio,
E le biade trovar corrotte e molli)
Si dier con vari studi e vari ordigni
A rasciugarle, a macinarle, a cuocerle.
Intanto Enea, sovr'un de'scogli asceso,
Quanlo si discopria con l'occhio intorno,
Slava mirando se alcun legno fosse
Per alcun luogo apparso, o quel di Antéo,
0 quel di Capi, o pur quei di Calco
die in poppa avea la più sublime insegno,
fiìun ne vide; ma ben vide errando
Gir per la spiaggia Ire gran cervi, e dietro
D’altri minori innumcrabil torma,
Che in sembianza d’armenti empian le valli.
Fcrmossi: c pronto a colai uso avendo
L'arco e 'I turcasso (chè quest'armi appresso
Gli portava inai sempre il lido Acale),
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LIBRO PRIMO
1
Corpora fumisi Rumi, et numerimi cum navibus acquei.
Dine portum polii, et soo.ios parlilur in omnes.
Vina, bonus quac deinde cadis onerarsi Aceslcs
Lilore Trinacrio dederalque abeuntibus lieros,
Dividi!, et diclis moerenlia pecioni mulcct:
0 soci), (neque cnim ignari sumus ante malorum)
0 passi graviora; dabil deus his quoque flnem.
Vos cl Scyllacam rabicm pcnilusqiie sonanles
Acccslis scopulos; vos el Ciclopia saia
Eipcrti. Revocate animo», moestumque limorem
Minile. Forsan el baec olim meminisse iuvabil.
Per varios casus; per tol discrimina rerum
Tendimus in Lalium, sedes ubi fata quietas
Oslondunl; illic fas regna resurgere Troiae.
Durale, cl vosmet rebus servale sccundis.
Talia voce rcferl: curisque ingenlibus aeger
Spem vullu simulai, premil alluni corde dolorem.
liti se praedac accingimi dapibusque fuluris:
Tergora deripiunt coslis, cl viscere nudanl;
Pars in frusta secanl, veribusque tremenda figunl,
Lilore aèna locanl alii, flammasque minislrant. ,
Tum vjctu revocanl vircs, fusique per berbam
Implenlur veleria Bacchi pinguisque ferinae.
Poslquam eiemla fames epulis, mensaeque remoiae,
Amissos longo socios sermone requirunl;
Spcmque melumquo inler dubii, seu vivere credanl,
Sive estrema pali, nec iam exaudire vocalos.
Praccipue pius Aeneas, nunc acris Oronli,
Nunc Amjrci casum gemil, et crudelia secum
Pala Lyci, forlemque Gyan, forlemque Cloanlhum,
Diè lor di piglio; c saellando prima
I primi Ire, che più vide allamenle
Erger le leste c inalberar le corna,
Contra '1 volgo si volse; e 'I Ilio c '1 bosco,
Ovunque gli senrgea, fulgurò tulio.
No caccio, ne feri, strage ne fece
A suo diletto: nè si vide prima
Sazio, che come sette cran le navi,
Selle non ne vedesse a terra stesi.
In questa guisa, ritornando al porlo,
Gli sparti parimente a’suoi compagni :
E con essi del vin, clic il burnì Acesle
A l'uscir di Sicilia in don gli diede,
Molt'urne dispensò per ricrearli.
Poscia, a conforto lor, cosi lor disse:
Compagni, rimembrando i noslri affanni,
Voi n’avete infiniti ornai sofferti
Vie più gravi di questi. E questi fine
Quando che sia, ia dio mercede, avranno.
Voi la rabbia di Scilla, voi gli scogli
Di lutti i mari ornai, voi de' Ciclopi
Varcaste i sassi; ed or qui salvi siete.
Riprendete l'ardir, sgombrale i pelli
Di temo e di tristizia. E verrà tempo
Un di, che tante e cosi rie venture,
Non cb'ailro, vi sarai! dolce ricordo.
Per vari casi, per acerbi e duri
Perigli è d'uopo far d'Italia acquisto.
Ivi riposo, ivi letizia piena
Vi promettono i Fati, e nuova Troia
E nuovi regni al fine. Itene intanto;
Soffrite, mantenetevi, serbatevi
A questo, che dal ciel si serba a voi,
SI glorioso e si felice stalo.
Così dicendo a’suoi, pieno in sé stesso
D'alti e gravi pensicr, tcnca velalo
Con la fronte serena il cor doglioso.
Fecer tulli coraggio; e di cibo avidi
Già rivolli a la preda, altri le tergora
Le svclgon da le coste, altri sbranandola,
Mentre è tiepida ancor, mentre che palpila,
Lunghi schidioni c gran caldaie apprestano,
E l’acqua intorno e’I fuoco vi ministrano.
Poscia d'un prato e seggio c mensa fattisi.
Taciti prima sopra l'erba agiandosi,
D'opima carne e di vin vecchio empiendosi,
Quanto puon lietamente si ricreano.
Poiché Tur sazi, a ragionar si diero,
Con voce or di timore or di cordoglio.
De' perduti compagni, in dubbio ancora
Se Tesser vivi, o se pur giunti al fine
Più de'richiami lor nulla curassero.
Enea vie più di tutti, e di piotate
E di dolor compunto, il caso acerbo
Or d'Amico, or d'Oronle, e Lieo e Già
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DEI.L* ENEIDE
Et iam finis orai, qiium Inpilcr, nolliere summo
Dcspicicns mare velivolum, lerrasque iaconlos,
Liloraqtic, et latos populos, sic vortice cucii
Conslitit, et Libyae defivit lumina regnis.
Atque illum, lales iaclaniom pcclorc furar,
Tristior et lacrimis oculos soffusa nilentos,
Alloquilur Vcnus: 0 qui res hominùmque dcòmquc
Jvtcrnis regis imperiis, et Fulmine terrcs,
Quid meus Aoncas in te comminerò tantum,
Quid Trocs potuore, quibus, tot renerà passis,
Cunctus ob llaliam lorrarum olaudilur (irbis?
Certe bine Romanos olim, «olvenlibus annis,
Dine foro duclorcs, revocato a sanguine Teucri,
Qui mare, qui terras omni ditiona lonoront,
Pollicitus. Quac le, gonilor, sontenlia verbi?
IIoc equidem occasum Troiac trislesquc ruinas
Solabar, Fatis contraria Fata rependens.
Nunc eadem Fortuna viros tot casibus aclos
Insequitur. Quem das finem, rei magne, laborum?
Anlenor potuit, mediis etapsus Achitis,
lllrricos penetrare sinus atque intima lutus
Regna Libtirnorum, et Fonlem superare Timavi,
t'mlc per ora novem vasto cum murmurc monlis
It mare proruptum, et pelago premil arva sonanti,
llic tamen ille urbcm Palavi sedesque locavi!
Teucrorum, et genti nomcn dedit, armaque fivit
Troia; nunc placida compostus pace quicscit.
Kos, tua progenies, coeli quibus adnuis arccm,
Navibus (inFandum) amissis, unius ob iram
Prodimur, atque Italis longc disiungimur oris.
llic piclatis honos? sic nos in sceptra reponis?
Ne'snspir richiamala e'I buon Cloanlo.
Erano al line ornai; quando il gran Giove
Da l'alta spera sua mirando in giuro
La terra e ’l mar di questo basso globo;
Mentre di lilo in Ilio, c d’uno in altro
Sceme I popoli lutti ; ai ciclo in cima
Fcrmossi, c ne la Libia il guardo affisse.
Venere, allor eli' a le terrene cose
Lo vide intento, dolcemente affiitla
Il volto, e molle i begli occhi lucenti,
Gli si Fece davanti, c cosi disse:
Padre, che de’ mortali c de' celesti
Siedi eterno monarca, c Folgorando
Empi di tema c di spavento il mondo,
E quale ha contro te Fallo si grave
Commesso Enea mio Aglio, c i suoi Troiani,
Che dopo tanti aFTanni n tante stragi,
Clt’ban di lor Fatto il Ferro, il Fuoco c 'I mare,
Non trovili pace, ni pietà, nè loco
Pur che gii accetti? In colai guisa ornai
Del mondo son, non dio d'Italia, esclusi t
10 mi credca, signor (quel che promesso
N’cra da le) clic tornasse anco un giorno.
Quando che fosse, il generoso germe
Di Dàrdano a produr quei gloriosi
Eroi, quei duci invitti, quei Romani
De I' universo domatori c donni :
E tu mcl promettesti. Or come. Padre,
11 cicl cangia destino, c tu consiglio?
Questa sola credenza era cagione
Di consolarmi in parte de l'eccidio
De la mia Troia, ch’io soffi issi in pace
Tante ruinc sue, Fato con Fato
Ricompensando. Or la Fortuna stessa,
E vie più Tcra, la persegue c dura.
E quanto durerà, signore, ancora ?
Tal non Fu già d'Antenore l'esilio ;
Ch’ ei non più tosto de l’Achivc schiere
Per mezzo uscio, che con Felice corso
Penetrò d'Adria il seno ; entrò sccuro
Nel regno de' Liburni ; andò fin sopra
Al Fonte di Timavo ; e là ’vc il fiume
Fremendo il monte intuona, e là 've aprendo
Fa nove bocche in mare, e, mar già Fatto,
Inonda i campi e romoreggia e Frange,
Padoa Fondò, pose de' Teucri il seggio,
E diè lor nome, c le lor armi affisse.
Ivi ridotto il suo regno, e composto
Quietamente, or lo si gode In pace.
E noi, noi, del tuo sangue, e clic da le
Avcmo anco del cielo arra c possesso.
Ad una sola indegnamente in ira.
Perdute, oimè I le proprie navi, fuori
Siamo d' Italia c di speranza ancora
Di non mai più vederla! Or questo è T pregio
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LIBRO PRIMO
»
Olii subriilens homimim sator atquc dcorum
Vultu, quo coclum lempcstatesqiic serenai,
Oscula libati! nalae; debine talia Tallir:
Parce raelu, Cyllicrea; mancnt immola tuorum
Fata libi; cernes urbcm et promissa Latini
Uoenia, sublimcmque fercs ad sidera codi
Magnanimum Aencan; neque me sentcntia verlil.
llic libi (rabor enim, quando haec te cura rcmordel,
Longius cl volvcns Talorum arcana movebo)
Bcllum ingens gore! Dalia, populosquc fcroccs
Contunde!; moresque «iris et mocnia ponct,
Tcrlio dum Lalio regnantom viderit acstas.
Ternaquc transicrint Rululis liiberna subaclis.
A! pucr Aseanius, cui nunc cognomcn luto
Addilur (llus crat, dum rea stclit Dia regno),
Triginla magnos volvcndis mensibus orbes
Imperio ciplebil, regnumque ab sede Latini
Transferct, et Longam multa ti muniet Albam.
llic iam ter cenlum tolos regnabitur annós
Gente sub liectorca; doncc regina sacerdos
Marte gratis geminam partii dabil Dia pro.'em.
Inde lupae fulvo tiulricis tegmine laetus
ltomulus cicipicl gcnlcm, et Mavorlio comici
Mocnia, Romanosquc suo de nomine dicci.
Ilis ego ncc mctas rerurn nec tempora pono:
Imperium sinc line dedi. Quin aspera [uno,
Quac mare nunc lerrasquc mctu coelumquc Litigai,
Consilia in melius referet, mecumquc Tovebit
Romanos, rerurn dominos, gcnlomquc togalam.
Sic placilum. Veniel lustris labcnlibus aclas,
Ouum domus Assaraei Phlliiam clarasquc Mycenas
Servii io premei, ac victis dominabitur Argis.
Nascelur pulelira Troianus origine Cacsar,
Imperium Oceano, famam qui lerminet astris;
lulius, a magno demissum noincn lido.
Dune tu olim coclo, spoliis Orienlis onuslum,
Accipics sei-uro; tocabilur hic quoque volis.
Aspcra tum positis milcsccnt sccula bcllis.
Cana Fides, et Vcsla, Remo cum fratre Quirinns
tura dabunt: dirne Terrò et compagibus aretis
Claudcnlur Belli portac. Furor impius inlus,
Sacra sedens super arma, et centum vinctus acni]
Post Icrgum nodis, fremei borridus ore cruento.
VlBClLIO, VOI. etneo
Clic si dete a pieladc ? E questo è I regno
Clic da te, Padre mio, ne si promette?
Sorrise Giove, c con quel dolce as|>cllo
Con clic ’l cicl rasserena e le tempeste,
Rimirolla, bacìolla, c cosi disse :
Non temer, Citcrea , cliè saldi c certi
Stanno i Fati de’ tuoi. S’ adempieranno
Le mie promesse : sorgeran le torri
De la novella Troia : vedrai le mura
Di Lavinio ; porrai qui fra le stelle
Il magnanimo Enea. Cliè nè T desiino
In ciò si cangi-ri , nè’l mio consiglio.
Ma per trarti d' affanni, io te ’l dirò
Più chiaramente, e scoprirotti intanto
De’ Fati i più reconditi secreti.
Figlia, il tuo figlio Enea tosto in Italia
Sarà ; farà gran guerra, vincerà ;
Domerà fere gonfi ; imporrà leggi ;
Darà costumi, c fonderà città :
E di già, vinti i Rululi, tre verni
E Ire stali regnar Lazio vcdrallo.
Ascanio giovinetto, or detto lulo,
Ed Ilo prima infin eh' Ilio non cadde.
Succedergli ; e frema giri interi
Del maggior lume, il sommo imperio avrà.
Trasferirallo In Alba : Alba la Lunga
Sarà la reggia sua possente c chiara.
Qui regneranno poi sotto la gente
D’ Ettore un dopo I* altro un corso d’anni
Tre volle cento ; fin eli’ Dia regina
Vergine e sacra, del gran Marte pregna,
D’un parlo produrrà gemella prole-
indi capo ac Ila Romolo invitto.
Questi, invece di manto, adorno il tergo
De la sua marzia! nudrice lupa.
Di Marte fonderà la gran cittadc ,
E dal nome di lui Roma diralla.
A Roma non pongo io termine o fine ;
Chi; fla del mondo imperatrice eterna.
E l'aspra Giulio, che or la terra e il mare
E il ciel per tema intorbida c scompiglia.
Con più sano consiglio al mio conforme
Procurerà elio la Romana genie
In arme c ’n toga a l’ universo imperi.
E cosi stabilisco: c cosi tempo
Ancor sarà di' Argo, Micene c Flia
E i Greci lutti tributari c servi
De la casa di Assàraco saranno.
Di questa gente, c de la Iuta stirpe.
Clic da quel primo lulo il nome ha preso,
Cesare nascerà, di cui l' impero
E la gloria fìa tal, clic per contine
L’ uno avrà l' Oceano, c F alba il cielo.
Questi, già vinto il lutto, poi che onusto
De le spoglie sarà de l’ Oriente,
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10
LEU.' ENEIDE
Haec sii, ci Maia gciiimm demillit ab allo,
1 1 lerrac, ulquc novac patcanl Carlhaginis arocs
Ilospilio Teucris, no Tali ncscin Dido
Finibili arcarci. Volai illc por aera magnum
Remigio a la rum, ac I.ibyac cilus aitetitit oris.
El iam lussa faeit; ponuntque ferocia Poeni
Corda, volenle deo. In primis regina quieluni
Accipii in Tcucros animimi mentemquo benignam.
Al pius Aoiicas, per noclem plurima volvens,
l’I primum lux alma dala est, dire, locosque
Erplorare nnvos, quas renio accessorii oras,
Qui lencanl (nani inculla ridcl), bomincsne, fcracne,
Quacrcrc consliluil, sociisque Macia rcferrc.
Classcm in conrexo nemorum, sub rupe cavala
Arboribus clausam circum alque horrcnlibiis umbris
Occulil: ipsc uno gradilur comitalus Adiate,
Rina manu lato crispans baslilia ferro.
Cui malcr media scsc tuli! oblia sii va,
Virginis os habilumquc gerens, el virginis arma
Spariamo, vcl qualis equos ThrcTssa faligat
Harpalyce, rolucrcmquc fuga prceverlilur Eurum./'
Namque bumcris de more liabilem suspenderat arcuili
Venatriv, dederalque comam dilTundore renlis,
Nuda genu, nodoque sinus colicela fiucnles
Ac prior, Heus, inquii, iuvenes, monstralc, mearum
Vidislis si quam bic erranlcm forte sororum,
Succi nclam pbarelra el maculosac legminc lyncis,
Ani spumanlis apri cursum clamore premenlem.
Sic Vciius; el Vencris conira sic lilius orsus: ’ |
Aneli' egli airi da le qui seggio elenio,
E laggiù fra’ mortali incensi e voli.
I.’ aspro secolo allor, l’ ormi deposlc,
Si farà inilc. Allor la sanla Vesta,
E la candida Fede e il buon Quirino
Col frale Remo il mondo in cura avranno.
Allor con salde e ben ferrale sbarre
De la guerra saran le porle chiuse :
E dentro fra la ruggine sepolto,
Con cento nodi incatenalo e stretto
Gran tempo si starà l’ empio Furore ;
E rabbioso fremendo orribilmente,
Con fuoco a gli occhi, c bava o sangue ai denti
Morderà l’armi e le catene indarno.
Cosi detto, spedi tosto da l’alto
Di Maia il Figlio a far si eh' ai Troiani
Fosse Carlago c il suo paese amico,
Perchè del Foto la regina ignara,
Non fosse lor, per ferità de' suoi
0 per sua tema, inospitale e cruda.
Vasscne il messaggier per l’ aria a volo
Velocemente, e ne la Libia giunto,
Quel che imposto gli fu, ratto eseguisce.
E già, la dio mercè, lasciano i Peni
l.a lor fierezza ; e la regina in prima
S' imbeve d' un alleilo e d' una mente
Verso i Troiani alTabilc c benigna.
La notte intanto del pietoso Enea
Molli furo i sospir, molli i pensieri.
Conrhiusc al Un che all' apparir del giorno
Spiar dovesse, c riportarne avviso
A’suoi compagni, in qual paese il vento
(ìli avesse spinti ; e s' uomini, o pur fere
( Perchè incollo il vedea) quivi abitassero.
Cosi tra selve ombrose e cave rupi
Fatti i legni appiattar, sol con Acato,
E con due dardi in mano in via si pose.
In mezzo della selva una donzella,
Ch’ era sua madre, si coni' era avanti
Che madre fosse. Incontro gli si fece.
Donzella a Tarmi, a l'abito, al sembiante
Parca di Sparla, o quale in Tracia Arpalice
Leggiera c sciolto, il dorso affaticando
Di fugace dcslrier, l’ Ebro varcava.
Al collo avea di cacciatricc un arco
Abile c lesto, i crini a l’ aura sparsi,
Nudo il ginocchio ; e con bel noJo stretto
Tenca raccolto colla gonna il seno.
Ella fu prima a dire : Avreste voi,
Giovani, de le mie sorelle alcuna
Vista errar quinci, o ch'aggia l'arco al fianco,
0 clic gli omeri vesta d' una pelle
Di cerner maculato, o che guidando
D' un zannuto cignal segua la traccia ?
Così Venere disse : ed a rincontro
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LIBRO PRIMO
H
Nulla luaruiu audita uiilii aeque visa sororum,
0, quam te memoretn? virgo; namque liaud libi vullus
Mortali.*, ncc vox hominem sonai. 0 dea certe;
A n Phoebi soror? an Nympharum sanguini* una?
Sis Mix, nostrumque leve*, quaccunque, la borni),
Et quo sub coclo tandem, quibus orbis in oris
laelemur, doccas. Ignari hominuinquc locoruinquc
Erra m us t vento huc cl vastis fluclibus acti.
rvX* Multa libi anlejaras nostra cadct liostia destra.
• —u
~ F;
Timi Venus: liaud equidem tali me dignor lionoic.
Virginibus Tyriis mos est gestore pliarctram,
Purpureoque alte suras vincire colliurno.
Punica regna vides, Tyrios et Agenoris urbem;
Sed fincs Libyci, genus intraclabilc bello.
Imperium Dido Tyrio regii urbe profccta,
Ciermanum fugiens. Longa est iniuria, longae
Ambages; sed summa sequar fasligia remili,
lluic conimi* Sychacus crai, ditissimus agri
Plioeniciim, et magno miserac dilcctus amore,
Cui pater intaclam dcdcral, primisque iugaral
Orninibus; se«l regna Tyri germanus liabebat
Pygmalion, sedere ante alios immanior omues.
Quos inter medius venit furor. Ilio Sychaeum
Impins ante aras alque auri caecus amore
Ciani ferro incaulum superai, securus amorum
Gcrmannc; factumque diu cclavit, et negram,
Multo maius simulans, vana spc lusit amanlem.
Ipsa sed in somnis inhumali venit imago
Coniugis, ora modis altollens pallida miris:
Crudcles aras Iraiectaque pectora ferro
Nudavil, caccumque domus scelns omnc releiit.
Tum celerarc fugam patriaque eveedere suadel,
Auìiliunique viae veteres tellurc recluti il
Tlicsauros^ìgnotum argenti pondus et auri.
Ilis commota fugam Dido*sociosquc parafai.
Conveniunt, quibus aut odium crudele tyranni
Aut mclus acer erat; naves, quac forte paratac,
Compiimi, oneranlquc auro; porlantur avari
Pygma (ionia opes pelago; dux fermila faei L ^ I
Dcvencrc locos, ubi nunc ingcntia ccrnes
Mocnia surgentemque novac Cartilagini* arccin;
Mcrcaliquc solum, facli de nomine Byrsam,
Taurino quanlum possent circumdarc tergo.
Sed vos qui tandem, quibus ani veni sii s ab oris,
Qtiovc lenctis iter ? — Quaercnti tolibus ilio
Suspirans imoque Iralicns a pectore vocciu :
i
»
DI Venere il Figliuol cosi rispose.
Niuna ho de le lue veduta, o intesa.
Vergine, qual li dico, o di che nome
Chiamar li deggio ? che terreno aspetto
Non è già ’l iuo, nè di mortalo il suono.
Dea sei lu veramente, o suora a Febo,
0 liglia a Giove, o de le Mure alcuna :
E chiunque li sii, propizia c pia
Vèr noi li mostra, e i nostri affanni ascolla,
binile sotlo qual ciclo, in qual contrada
Siamo or del mondo. Chè raminghi andiamo;
E qui dal verno c da Ibrluiia spinti
Nulla o de gli abitami, o de' paesi
Notizia abbiamo. A le, se a ciò in' aiti.
Di nostra man cadrà piè d' una vittima.
Venere alior soggiunse : lo non in' arrogo
Celeste onore. In Tiro usan le vergini
Hi portar arco c di calzar collimi ;
E di Tiro c d‘ Agenore le gelili
Traggon principio, clic qui seggio lian poslo:
Ma T paese è di Libia, ed avvi in guerra
Genie feroce. Or n’ è capo c regina
liido elio, da 1‘ insidie del fratello
Fuggendo, è qui venula. A dirne il lutto
Lunga fùra novella c lungo illirico.
Ma, toccandone i capi, atea cosici
Siclico per suo consorte, una il piè ricco
Di lerra c d' oro, che io Fenicia fussc,
Da la meschina unicamcnlc amato,
Anzi il suo primo omorc. li padre inlalla
Nel primo iior di lei seco legnila.
Ma nel regno di Tiro nvea lo sccllro
Pigmalfon suo frale, un signor empio.
Un (iranno crudele c scellerato
Più eh' altri mai. Venne un Turor fra loro
Tal, clic Siclièo da questo avaro c crudo,
Per scic d’ oro, ove nidi guardia pose.
Fu Ira gli altari ucciso. E non gli valse
Clic la germana sua laido F amasse.
Ciò fc’ culaiamente ; c per celarlo
Vie piè, con finzioni e con menzogne
Deluso un tempo ancor l' aillilla amante.
Ma nel fin, di Sichéo la stessa imago
Fuor d'un sepolcro uscendo, sanguinosa,
Pallida, macilente, spaventevole
Le apparve in sogno e presentono, avanti
Gli empii altari ove cadde, il crudo ferro
Che lo Irailsse, e del suo frate tutte.
L‘ occulte scctlcraggini le aperse.
Poscia : Fuggi di qua, fuggi, le disse,
Tostamente e tulliano. E par sussidio
De la sua fuga, le scoperse un luco
Sotterra, ov’ era iuesliniabil somma
I)' oro»d' argento, di moli’ anni ascoso.
Qaiuci Dido commossa, ordine occulto
\
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ti
DELI.’ ENEIDE
.
^ ' a J 0 dea, si prima repctcns ab origine pergom
Et vacci annalcs noslrorum andire laborum,
Ante dicm clauso eomponcl Vesper Olympo.
Nos, Troia antiqua (si vcslras folle per nurcs
Traine nomcn iit) diversa per acquerà veclos,
Furie sua Libycis lempeslas appulil oris.
Som pius Aeneas, raplos qui ev liosle Penalcs
Classe veho menim, fama super aethera notus;
Italiani quaoro |. airi, un, el gamia ab love stimino.
Bis denis Phrygìum consccndi navibus aequor,
Maire dea monslranle viam, dola fata scculus ;
Vii seplcm eonvulsac undis Euroqtic supcrsunl.
Ipse ignotus, egens, l.ibyac deserta peragro,
Europa atquc Asia pulsus. — Ncc plura qncrenlcm
, \> Passa Vcnus medio sic interrala dolore est :
•v»
Quisquis cs, liaud, erodo, invisos eoelcslibus auras
\ ilalcs carpis, Tyriam ijui advcncris urbem.
Porge modo, atquc bine le reginac ad limina perfer..
Namquc libi rcduces socios elassemquc relalam £■■
Nunlio, el in tulum, versis aquilonibus, aclam,
Ni frustra augurium vani docuerc parenlcs.
Adspicc bis scnos laetantes ogmine eyenos ;
Aclhcria quos lapsa plaga lovis ales aperto
Turbabai coclo : none terras ordine longo»-
Aul capere aut caplas iam despeclaro videnlur.»
Di fuggir tenne, c d‘ adunar compagni ;
Chè multi n’ adunò, parte per odio,
Parie per tema di si rio tiranno.
Le navi, che lrovàr nel lido preste,
Cnricilr d’ oro, c (òr vela in un subilo.
Cosi T velilo porlosscne la speme
De P avaro ladrone. E fu di donna
Questo si degno e memorabil fallo.
Giunsero in questi luoghi, ov* or vedrai
Sorger la gran cillade e P alla ròcca
De la nuova Cartago, che dal fallo
Birsa nomossi, per I* astuta merce
Clic, per fondarla, fòr di laido silo
Quanto cerchiar di bue potesse un tergo.
Ma voi chi scic f onde venite ? c dove
Drizzale il corso vostro ? A lai richieslo
Pensando Enea, dal piò prorondo petto
Trasse la voce sospirosa, c disse :
0 dea, se da principio i nostri affanni
10 contar li volessi, e lu con agio
Udir una da me si lunga istoria,
Aon finirci, cliò fino avrebbe il giorno.
Noi siam Troiani (se di Troia antica
11 nome ti pervenne unqua a gli orecchi ),
E la tempesta clic per tanti mari
Già colali!' anni nclravolvc c gira,
N' ha qui, come lu vedi, al Im gillati.
Io sono Enea, quel pio ette da' nemici
Scampati ho meco i mici pairii Penati,
Fino a lo stelle ornai nolo per fama,
Italia va cercando, rhc per patria
Giove m' assegna, autor del sangue mio.
Con diccc c dicco ben guarnite navi
Uscii dì Frigia, il mio destin seguendo
E lo splendor de la materna stella.
Or sette me ne son restale appena,
Scommesse, aperte e disarmate tutte.
Ed io mendico, ignoto e peregrino,
De l' Asia in bando, da l’ Europa escludo,
E ’u fin dal mar pillalo or ne la Libia
Vo per deserti iitospili e selvaggi.
E qual ni' è piò del mondo or luogo aperto ?
Venere intenerissi ; e nel suo figlio
Tarn' amara doglianza non soffrendo,
Cosi il duol con la voce gl’ interruppe :
Chiunque sei, tu non sei già, cred'io,
Al oielo in ira ; poi eh' a si grand' uopo
Ti diè ricovro a si benigno ospizio.
Segui pur francamente : e quinci in corto
Va di questa magnanima regina ;
Ch’io già l’annunzio le tue navi, e i tuoi
Da miglior remi in miglior parte addotli
Salvi c sccuri ornai, se i miei parenti
Non ni' ingannar quando gli augurìi appresi.
Mira ià sopra a quel tranquillo stagno 4
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LIBRO PRIMO
13
t)l rcduces illi ludunt slridcnUbus alis, -
RI codu cimerò pollini, cautusque dolere ;
1 lauri aliler puppesquo tuife pubesque tuorum
AuWportum tene!, nul pieno subii ostia velo.
Porge modo, el, qua le ducil via, dirige gressum.
Oiiit et atprlens rosea cervice rcfulsil.
Ambrosiaeque comaedivinum vertice odorem
Spiravere ; pedes veslis dcfluvil ad imos ;
El vera incessi! paluil dea. lite ubi matrem
Agnovit, tali fugicntem csl voce scculus :
Quid nalum lolics crudclis lu quoque falsis
Ludis imaginibus? Cur dcilrae iungero dcilram
Non dalur, ac vcras audirc el reddere voces ?
Talibus incusal, gressumque ad moenia tendil.
Al Venus obscuro gradienles aere sepsil,
El multo ncbulae circuii! dea ludi! amiciu,
Cernere ne quis cos, neu quis conlingere posscl,
Molirivc morain, aut vcnicndi posccrc caussas.
Ipsa Paplmui sublimis abil. sedesque revisit
Laela suas, ubi lemplum illi, cenlumque Sabaco
Ture calcai arac, scrtisque rcccnlibus balani, i \ C
Corripuere viam inlcrca, qua semita monslral.
lamque adsccndcbant coliem, qui plurimus urbi
Imminct, adversasque adspeelat desuper arccs.
Miralur molem Aeneas, magalia quondam ;
Jliralur porlas, slrcpilumquc, et slrala viarum.
Inslanl ardenlcs Tyrii : pars ducere muros,
Molirique arcem, el manibus subvolvere saia,
l’ars optare locum ledo, et concludere sulco ;
lura inagislralnsqne Icgunt, sanclumque senalum
llic porlus olii eOodiuiil ; liic alla diedri
Fundamcnla locanl alii, immanesque columnas
Rupibus cicidunl, scenis decora alla futuris :
Qualis apes acslnte nova per florca rura
Eierccl sub sole labor, quum gcnlis adidlos
Educunt fclus, aul quum liqueulia niella
Dodici allegri cigni, die pur dianzi
Confusi c dissipali a cielo aperto
Erano in preda al fero augel di Giove,
Com' or, sottraili dal suo crudo artiglio,
Rimessi in lunga ed ozTosa riga
Si rivolgono a terra, c già la radono.
E s) com’ essi con gioiose ruote
Trattando l'aria, col cantar, col plauso
Mostralo han d' allegria segno e di scampo;
Cosi placato il mare, a piene vele
E le lue navi c gli tuoi naviganti
0 preso lian porlo, o tosto a prender l'hanno:
Vattene or lieto ove‘1 senlier li mena.
Ciò detto, nel partir la neve e l’ oro,
E le rose del collo e de le chiome,
Come l'aura movea, divina luce
E divino spirdr d’ ambrosio odore :
E la veste, clic dianzi era succinta,
Con tanta maestà le si distese
Infiuo a’ piè, che a l’andar anco, c dea
Veracemente c Venere mostrossi.
Poscia che la conobbe, c la sua fuga
0 fermare, o seguir più non polco,
Con un rammarco tal dietro le tenne:
Ah I madre, ancora lu vèr me crudele ?
A clic tuo Aglio con mentite larve
Tante volle deludi ? A che in' è tolto
Di congiunger la mia con la tua destra ?
Quando Oa mai eli' io possa a viso aperto
VedcrA, udirti, ragionarti, e vera
Riconoscerti madre ? Egli in tal guisa
Si querelava ; e verso la cillade
Se ne giono invisibili ambedue :
Chè la dea, sospettando non tra via
Fossero distornati o trattenuti,
Di folta nebbia intorno gli coverse.
Ella in allo levossi ; c Cipro e Pafo
Lieta rivide, ov’ entro al suo gran tempio
Da cento altari ha cento volle il giorno
D'incensi c di gbirlandc odori c Itimi.
Ed essi intanto in vèr le mura a vista
Giunser de la città, che al colle incontro
Fe’ lor superba e speciosa mostra.
Meravigliasi Enea clic si gran macchina
Già sorga, ove pur dianzi non vedovasi
Fors" altro che foreste o che lugurii.
Mira il travaglio, mira la frequenzia,
E le porle c le vie pieno di strepita.
Vede con quauto ardor le turbe Tirio
Altri a le mura, altri a la ròcca intendono :
E i gravi legni c i gran sassi che volgono
Questi, che i siti ai propri alberghi insolcano;
E quei, clic del senato c de gli ofllcii
Piantali le curie e i fòri e le basiliche.
Scorge là presso al mar, clic 'I porto cavano:
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li
DELL' ENEIDE
Slipanl, et il ilici distcndunt nectarc cellas,
Aul onera accipiunl venicnluni, aul agmiiic facto
Ijitiaviim fucos pecus a pracsrpibus arccnl;
Fervei opus, redolcnlquc llijmo fragranlia niella.
0 furlunati, quorum iam mocnia stirpimi 1
Acncns ai), cl fasligia suspicit urbis.
Inferi se septus nebula ( mirabile diclu )
l’or medius, miscelane viris ; neque cernilur ulli
Lucus in urbe fuil media, laclissimus umbrae,
(ino priinum, iaelali undis et turbine, Foeni
KITodcrc loco signum, rpiod regia Inno
Monslrarat, rapul acris equi ; sic nam foro bello
Egrcgiam el faciloni vlclu per sacrala gentem.
Ilic lemplum limoni ingcns Sidonia llido
Condcbal, donis opulenlum el numinc divac;
Aerea cui gradibus surgebanl liniina, ncvacquc
Aere Irabcs : foribus cardo slridebat alicnis.
Hoc prinium in luco nova res obi, Ha llmorem
l.cniit : bic primum Acneas sperare salutem
Ausus, et aiìlictis melius confldere rebus. — ^ "M
Namquc sub ingenti lustrai dum singula tempio,
Itcginam oppcriens, dum, quac fortuna sit urbi,
Arlillcumque manus inter se operumque laborem
Miralur, videi Iliaca» et ordine pugnas,
Bcllaquc iam fama lotum vulgata pcrorbem,
Alridas, Friamumque, et saevum ambobus Acliillem.
Constitit, et tacrimans: Quis iam loeus, inquit, Adiate,
Quac regio in lerris nostri non piena laboris ?
bn Priauius ! Suoi bic ctiam sua pracmia laudi ;
Sunt lacrimac rerum, et mcntem morlalia tangunl.
Solve melus ; feret bare aliquam libi fama salutem.
Sic ail, atque animuni pictura pasr.it inani,
Multa gemens, largoque liiimerlol flumìlie vultum.
Namque videbat, idi bellanlcs Pergama circum
liac fugercnt Graii, premerei Troiana iuventus ;
Ilae Phrjgcs, instarci curru cristatus Acliilles.
Nei: procul bine Rltcsi niveis tcntoria vclis
Agnoscit lacrimans, [irimo quac prodita sonino
Tydidcs multa vaslabal caede crucnlus,
Ardcnlcsque averlil cquos in castra, prius quam
Fabula gustasscut Truiac Xanlliumquc bibisscnt.
! Qua sotto al colle, che un teatro fondano,
Per le cui scene i gran marmi clic tagliano,
E le colonno, clic (ani* allo s’ergono,
Le rupi e i monti, a cui son figli, adeguano •
Con tal sogliono industria a primavera
Le sollecite pecchie al sole esposte
Per fiorite campagne esercitarsi,
Quando le nuove lor cresciute genti
Mandano in campo a eór manna c rugiada.
Del celeste liquor le celle empiendo :
0 quando incontro a scaricare i pesi
Van de l’ altre compagne ; o quando a stuolo
Scacciano i fuchi, ingorde beslic e pigre,
Clic, solo inlcnle a logorar l’altrui,
De le conserve lor si fan presepi,
Allor clic l’ opra ferve, allor che ’l mele
Sparge di limo d’ ogni intorno odore.
0 fortunali voi, di cui già sorge
Il dcsTalo seggio I Enea dicendo,
Arriva intanto a la muraglia, e chiuso
Ne la sua nube, maraviglia a dirlo 1
Tra genie e genie va, clic non è visto.
Era nel mezzo a la cilladc un bosco
Di sacro rezzo e gralo, ove sospinti
Da la tempesta capitare i Peni
Primieramente ; e nel fondar trovare,
Quel clic pria da Giunnn fu lor prcdcllo,
I Di barbaro destrier teschio fatale ;
La cui sembianza, imaginc c presagio
Fu poi clic quella genie c quella lerra
Saria per molle olà ferace e fera.
Qui fabbricava la Sidonia Dido
l'n gran tempio a Giunone, il cui gran nume
E i doni c la materia e l’ artilizio
Lo facean prezioso c venerando.
Mura di marmo avea ; colonne e fregi
Di mischi ; e gradi c Iravi c soglie e porle
Di risonante c solido metallo.
Qui si ristette Enea : qui vide cosa .
Che tema gli scemò, speme gli accrebbe,
E di pace aflidollo e di salute:
Chè mentre, in aspettando la regina
Ch’ ivi s’ attende, la città vagheggia,
Mentre nel tempio l’apparalo a l’opro
E ’l valor de gli artefici contempla,
A gli occhi una parete gli s’olTerse,
in cui tutta per ordine dipinta
Era di Troia la famosa guerra.
E conosciuti a le fattezze conte
Prima il Troiano re, poscia l'Argivo
E I fero d' ambulile nimico Achille,
Fcrmossi : c lagrimandn, Oli disse, Acale,
Mira fin dove è la notizia giunta
De le nostre ruinc I Or quale ha ’l mondo
Loco che pica non sia de’ nostri a (Tanni ?
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LIBRO PRIMO
Porli: alia fugiens omissis Troilus armis,
liifelin pucr, aitine impar congrcssus Achilli,
Fcrlur cquis, c.urruqiic liacret resupiitus inani,
Loro lencns tamen; huic cervi vque coma eque lrahunlur
Per lerrom, et versa pulvis inscribilur liasla.
Inlerea ad (empiimi non acquee Palladis ibant
Crinibus liiades passis, peplumque ferebant
Supplicilcr Irisles, cl lunsae pcclora palmis.
Diva solo (ivos oculos aversa lenebat.
Ter circum lliacos rnptavcrat Hec.lora muro*,
Evanimumquc auro corpus vcndebal Acbilles.
Tum vero ingcnlcm gemilum dot pectore ab imo,
li spolia, ut currus, utque ipsum corpus amici
Tcndciitemquc manus Priamum conspcxit inermes.
Se quoque principibus permiilum agnovil Achivis ;
Eoasque acics cl nigri Memnonis arma.
Duci! Amazonidum lunalis agmina peltis
Pcnthcsilea furens, mediisque in minibus ardel,
Aurea subnectens ciscrlac cingula mammao,
Bellatm, audclquc viris concurrerc virgo.
Ecco Priamo, ecco Troia : c qni si pregia
Ancor virtù. Chè ferità non regna
Là 've umana miseria si compiagne.
Or li conforta, clic tal fama ancora
Di prò ti Ha cagione e di salvezza.
Cosi dicendo, e la già nota istoria
Mirando, or con sospiri, ed or con lutto
Va di vana pittura il cor pascendo.
E come quei eh' a Troia il lutto vide,
I siti rammentandosi e le zulTe,
Col sembiante riscontra il vivo c'1 vero.
Quinci vede fuggir le Greche schiere.
Quinci le Frigie : a quelle Ettore infesto,
A queste Achilie ; a cui pareo d' intorno
Che solo il suoli del carro c solo il moto
Del cimiero avventasse orrore c morte.
Nè senza lagrimar Reso conobbe
A i destrier bianchi, a i bianchi padiglieni,
Falli di sangue in mille parti rossi :
Chè sotto v' era DTomcde, anch' egli
Insanguinato ; o si Tacca d’ intorno
Alla strage di gente che nel sonno,
Prima clic da lui morta, era sepolta.
Vedea quindi i cavalli ai campo addotti,
Che non polàr, fato a’ Troiani avverso !
Di Troia erba gustare, o ber del Xanlo.
Scorgo d’ un' altra parte in fuga volto
Trollo, già scia' armi c senza vita :
Giovinetto infelice, che, di tanto
Disegnale ad Achille, ebbe ardimento
Di stargli a fronte. Egli in sul vèto carro
Giacca rovescio, c strascinato c lacero
Da' suoi cavalli : avea la destra ancora
A le redine involta, c T collo e i crini
Traca per terra ; e l' asta, ondo trafitto
Portava il petto, con la punta in giuso
Sericea note di sangue in su la polve.
Ecco in tanto venir di Palla al tempio
In lunga schiera ed ordinata pompa
Le donne d’ Ilio a far del peplo ofTcrla.
Ballunsi i pelli, c scapigliate c scalze
Paion pregar divolaincnlc afflitte
Perdono c pace ; ed ella irata c fera,
Volle le luci a terra e T tergo a loro,
Mostra fastidio di mirarlcjc sdegno,
Vede il misero Euòr che già tre volle
Tratto era d’ilio a la muraglia intorno.
Vede il padre più misero, che in forza
Del disputalo suo nimico Achille.
Oro in premio gli dà del suo codavero:
Spettacolo crudcl che gli trafigge
Profondamente e più d'ogni altro il core,
Ove il carro, gli arnesi e'I corpo stesso
Vede d’ un tonto amico, ed un re tale,
Che solo e disarmalo c supplichevole
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IU
DELL' ENEIDE
lineo dum Dardanio Acncac miranda videnlur,
Dum slupct, oblutuque liacrcl defixus in uno,
Regina ad lemplum, formo pulcherrima Dido,
Incessi!, magna iuvenum stiparne caterva,
Qiialis in Eurolac ripis, aut por ioga Cynliii
F.vcrcel Diana choros, quam mille sceulac
llinc atquc bine glomerantur Orcades : illa pharetram
Ferì liumero, gradicnsque deas supcrcminct omnes ;
Lalonac tacitimi pcrlentant gandia pcclus :
Talis crai Dido, lalcm se iacta ferebat
l’cr medios, instons operi regnisque futuris.
Tura foribus divac, media testudinc templi,
Sepia ormis, solioquc alte subima, resedit.
loro dabat legesque viris, operumque laborem
Partibus aequabal iuslis, out sorte Iraliebat ;
Quum subito Arncas concursu accedere magno
Anlbca Scrgestumquc videi rorlemque Cloanthum,
Teuerorumque alios, alcr quos acquorc turbo
Disputerai, pcnilusque alias avexcral oras.
Obslupuit siinul ipse, simul pcrcussus Acbales
Laetiliaquc mctuque ; avidi coniungerc dcxlras
Ardcbant, sed rea onimos incognita turbai.
Dissimulane cl nube cava speculanti^ amidi,
Quac fortuna viris; classcm quo litore linquant ;
Quid veniant. Cunctis nam ledi naxibus ibant,
Oranlcs veniam, cl lemplum clamore pclcbant.
Postquam inlrogressi, cl coram dola copia fondi,
Maximus llioncus placido sic pectore cocpil :
Stassi a l' ueciditor del flgtlo avanti.
Vi riconobbe ancor sè stesso, ov'ero
A dura mischia incontro a’ Greci croi.
Riconobbe lo stuol clic d’ Oriento
Addusse de l’ Aurora il negro figlio :
E lui raffigurò, che di Vulcauo
Avca I' usbergo c l' armatura indo-so.
Scorge d'altronde di lunati scudi
Guidar Pcnlcsiléa l' armate schiero
De l' Amazzoni suo : guerriera ardita
Clic, succinta e ristretta in fregio d' oro
L* adusta mamma, ardente c furiosa
Tra mille e mille, ancor che donna c vergine,
Di qual sia cavalicr non teme intoppo.
Stava da tante meraviglie ad una
Sola vista ristretto, attento e fisso
Enea picn di vagtiezza c di stupore ;
Quand' ceco la regina, accompagnala
Da reai corte, con rcal conlegno
Entro al tempio bellissima comparve.
Qual su le ripe de l' Eurola suole,
0 ne' gioghi di Cinto, allor Diana
di' a l'Orcadi sue la caccia indice,
A mille che le fan cerchio d’ intorno,
Divisar vari offici, c faretrata
Da la faretra in su gir sovra l’ altre
Neglettamente altera, onde a Lalona
S’ intenerisce per dolcezza il core ;
Tale era Dido, e tal per mezzo a'suoi
Se ne già lieta, e dava ordine c Torma
Al nuovo regno, a i magisteri, a l' opre.
Giunta al cospetto de la diva, in mezzo
De la maggior tribuna, in allo assisa,
Cinta d' armati in maestà si pose :
E mentre con dolcezza editti e leggi
Porge a la gente, c con cgual compenso
L" opre distribuisce c le fatiche,
Rivolgendosi Enea, nel tempio stesso
Vede da gran concorso attorncggiali
Entrar Scrgesto, Anlèo, Cloanto c gli altri
Troiani, che da sè disgiunti e sparsi
Avca dianzi del mar l’ aspra tempesta.
Slupor, timor, letizia, tenerezza,
E desio il’ abbracciarli e di mostrarsi,
Assalirò in un tempo Acatc c lui.
Ma, dubbi del successo entro la nube
Dissimulando se ne stero, e elicli,
Per rilrar clic seguisse, c che seguito
Fosse già de le navi c de' compagni,
Di cui questi eran primi c gli più scelti
Di ciascun legno, e già pieno era il tempio
Di tumulto c di voti clic altamente
Si sentian vènia risonare c pace.
Poiché furo cnlromessi, c eli* udienza
Fu lor concessa, il saggio llionèo
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Lidio CHIMO
17
0 Regina, novam cui condcre Iupilcr urbcm
lustiliaquc dodi! gente» frenare superba»,
Trucs te miseri, venlis maria omnia recti,
Oramus: proliibc infandos a navibus ignes ;
Carcc pio generi, et propi us res adspice nostras.
Non nos aul Terrò Libjcos popularc Penales
Venimus, aut raplas ad dora vertere praedas ;
Non ca vis animo, ncc tanta superbia riclis.
Est locus, llcspcriam Graii cognominc diclini,
Terra antiqua, polens armis atquc ubere glcbac ;
Oenotri rodere viri ; nunc fama, minores
Italiani ditissc duci: de nomine gentem.
Due cursus fuit ;
Quum subito assurgens Ouctu nimbosus Orion
In vada cacca tuli!, penilusque procacibus austris
Perque undas, superante salo, perque inria saia
Dlspulit. ltic pauci rcstris adnavimus oris.
Ouod genus Irne liominuin ? quaeve hunc tam barbara
morem
Pcrmillil patria ? Hospitio proliibcmur arcuae ;
Bella cicnl, primaque volani consistere terra.
Si genus bumanum et morlalia temnilis arma,
Al sperate dcos memores fondi atque nefandi.
Bei crai Acncas nobis, quo iiisliur alter
Nec pictatc fui! nec bello maior et armis ;
Quem si fata vintiti serrani, si vcscitur aura
Actheria, ncque adirne crudelibus occultai umbris,
Non mctus, officio ne te ccrlasse priurem
Pocnitcat. Sunt et Siculis reglonibus urbe»,
Arvaque, Troianoque a sanguine elarus Accstes.
Quassalam renlis liccat subducere classcm,
Et silris optare Irabes et stringere remos ;
Si dalur Italiam, sociis et rege reccplo.
Tendere, ut Italiam tacli Latiumque pclanius ;
Sin absumla salus, et te, pater optimc Tcùcrum,
Pontus liabet Libyae, nec spcs iato restai iuli,
Al frcla Sicaniae saltelli sedesque paratas,
Bude huc adveeli, regemque petamus Aceslcn.
Talibus llioneus ; cuncli simul ore fremebant
Dardanidac.
Virgilio voi. eneo
Prese umilmente in colai guisa a dire:
Sacra negina, a cui dal cielo £ dato
Fondar nuova ciltadc, e con giustizia
Por freno a gente indomita e superba,
Noi miseri Troiani, a lutti i venti,
A lutti i mari ornai ludibrio e scherno,
Caduti dopo P onde in preda al foco,
Clic da’ tuoi si minaccia a i nostri legni,
Preghiamli a provveder che nel tuo regno
Non si commetta un si nefando eccesso.
Fa cosa di te degna : abbi di noi
Pietà, clic pii, clic giusti, che innocenti
Siamo, non predatori, non corsari
De le vostre marine o de l'altrui :
Tanto i vinti d’ ardire, e gl' infelici
D' orgoglio e di superbia, oimè I non hanno.
Una parte d’ Europa è, clic da' Greci
Si disse Esperia, antica, bellicosa,
E lenii terra, da gli Enotrii colla.
Prima Enotria nomossi, or, come è fama,
Preso d' Italo il nome, Italia £ detta.
Qui T nostro corso era diritto, quando
Orlon tempestoso i venti, e 'I mare
Si repente commosse, e mar si fero,
Venti st pertinaci, e nembi e turbi
Cosi rabbiosi, clic sommersi in parte,
E dispersi n' ha tutti : altri a le secche,
Altri a gli scogli, ed altri altrove ha spinti ;
E noi pochi, di tanti, ha qui condotti.
Ma qual s) cruda gente, qual si fera
E barbara città quest’ uso approva,
Che ne sia proibita anco l’ arena ?
Clic guerra ne si mova, o ne si vieti
Di star nell’ orlo de la (erra appena ?
Ah I se de l' armi e de le genti umane
Nulla vi cale, a Dio mirate almeno,
Che dal ciel vede, e riconosco i merli
E i demeriti altrui. Capo e re nostro
Era pur dianzi Enea, di cui più giusto,
Più pio, più prò’ ne l' armi, più sagace
Gucrricr non fu giammai. So questi è vivo,
Se spira, se il deslin non ce l'invidia,
Quanto ne spcriam noi, tanto potresti
Tu non pentirli a provocarlo in prima
A cortesia. Ne la Sicilia ancora
Avém terre, avém armi, avémo Aceslc
Che n’ è signore, ed è de’ nostri anch’ egli.
Quel clic vi domandiamo £ spiaggia, £ selva,
É vitto da munir, da risarcire
I vóli e stanchi e sconquassati legni.
Per poter lieti ( ritrovando il duce
E gli altri nostri, o se pur mai il’ è dato
Veder l' Italia ) ne l' Italia addurne :
Ma se nostra salute in tutto £ spenta,
Se le, nostro signor, nostro buon padre,
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l ELL' ENEIDE
Tum breviter Didn, vulliim demissa, profalur :
Solvilc corde meloni, Teucri, sccluditc curas.
Rcs dura et regni novilas me (alia cogunl
Molici, et late linea custode lucri.
Quis gcnus Acneadutn, quis Troiac nescial urbcm
Virlutesque virosque, aul tanti incendia belli ?
Neu obtusa adco gestamus pectora Poeni,
Nec lam aversus cquos Tyria Sol iungit ab urbe.
Scu vos Ilesperiam magnani Saturniaque arta,
Site Erycis Bncs regemque oplatis Accstcn,
Ausilio tutos dimitlam, opibusque iuvabo.
Vullis et bis ni c cu in pariler considero regnis 7
Urbcm quam statuo, vestra est ; subducile narcs ;
Tros Tyrinsquc mihi nullo discrimine agelur.
Alquc utinam rcv ipso, Noto compulsus eodem,
Adforcl Aeneas ! Eqnidcm per lilora ccrlos
Dimiltam, et Libyae lustrare etlrcma iubebo,
Si quibus cieclus silvis aul urbibus errai.
His animum arredi diclis, et forlis Achales
Et pater Aeneas inmdndum erumpcre nubem
Ardebant. Prior Acucan compcllat Acbatcs :
Nate dea, quac nunc animo sentcntia surgit ?
Omnia tuta vides ; classem sociosque receptos.
Unus abest, medio in fluctu quem vldimus ipsi
Submersum ; diclis respondent celerà malris.
Vii ca fatus crai, quum circumfusa repente
Scindi! se nubes, et in aclhera purgai apcrtum.
Restiti! Aeneas, claraquc in luce rcfulsil,
Os humcrosquc dco similis ; namque ipsa dccoram
Caesaricm nato genitrii, lumcnque iuventae
Purpureum, et laelos oculis afllarat lionores:
Quale manus addunt ebori dccus, aul ubi flavo
Argentimi Pariusve lapis circumdatur auro.
Tum sic reginam alloquilur, cunctisque repente
Improvisus ail : Corani, quem quaerilis, adsum
Troìus Aeneas, Libycis ereptus ab undis.
sola iufandos Troiae miserala laborcs,
Di Libia ba T mare, c più speranza alcuna
Non ci riman del giovinetto lulo,
Almen tornarne la mSicania, ond'ora
Siam qui venuti, e dove il buon Acesto
N’ è parato mai sempre ospite c rege.
Al dir d' lli'onèo fremendo tutti
Assentirono i Teucri,
E la regina
Con gli occhi bassi c con benigna voce
Brevemente rispose : 0 mici Troiani,
Toglietevi dal core ogni timore,
Ogni sospetto. Gli accidenti atroci,
I,a novità di questo regno a forza
Mi fan s) rigorosa, e si guardinga
De' mici confini. E chi di Troia il nome,
Chi de’ Troiani i valorosi gesti,
E l'incendio non sa di tanta guerra ?
Non ban però si rozzo cuore i Peni ;
Non si lungo da lor si gira il sole,
Clic nè pietà, nè fama unqua v’ arrivo.
Voi di qui sempre, o de la grand' Esperia
E di Saturno che cerchiate i campi,
0 clic vogliale pur d' Acesle c d’ Ericc
Tornare a i liti, in ogni caso liberi
Ve n'andrete e securi. Ed io d'aita
Scarsa non vi sarò, nè di sussidio :
E se qui dimorar meco voleste,
Questa è vostra città. Tirale al lilo
Vostri navill : chè da’ Teucri a’ Tirii
Nulla scelta farò, nullo divario.
Cosi quiTussc il vostro re con voi I
Cosi ci capitasse I Ma cercando
10 manderò di lui Uno a l’estremo
De’ miei confini la riviera tutta,
Se por sorte giltato in queste spiagge
Per selve errando o per cilladi andasse.
Rincorassi a tal dire il padre Enea
E ’l farle Acnte ; c di squarciare il velo
Slavati già disiosi. Acate il primo
Mosse dicendo : Ornai, signor, clic pensi 7
Tutto è sicura, c tutti a salvamento
I nostri legni o i nostri amici avémo.
So! un ne manca ; c questo a noi davanti
11 mar sorbissi. Ogni altra cosa al detto -
Di tua madre risponde. Appena Acate
Ciò disse, che la (iugula s’aperse,
Assotligliossi c col ciel puro unissi.
Rimase in chiaro Enea, tale ancor egli
Di chiarezza c d’ aspetto e di statura,
Che come un dio mostrassi : e ben a dea
Era flgliuol, che di bellezza è madre. •
Ei de gli occhi spirava e de lo chiome
Quei chiari, lieti c giovenili onori
Cli’ ella stessa di lui madre gl' infuse.
Tale aggiunge l'artefice vaghezza
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unno primo
tu
Quac nos, rclliquias Danaum, tcrracquc marisquo
Omnibus cxbaustos iurn easibus, omnium cgcnos,
Urbe, domo socias, grales pcrsolvere dignas
Non opis est nostrac. Dido, nec quidquid ubique esl
Genlis Dardaniac, magnum quac sparsa per orbem.
DI libi, si qua pios respcclanl nomina, si quid
Usquam iustilia est, cl mena sibi conscia redi,
Proemia digna Turani. Quac le lam lacta tulerunt
Saccula 1 qui tanti [aleni genucrc parente ?
In Trela dum fluvii commi, dum monlibus umbrae
Luslrabunl contreia, polus dum sidcra pascci,
Sempcr bonos nomcnquc luum, laudesque mancbunl,
Quac me cunque vocant Icrrac. Sic Talus, amicum
Dionea petit destra, iacvaque Screslum;
Post alios, fortemque Gyan, Tortemque Cloanlbum.
Obslupuit primo adspcctu Sidonia Dido,
Casu deinde riri tanto ; et sic ore loculo est :
Quis le, nate dea, per tanta pcriculn casus
Inscquilur t quac vis immanibus applicai oris ?
Tune ilio Aeneas, quem Dardanio Anchisae
Alma Venus Plirygii gcnuit Simocnlis ad undam ?
Atque equidem Teucrum memini Sidona venire,
Finibus cvpulsum palriis, nova regna pctcnlem
Ausilio Beli. Genilor tum Belus opimam
Vaslabat Cyprum, et victor dilione tenebaU
Tempore iam ex ilio casus rnibi cognitus urbis
Troianae, nomcnquc tuum, regesque Pelasgi.
Ipsc hostis Teucros insigni laude ferebat,
Seque ortum antiqua Teucrorum ab stirpe volcbat.
Quarc agito o tcctis, iuvencs, succedile noslris.
Me quoque per multos similis fortuna labores
lactatam hac demum voluit consistere terra.
Non ignara mali miscris soccorrere disco.
Sic memorat ; simul Aencan in regia ducit
Tecla : simul divum Icmplis indii il bonorem.
Ncc minus interea sociis ad litora mittit
Vigiliti tauros, magnorum borrendo cenlum
Terga suum, pingucs cenlum cum malribus agnos,
Menerà laeliliamque dei.
A l'avorio, a l'argento, al Pario marmo,
Se di Dii oro li circonda e fregia.
Colai, comparso d'improvviso a lutti,
Si fece avanti a la regina, e disse :
Quegli che voi cercate Enea Troiano,
Son qui, dal mar ricollo. A le ricorro,
Vera regina, a te sola pietosa
De le nostre ineffabili fatiche.
Tu noi, rimasti al ferro, al fuoco, a Tonde
D'ogni strazio bersaglio, d’ogni cosa
Bisognosi e maidici, nel tuo regno
E nel tuo albergo umanamente accogli.
A renderli di ciò merito eguale
Bastante non son io, ni forno quanti
De la gente di Dardano discesi
Vanno per T universo oggi dispersi.
Ma gli dei ( s' alcun dio dc'buoni lia cura.
Se nel mondo è giustizia, se si trova
Chi d - altamente adoperar s'appagbu )
Te ne dian guiderdone. Età felice 1
Avventurosi genitori e grandi
Clic ti diedero al mondo I Infili clic i fiumi
Si rivolgono al mare, infili eh' ai monti
Si girali l' ombre, infin eh' ha stelle il cielo,
I tuoi pregi, il tuo nome e le lue lodi
Mi saran sempre, ovunque io sia, davanti.
Ciò detto, lietamente a' suoi rivolto.
Al caro lliunào la destra porse,
La sinistra a Scrosto, e poscia al forte
Cloanto, al forte Già: T un dopo T altro
Tutti gli salutò.
Stupì Didonc
Nel primo aspetto d' un si nuovo caso,
E d’ un uom tale, indi riprese a dire :
Qual forza, o qual destino a tanti rìschi
T’ hanno in si strani, in si feri paesi
Esposto, o de la dea famoso figlio t
E sci tu quell' Enea clic in su la riva
Di Simoenta il gran Dardanio Ancliisc
Di Venere produsse f lo mi ricordo
Quel che n' intesi già da Teucro, quando
Fuor di sua patria, il suo padre ruggendo
Nuovi regni cercava. Egli a Sidòne
Venne in quel tempo a dar sussidio a Belo.
Belo mio padre allor Tacca T impresa
ET conquisto di Cipro. Infili d’allora
Io del caso di Troia e del tuo nome
E de T oste de' Greci ebbi notizia
Ed ci eli' era sì rio nimico vostro,
Celebrava il valor di voi Troiani,
E Irar vulea da Troia il suo legnaggio.
Voi da me dunque amico e fido ospizio,
Giovani, arelc. E me fortuna ancora.
A la vostra simile ha similmente
Per molli affanni a questi luoghi addotta,
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20
DEI.I.'E.NEIDE
Al ilom'js interior regali splendida luvu
Instruilur, mediisque parsili convitia leelis:
Arie lalKiralae vestes ostroipie superbo,
Ingcns argentato mensis, caclataquc in auro
Furila flirta palmiti, serie» longissima rcriim,
I'er (ol dado virus antiqua ab origine genlii.
Acncas ( ncque cnim palrius consistere mentem
Passus amor ) rapidum ad naves praemillil Aclialcn,
Ascanio forai baco, ipsuinqiic ad muenia ducal.
Ornili* ili Ascanio cari slal cura parenlis.
Multerà practcrca. Iliaci* crcpla minia,
Ferro inhel, pallam signis aiiroque rigenlcin,
Et circunilcilum croceo velameli acanilio,
Oruatus Argivae llclonae, quos illa Blycenis,
Pergamo quum pelerei inconccssosquc llymcnacos,
Evlulerat, mairi* Lcdae mirabile donuin :
Praclcrca sccplmni, llionc quod gesserai olim,
Mavima nalarum l’riami, colloqiic monile
Baccjlum, el dupliccm geimnis auroque roronam.
Ilaec celerà ns iter ad nave* Icndcbat Aclialcs.
Al Cytcrca novas arles, nova peclorc versai
Consilia, ni faciem mulalus cl ora Cupido
Pro dulci Ascanio veniat, donisque furenlem
Ineeiidal roginam, alque ossibus impliccl ignem.
(Juippe domum limel ambignam, Tyriosque bilingue*;
l'ril atrov luno, el sub noelem cura reeursat.
Ergo bis aligerum dielis alfaliir Amorem :
Nate, mcac vircs, mea magna polcnlia solus,
Naie, palris summi qui Vela Tvplu.Ta lemnis.
Ad te coniugio, et supple: tua Rumina poseo.
Fralcr ut Acnèas pelago luus omnia cireum
Litora iaclclur odiis Innonis iniquae ,
Nola libi , cl nostro doluisli saepc dolore.
SI che natura c sofferenza e prova
Be' miei stessi Ira vagli ancor me fanno
Pietosa e lovtenevole a gli alimi.
Ciò dello, Enea corlcsemcnlo adduce
Nc la sua reggia. In ogni tempio indico
Fcsle e preci solenni. Ordina appresso
Clic si mandino al mar remi gran lori,
Cento gran porci, cento grassi agnelli
Con cento madri, c ciò eli 1 a' suoi compagni
Per villo c per letizia è di meslicro.
Dentro al regai palagio regalmente
Be' più gemili e sontuosi arnesi
fi convito c le stanze orna e prepara :
Copre d' oslro le mura ; empie le mense
D'argento e d' oro, ove per lunga serie
Son de' padri c de gli avi i falli egregi.
Enea, cui la paterna tenerezza
Quotar non lascia, a le sue navi innanzi
Hallo spedisce Arale, clic di tutto
Ascanio avvisi, cd a sè Insto il meni ;
Clife in Ascanio mai sempre inlcnlo c (isso
Sia del suo caro padre ogni pensiero.
Gii comanda, oltre a ciò, di' a la regina
Porti alcuno a donar spoglie superbo
Clic si salvar da la ruina appena
E dal fuco di Troia : un ricco manto
Diramalo a ligure, c di fln oro
Tulio contesto ; un prezioso velo.
Cui di pallido acanlo un ampio fregio
Trapunto era d'intorno ; ambi ornamenti
D' Elena Argiva, c di sua madre Leda
Mirabil dono, lo questo avea le bionde
Sue chiome avvolte il di clic di Micetto
A nuove nozze, e non concesse, uscio.
E porti anco lo scettro, onde superilo
llionc di Priamo sen giva
Primogenila figlia, c T suo monile
Bi gran lucide perle ; e quella stessa,
Onde T fronte cingca, doppia corona,
Di gemme orientali ornala e il' oro.
Tulio ciò procurando il fido Acatc
In ver le navi accelerava il piede.
Venere intanto con nov’ arie c novi
Consigli s' argomenta a far che in vcco
E 'n sembianza d' Ascanio il suo Cupido
Se nc vada in Carlago ; e con quei doni,
Con le dolcezze sue, con la sua face
Alleili, incenda, amor desti c furore
Nel petto a la regina, onde sospetto
Più non aggia o 'I suo regno, o la perfidia
De la sua gente, o di Givmon l' insidie
Clic da pensare c vagheggiar le diurno
Tulle le notti. E, fallo a sè venire
L’alalo dio, cosi seco ragiona :
Figlio, mia forza c mia maggior possanza:
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LIBRO PRIMO
21
Ilunc Phoenissa lene! Dido, blondisquc moratur
Vocibus; cl vcreor, quo so lunonia vcrlanl
Ilospitia ; homi lauto cessabil cardino rcrum.
Quocirca caperò onte dolis el cingere fiamma
Rcginam meditor, ne quo se numinc rnutel,
Sed magno Acncac rnccum tcncalur amore.
Qua Tacere id possis, nostram nunc accipo menletn.
Regius accitu cari genitoris ad urbcm
Sidoniam pucr ire parai, mea maxima cura,
Dona fercns, pelagici llammis rcslanlia Troiae.
Ilunc ego, sopilum somno, super alla Cylhcra
Aul super Idalium sacrala sede recondam.
Ne qua scirc dolos, mediusve occurrerc possi!.
Tu Tacicm illius noelem non amplius unam
Falle dolo, et notos puori pucr induc vullus,
DI, quum le gremio accipicl Indissima Dido
Regales inlcr mcnsas lalicemquc Lyacum,
Quum dabil amplexus alque oscula dulcia flget,
Occullum inspires ignem, fallasquc vencno.
Pare! Amor diclis carne gcnclricis, cl alas
Exuil, et grcssu gamlens incedi! luli.
Al Yenus Ascanio placidam per membra quiclcm
Irrigai, cl Totum gremio dea tollil in allos
Idaliac lucos, ubi mollis ainaracus illuin
Floribus el dulci adspirans compleclilur umbra.
Iamque ibal diclo parcns el dona Cupido
Reg ia porlaba I Tyriis, duce laolus Acbale.
Figlio, che del gran padre anco non temi
L' orribil lelo, onde percosso giacque
Chi ne diè fin nel ciel briga e spavento,
A le ricorro, c dal (uo nume aita
Chieggo a l’ altro mio Dglio Enea tuo frale.
Come Giuno il persegua, e come l' aggia
Per lutli i mari ornai spinto c travolto,
Tu 'I sai, che del mio duo! li sei doluto
Più volle meco. Or la Sidonia Dido
L' ave in sua forza, e con benigni c dolci
Modi fin qui l' accoglie e lo Irallicne.
Ma là dov’ è, lassa I die vai, comunque
Sia caramente accolto ? In casa a Giuno
Da le carezze ancor chi m' assecura ?
Ch'ella più neghittosa, e meno atroce
In un caso non Ila di tanto altare.
E perù con astuzia e con inganno
Cerco di prevenirla ; e del tuo foco
Ardere il cor de la regina in guisa,
Ch' altro Nume noi muli, e meco l’ ami
D' immenso altello. Or come agevolmente
Ciò porre in allo, e conseguir si possa,
Ascolla. Enea manda testò chiamando
Il suo regio fanciullo, amor supremo
Del caro padre, c mio sommo diletto ;
Perchè de' Tirii a la citlà scn vada
Con doni a la regina, che di Troia
A l' incendio avanzarono ed al mare.
Questo vinto dal sonno, o sopra l' alla
Citerà, o dentro al sacro bosco Idalio
Terrò celato si eh’ el non s’ accorga,
Ed accorto di ciò non faccia altrui
Con alcun suo rintoppo. E tu clic puoi,
Fanciullo, il nolo fanciullesco aspetto
Mcnlire acconciamente, in lui li cangia
Sola una nollc, e gli suoi gesti imita.
E quando Dido al suo rcal convito
Riccveralli, e, come a mensa fassi,
Sarà, bevendo e ragionando, allegra ;
Quando, come farà, cortese in grembo
Temuti, abbracccratti, e dolci baci
Porgcratti sovente, a poco a poco
Il tuo foco le spira c T tuo veleno.
Al voler de la sua diletta madre
Pronto mostrossi e baldanzoso Amore,
E giltò l' ali, ed in un tempo l' abito
E Y sembiante c l' andar prese di luto.
Ciprigna intanto al giovinetto Ascanio
Tale un profondo c dolce sonuo infuse,
E 'li guisa l' adattò, clic agiatamente
In grembo lo si tolse ; e ne la cima
De la selvosa Idalia, entro un cespuglio
Di lieti dori c d' odorata persa,
A la dolce aura, a la frese’ ombra il pose.
Cupido co' suoi doni allegramente,
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DELL' ENEIDE
22
Quum venil, aulaeis iara se regina superbis
Aurea composuil sponda, mediamque locavil ;
lam pater Aencas, et iara Troiana iuvenlus
Conveniunt, stratoquc super discumbitur ostro.
Dani famuli manibus lymphas, Ccrercnu|ue canistris
Eipcdiunl, lonsisquc ferunl raanlclia villis.
Quinquaginta intus famulac, quilius ordine longo
Cura pcnum slruerc, et flanimis adulerò Penates :
Ccntum aliac, lolidcmquc parca actate ministri,
Qui dapibus tnensas oncrant, et pociila ponunt.
Ree. non et T v ri i per liraina laeta frequcnles
Convenere, toris lussi diseurabere pictis.
tliranlur dona Aeneac, mirantur lulum,
Flagranlesquc dei vultus, simulataque verbo,
Pallamquc, et piclum crocco velamcn acantho.
Praccipue infeliz, pesti devota fulurae,
Ezpleri menlera ncquit, ardcseilque tucndo
Phocnissa, et pariler pucro donisquc movetur.
■Ile ubi complciu Aeneac colloque pepcndil,
Et magnum falsi implcvi! gcniloris amorcra,
negiuam petit. Jlaoc oculis, linee pectore loto
llaeret ; et inlerduin grcraio fovet inscia Dido,
Insidat quantus miserar deus. Al niernor ilio
Jlalris Acidaliac paullallra abolcre Sychaeuin
Incipit, et vivo tentai praeverlerc amore
Iara pridcin resides aniraos dcsuclaquc corda.
Postquam prima quics epulis, mcnsacque rcmotac,
Cratcras magnos statuuul, et villa coronant.
Fit strepitus teclis, voccmquc per ampia volulanl
Atrio ; dependent lyclmi laquearibus aureis
Incensi, et noctem Oamrais funalia vincunt.
Ilio regina gravem gemmis auroque poposcit
Implevitquc mero palcram, quam Belus, et onuics
A Dolo soliti ; tura farla silenlia teclis :
lupiler (hospitibus nani te dare iura loquuntur),
Ilunc laetum Tyriisquc dicm Troiaque profcclis
Per far quanto gli avea la madre Imposto,
Con la guida si pon d’ Acale ’n via.
Giunse, che giunta era Didone appunto
Ne la gran sala, che di (ini aratri,
Di fior, di frollili c di festoni intorno
Era tutta vestila, ornata e sparsa.
E gii sopra la sua dorala sponda
Cou rcal maestà s' era nel mezzo
A tulli gli altri alteramente assisa
Appresso Enea : poseia di raauo in mano
Sopra drappi di porpora e di seta
Si slendca la Troiana giovrutulo.
Già con l'acqua e con Cerere a le mense
Gli aurati vasi e i nitidi canestri
E i bianchissimi lini eran comparsi.
Stavano dentro, a le vivaude intorno,
Intorno a' fochi, a dar ordine a’ cibi
Cinquanta ancelle, ed altre cento fuori
Con altrettanti d' una stessa ctadc
Tra scudieri c pineerni ; c gli alni tutti
Si riempièr di Tirii, a cui le mense
Di tappeti dipinti eran distese.
A I' apparir del giovinetto luto
Corser tutti a mirare il manto c 'I velo
E gli altri che addueca leggiadri arnesi ;
A sentir quelle sue tinte parole,
A contemplar quel grazioso aspetto,
di' ardore c deità raggiava intorno.
Bla sopra lutti l' infelice Dido
Non polca nè la vista, ne T pensiero
Saziar, mirando or gli suoi doui, or lui ;
E com'più gli rimira, c più s'accende.
Poiché lunga fiala umile c dolce
Del non suo genitor pendè dal collo,
FI finse di llgliuol .verace aflclto.
Si volse a la regina. Ella con gli occhi,
Col pensicr lutto io contempla c mira :
l.o palpa, e 'I bacia, c ’u grembo lo si reca.
Misera I che non sa quanto gran dio
S’ annidi in seno. Ei de la madre intanto
Itimcmbrando il precetto, a poco a poco
Ile la mente Sichèo comincia a Irarlc,
Con vivo amore c con visibil Damma
Dompcndole del core il duro smallo,
E 'utroduccndo il suo già spento affetto.
Cessali i primi cibi, e da' ministri
Già le mense rimosse, ecco di nuovo
Comparir nuove lazze e vino e fiori,
Per lietamente incoronarsi e bere.
Quinci un romoreggiare, un riso, un giubilo,
Clic d‘ allegrezza emplan le sale c gli atrii,
E i torchi c le lumiere che pendevano
Da i palchi d' oro, poiché notte feccsi,
VinccanoT giorno c’I sol non che le tenebre.
Qui fallosi Didone un vaso porgere
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LIBRO PRIMO
23
Esso volte, nostrostjuu huius mcoiiaisse minores.
Adsit lactitino Bacchus dator, el bona luno.
Et vos, o, coclum, Tyrii, celebrate favcntcs.
Diuil, et in monsoni lalicum liba vii honorem,
Primaque, libalo, summo tenus attigil ore ;
Tum Bitiae dedit incrcpitans. Rie impiger bausit
Spumantem palcram, et pieno se proluit auro ;
Post olii proceres. Citbara crinilus lopas
Personal aurata, docuit quae maximus Alias.
Ilio canit errantem lunam, solisquc labores ;
Lode boininum gcnus, el pccudes; unde imber el ignes;
Arcturum, pluviasquc Hyadas, geminosque Triones;
Quid tantum oceano propcrent se lingucre solcs
11 iberni, vcl quae lardi* mora noclibus obslct.
Ingeminaul plausu Tyrii, Troèsque sequuntur.
Picc non et vario noelem sermone trabebat
Infclix Dido, longumque bibcbal amorem,
Mulla super Priamo rogilans, super Hectore multa,
None, quibus Aurorae venissct fllius armis,
Rune, quale* Diomcdis equi, nunc, quantus Achilles.
Imo ago, et a prima die, hospes, origine nobis
Insidia*, inquit, Dannimi, casusque luorum,
Krroresque luos. Nam te iam septima portai
Omnibus erranlcm tcrris et fluclibus aestas.
D* oro grave e di gemmo, ov’ era solito
Ne’ convili c ne’ dì solenni c celebri
Ber Belo, e gli altri clic da Belo uscirono,
Di fiori ornollo, e di vin vecchio empiendolo
Orò cosi dicendo : Elcmo Giove,
Che, Albcrgalor nomalo, bai de gli alberghi
E de le cortesie cura e diletto,
Priegoli eh’ a* Fenici ed a’ Troiani
Fausto sia questo giorno, e memorando
Sempre a’ posteri loro. E le, Lièo,
Largitor di letizia ; c te celeste
E buona Giuno, a questo prece invoco.
Voi co’ vostri favori, c Tirii c Peni,
Prestate a'prieghi miei divolo assenso.
Ciò detto, rivecsollo, e lievemente
Del sacrato liquor la mensa asperse;
Poscia ella in prima con le prime labbia
Tanto sol ne sorbi quanto n* attinse.
Indi con dolce oltraggio e con rampogne
A Bizia il diè, clic valorosamente
A piena bocca infino a I* aureo fondo
Vi si tuffò col volto, c vi s’ immerse.
Ciò seguir gli altri croi. Comparve intonto
Co’ capei lunghi c con la celra d'oro
Il biondo Iopa ; c, qual Febo novello,
Cantò del cicl le meraviglie c i moli
Che dal gran vecchio Atlante Alcide apprese.
Cantò le vie clic drittamente lorte
Rcndon vaga ta luna c buio il sole :
Come prima si fér gli uomini e i bruii ;
Com* or si fan le piogge c i venli e i folgori;
Canlò l’ lode e I* Orse c ’l Carro e ’I Corno,
E perchè tonto a l’ Oceano il verno
Vadan veloci i dì, Iarde le notti.
Un nuovo plauso incomincìaro i Tirii :
Seguirò i Teucri ; c l’ infelice Dido,
Che già fca dolce con Enea dimora,
Quanto bevesse amor non s’ accorgendo,
A lungo ragionar seco si pose
Or di Priamo, or d’ Etlorre, or con qual armi
Venisse a Troia de 1* Aurora il figlio,
Or qual fosse Diomede, or quanto Achille.
Anzi, se non V è grave, al fin gli disse,
Incomincia a contar fin da principio
E l’ insidie de’ Greci, c la rùina
E T incendio di Troia, e il corso intero
De gli crror vostri : già che ’l setlim* anno
E per terra c per mar raminghi andate.
Fi ME
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LIBRO SECONDO
Continuerò omncs, inlcntiquc ora lonebant.
Inde loro pater Acncas sic orsus ab allo :
Infandutn, regina, iubes rcnovarc dolorem,
Troiana* ni opcs el lamentabile regnum
Eruerint Danai, quaeque ipso miserrima vidi,
El quorum pars magna fui. Quis lalia fondo
Myrmidonum, Dolopumve, aul duri miles l'Ijri,
Tempcret a lacrimis ? El iam nos humida coclo
Praccipital, suadenlquc cadenlia sidera somnos.
Sed, si lanlus amor casus cognoscerc noslros,
El breviler Troiac supremum audirc loborem,
Quamquam animus meminisse horret, lucluquc rcfugil,
Incipiam. Fracli bello, falisquc repulsi
Dnclores Danaum, tot iam labentibus annis.
Instar monlis equuin divina Palladio arie
Aediflcanl, seclaquc intevunt abielc coslas ;
Voluto prò rcdilu simulant ; ca fama vagalur.
Due deierta viriìm sorlili corpora furlim
Includimi caeco latori, penilusque cavcrnas
Ingertles ulerumque armalo milite compirai.
Est in conspeclu Tencdos, notissima fama
Insula, dives opurn, Prismi dum regna manebanl :
ft'unc tanlum sinus el slalio male fida carinis.
Ilue se prorecti deserto in lilorc condunl.
Nos ahiissc rati, el renio pelìisse Mycenos.
Staran tacili, allenii c desiosi
D' udir già ludi, quando il padre Enea
In sé raccolto, a cosi dir da I" alla
Sua sponda incominciò : Dogliosa istoria,
E d' amara e d'orribil rimembranza,
Ilegina eccelsa, a racconlar m‘ invili :
Come la giù possente c gloriosa
lllia pairia, or di pietà degna c di pianto,
Fosse per man do' Greci arsa c distrutta,
E qual ne vid’io far ruina e scempio :
Cir io stesso il ridi, eil io gran parie fui
Del suo caso infelice. E chi sarebbe.
Ancor che Greco o Mirmidóne o Dólopo,
Che a ragionar di ciò non lagrimasse I
E già lo notte inchina, e già le stelle
Sonno, dal ciel reggendo, a gli occhi infondono.
Ma se tanto d" udire i nostri guai,
Se brevemento di saver t’ aggrada
L’ ultimo eccidio, ond' ella arse e cadrà,
( Benché lutto e dolor mi rinnovellc,
E sol de la memoria mi sgomento )
lo lo pur conterò. Sbattuti c stanchi
Di guerreggiar tant’ anni, c risospinli
Ancor da' fati, i Greci condottieri
A l’ insidie si dicro ; c da Minerva
Divinamente instrutli un gran cavallo
Di ben contesti c ben confluì abeti
In sembianza d' un monte cdiflcaro :
Poscia fìnto che ciò fosse per voto
Del lor ritorno, di tornar sembiante
Fecero tal, che se ne sparse il grido.
Dentro al suo cieco ventre e ne le grolle,
Che molte erano e grandi in si gran mole,
Binchiuscr di nascosto arme e guerrieri
A ciò per sorte c per valore eletti.
Giace di Troia un'isola in cospetto
( Téncdo ò detta ) assai famosa c ricca,
Mentre ch'ilio Boriva. Ora un ridotto
È sol di naviganti, c di natili
Infido seno, c mal sicura spiaggia.
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unno secondo
Ergo omnis longo solvil se Teucria luetu.
Pandunlur porlac ; iu?at ire, et Dorica castra
Desertosquo vidcre locos litusque rclictum.
Ilic Dolopum manus, hic saevus tendebat Achillcs ;
Classibus liic locus, hic acie ccrlarc solcbant.
Pars slupct innuptac domini cxitialc .'lineria?,
Et rnolcm mirantur equi : primusque Tliymoctcs
Duci inira muros hortalur, et arce locari,
Sito dolo, scu iatn Troiae sic fola ferebant.
At Capys, et quorum melior scntcntia menti,
Aul pelago Danaùrn insidiasi suspeclaquc dona
Praccipitarc iubent, subicctisqnc urcre flamnais ;
Aul Icrcbrarc catas uteri ci tentare latebras.
Scindilur inccrlum studia in contraria vulgus.
Primus ibi ante omnes, magna comitanlc caterva,
Laocoon ardens somma dccurrit ab arce;
Et procui : 0 miseri, quae lanla insania, cives ?
Crcditis avcclos liostcs ? aul ulla pulatis
Dona carcrc dolis Dana fini ? Sic nolus l'Iiies?
Ani hoc inclusi tigno occultanlur Achitì,
Aul liacc in nostros tabricala est machina muros,
Inspcctura domos, tcnluraque desuper urbi,
Aul aliquis latei error. Equo ne credile, Teucri.
Quidquid id esl, timeo Danaos et dona rcrentes.
Sic fatus, validis ingenlem viribus liastam
In lalus inque feri curvam compagibus alvum
Contorsi!. Stelli illa tremeos, uteroque recusso
Insonuere catac gemilumque dederc catcrnac.
Et, si fata deùm, si mcns non laeta fuissct,
Impulcrat ferro Argolicas foedarc latebras,
Troiaquc nunc starcs, Priamique ari alta mancres.
Vincalo, voi. rateo.
Qui, poiché di Sigéo sciolse c spario,
La Greca armata si ratlennc, c dietro
Appialtossi al suo lilo ermo c deserto.
E noi credemmo che veracemente
Fosse parlila, e che a spiegate velo
Gisse a Micene. Onde la Teucria tutta,
Già colant’ anni lagrimosa c mesta,
Volta ne fu subitamente in gioia.
S’ aprir le porle, uscir d’ Ilio, e d - intorno
Le genti tutte, disiose e liete
Di veder voti i campi e sgombri i liti,
CIC eran coverti pria di navi e d’ armi.
Qui s’ accampata Achille ; c qui de' Dólopi
Eran le tende : ivi solcan le luffe
Farsi de’ cavalieri, c là de’ fanti ;
Dicean parte vagando, e parte accolti
Facean mirando al gran destriero intorno
Meraviglie e discorsi : c chi per sacro,
E chi per esecrando il voto e. ’l dono
Avcan di Palla. Il primo fu Timclc
A dir eh' entro le mura, o ne la rocca
I Quindi si conducesse, o froda, o fato
Che ciò fosse de’ miseri Troiani.
Ma Capi, e gli altri, il cui più sano avviso
0 per insidiose, o per sospetto
( Quantunque sacre ) avea le Greche ofTcrle,
Volevano, o del mar fosse nel fondo
Precipitato, o che di Damme ardenti
Si circondasse, o clic foralo c lacero
Gli fosse il petto e sviscerato il flanco.
Stava tra questi due contrari in forse
In due parti diviso il volgo incerto ;
Quando con gran caterva c con gran furia.
Da la rocca discese, e di lontano
Gridò Laocoonlc : 0 cicchi, o folli,
o sfortunati I A gli nemici, a’ Greci
Date crcdcnia t A lor credete voi.
Che sian partili ? E sarà mai che doni
Siano i lor doni, e non più tosto inganni ?
Cosi »' 6 noto Ulisse ? 0 in questo legno
Sono i Greci rinchiusi, o questa è macchina
Contro a le nostre mura, o spia per entro
A i nostri alberghi, o scala o torre o ponto
Per di sopra assalirne. E che che sia,
Certo o vi cova, o vi si ordisce inganno,
Chè de’ Pelasgi c de’ nemici è il dono.
Ciò detto, con gran fona una grand'asta,
Avvcntògli, c colpii lo, ove tremante
Stelle altamente infra due coste infissa :
E T deslrier come fosse e vivo e fiero
Fieramente da spron punto colale,
Si storcè, si scrollò, tornigli il ventre,
E rintronar le sue cave caverne.
E se ì Fato non era a Troia avverso.
Se le menti eran sane, arca quel colpo
i
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26
LEU/ ENEIDE
Ecce, manus iuvencm interra post terga rcvinclum
Pastorcs magno ad regem clamore trahebant
Dardanidac, qui se ignotum venicnlibus nitro,
lloe ipsum ut strueret, Troiamque apcriret Achivls,
Obtulerat, fldens animi, alque in ntrumque parntus,
Scu versare dolos, seu ccrlae occumbere morti,
l'ndique viscndi studio Troiana iuvrnlus
Circunifusa ruil, ecrlanlque illudere capto.
Accipc uunc Danaùtn insidias, et crimine ab uno
Disce omnes.
Namque, ut conspcctu in medio, turbatus, inermi»
Constili!, alque oculis Plirrgia agmina circumspciit:
llcu.quacnunc lellus, inquii, quac meacquora possunl
Accipere ? aut quid iam misero milii denique restai.
Cui ncque apud Danaos usquarn locus, et super ipsi
Dardanidac infensi poenas coni sanguine poscunl ?
Quo gemitu conversi animi, comprcssus et omnis
Impctus. llorlamur fari, quo sanguine crclus,
Quidquc feral ; memore!, quac sii fiducia capto.
Illc bare, deposita tandem formidine, fatue :
j
Cuncla equidem libi, rcs,fueril quoilrunquc. fatebor
Vera, inquit : ncque me Argoliea de gente negabo ;
Hoc primum ; ncc, si miscrum Fortuna Sinonem
Finill, vanum eliam mendaccmquc improba lìnget.
Fando aliquod si forlc luns pcrvenil ad aures
Bctidae nomen Palamedis, et incluta fama
Gloria, quem falsa sub proditionc Pelasgi,
Insontem, infando indicin, quia bella vclabal,
Demisere ncci ; nuuc cassum lumino lugcnl;
fili me comilem, et ronsangninilatc propinquum,
Paupcr in arma pater primis huc misit ab annis.
Dum stabat regno incolumis, regumque vigcbal
Conciliis, et nos aliquod nomenque dccusquc
Gessimus. Invidia postquam pellacis Ulivi
( Haud ignota loquor ) superis concessi! ob oris :
Aflliclus vilani iu Icncbris luctuque trabebam,
Et cesura insontis mccum indignabar amici.
Ncc tacili demens, et me, fora si qua lulisset,
Già commossi infiniti a lacerarlo,
E del lutto a scovrir l' agguato Argolico :
Ond’ oggi c tu, grand’ Ilio, c tu diletta
Troia, staresti.
Ma si vide intanto
De' paslor paesani una masnada
Venir gridando al re, di’ ivi era giunto,
E trargli avanti un giovine prigione
di' avea dietro le mani al tergo awinle.
Questi era Greco ; e dai suoi Greci avea
Iti salvare il destrier, d’ aprir lor Troia
Assunto impresa; c per condurla, a tempo
Ascoso, a tempo a quei pastori offerto
S' era per sé medesmn, in sè disposto
E fermo di due cose una a finire,
0 quest' opra, o lo vita. A ciò concorso,
Per desio di vedere, il popol tutto
Da cavai si distolse, c diessi a gara
A schernir il prigione. Or ascoltale
Le malizie de’ Greci ; e da quest' uno
Conosceteli tulli. Egli nel mezzo
Cosi com' era a le nemiche schiere
Turbalo, inerme e di catene avvinto,
Fermossi : c poi che rimirollc intorno,
Con voce di pietà proruppe, c disse :
Or quale o terra, o mare, o loco altrove
Sarà, misero me I che mi raccolga.
0 clic m’nlTIdi ornai ; poiché tra' Greci
Non ho dov‘ io ricovrire da' Troiani
Non deggio altro aspettar che strazio c morte?
Nc rommossc a pietà, n' acquetò l' ira
SI doglioso rammarco; c con dolcezza,
E con promesse il confortammo a dire
Chi, di elio loco, c ili ebe sangue fosse,
E che portasse, c qual fidanza avesse
A darnesi prigione. Egli in tal guisa
Assccuralo, al re si volse, e disse :
Signor, segua che vuole, in tuo cospetto
10 dirò lutto, e dirò vero. E prima
D’ esser Greco io non niego; chò Fortuna
Può ben far che Sinon sia gramo e misero,
Ma non giammai che sia bugiardo c vano.
Non so se, ragionandosi, a gli orecchi
Ti venne mai di Palamede il nome,
Clic nomalo c pregialo e glorioso,
E da Belo altamente era disceso ;
Se ben con falso c scellerato indizio
Di Iradigion, per detestar la guerra,
Ei fu da' Greci indegnamente ucciso :
Com' or, clic nc son privi, i Greci stessi
Lo piangoli tulli. A questo Palamede,
A cui per parentela era congiunto,
11 povcr padre mio ne' mici prim' anni
Pria per valletto nel meslier de l' armi.
Poi per compagno a questa guerra diemmi.
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unno secondo
21
Si patrios unquam remoasscm viclor ad Argos,
Promisi ullorcra ; cl verbis odia aspera mori.
■line mihi prima mali lalics ; Itine semper l'iives
Criminibiis lerrcrc novi* ; bilie spargere rocca
In eulgum ambiguas, cl quaerere ronscius arma.
Ncc rcquievil cnim, donec Calcitante ministro —
Scd quid ego tace aulem ncquidqoam ingrata revolvo?
Quidve moror ? Si omnes uno ordine babelia Achivos,
Idqnc audirc sai est, iamdudum sumitc poenas.
Hoc Ithacus vclil, et magno mcrcculur Atridac.
Tum vero ardemua seitari cl quaerere caussas,
Ignari scelerum tantorum artisque Pclasgac.
Proaequilur paritans, cl fleto pcclurc fatur :
Saepe lugam Danai Troia cupicrc relieta
Moliri, cl longo Tessi discedere bello ;
( Fccisscntque ulinani I ) saepe illos aspera ponti
lntcrclusil hicms, et terruil Austcr euntes.
Praecipuc, quum iam bic Irabibus conleilus acernis
Starei equus, loto sonucrunt actlierc nimbi.
Suspensi Eurypylum scitatum oraeula Pliocbi
Minimi» ; isque adylis bacc Irialia dieta rcporlal:
Sanguine placastis venlos et tirginc cacsa,
Quum primum Iliacas Danai venistis ad oras ;
Sanguine quacrcndi redilus, animaque lilandum
Argolica. — Vulgi qnac voi ut venil ad aurcs,
Obstupuerc animi, getidusque per ima cucurrit
Ossa tremor, cui Tata parent, quem poscat Apollo.
Ilic Ithacus vatem magno Calrhanla tumullu
Protraili! in inedios ; quae sin) ca numina ditflm,
Flagital. Et mllii iam multi crudele cancbant
Artilicis sccius, et tacili ventura videbanl.<
Bis quinos silet illc dies, tcctusquc rccusat
Prudere voce sua quemquam. aul opponcrc morti.
Vii lauderò inagnis libaci clamoribus aclus,
Infln eh" ci visse, c fu T suo stalo in flore,
Fiorirò anco i mici giorni; c l'oprc e’Inomc
E ’1 grado mio no Tur lai volta in pregio.
Estinto lui (clic per invidia avvenne.
Coni - ognun sa, del traditore Plissé)
Amaramente il piansi. E ’l caso indegno
D’ un tanto amico, c la mia vita oscura
Tra me sdegnando, come soro e folle
Ch’ io fui, noi tacqui. Ami se mai la sorte
Mei consentisse, o se mai fossi in Argo
Vincilor ritornato, alta vendetta
Ne gli promisi, c con minacce c motti
Acerbi acerbamente il provocai.
Questo fu del mio mal prima radice ;
E quinci dei suoi falli c del mio duolo
Consapevole plissé, a spaventarmi,
A travagliarmi, a seminar susurri.
Si die nel volgo, c procurarmi inciampi
Ond* io cadessi. E non cessò, eh’ ordinimi
Per mezzo di Calcante Ma dov' entro,
Lasso I senza profltlo a fastidirvi
Con noiose novelle ? A voi sol basta
Di saper ch’io soli Greco, già che i Greci
Tutti egualmente per nemici avete.
Or datemi, signor, supplizio c morto
Qual a voi piace, chè piacere c gioia
N - aranno i regi ancor d’ Itaca c d’ Argo.
E qui si tacque. Allor brama ne venne.
Non clic desio, di piò sapere avanti ;
Non ben sapendo ancor, miseri noi 1
Quanta scelleratezza c quanta astuzia
Fosse ne’ Greci. Egli, a seguir costretto,
Mostrossi in prima paventoso, c poscia
Di nuovo assicurossi, e finse, e disse :
Hanno molle Hate i Greci, alllilti
Già da la guerra, c dal disagio astretti.
Desiato o tentalo anco più volte
Di qui ritrarsi, c lasciar Troia in pace.
Cosi fatto l’ avessero ! Ma sempre
Or il verno, or i venti, or le procelle
Gli han distornati. E pur dianzi clic l’opra
Del cavai, clic vedete, era fornita,
Di nuovo in sui partire, c ’n sul far vela,
Di tempeste, di turbini c di nembi
Risonò ’l ciclo, c eonlurbossi il mare.
Onde sospesi Euripilo mandammo
A spiar sopra ciò quel che da Febo
Ne s’avvertisse, ltiportonnc un empio
E spaventoso oracolo , e fu questo :
Col sangue, e con la morie il’ una vergine
Placaste i venti per condurci in Ilio :
Col sangue, e con la morie ora d'un fiocine
Convien placarli per ridurvi in Grecia.
A cosi Aera voce sbigottissi,
Impallidissi, c tremò ’l volgo lutto.
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DELL' EXEIDE
Composito rumpil vocem, et me destinai arac.
Asscnscre omnes ; et, quae sibi quisquo limebai,
l’nius in miseri ciilium conversa lutcre.
lamqtie dies infamia nderal ; milii sacra parar!,
Et saisac fruges, et circum tempora vittac.
Eripui, falcor, telo me, et rincula rupi ;
Limosoque lacu per noctem obseurus in ulva
Dclilui, dum vela, darent si forte, dedissent.
Kcc rnibi iam patrìam anliquam spes ulta videndi,
Dee dutccs nalos cxoptatumquc parcntcm ;
Quos illi fors ad pocnas ob nostra reposccnt
Effugia, et culpam liane miscrorum morte piabunt.
Quod te per superos et conscia numina veri,
Per, si qua est, quae reste! adirne mortalibus usquam
Intemerata fides, oro, misererò laborum
Tanlorum ; misererò animi, non digna fercnlis.
llis lacrimis vilam damus, et miscrcscimus uilro.
Ipsc viro primus manicas alque arda levari
Vincla iubet Priamus, diclisque ita falur amicis :
Quisquis es, amissos bine iam oblivisccre Graios ;
Nostcr eris ; mihique baec edisscre vera roganti :
Quo molem liane immanis equi slatucre ? quis auclor ?
Quidve pelunt? quae rclligioTaut quae macliina belli?
Divorai. Hle, dolis instruclus et arte Pelasga,
Sustulit ciutas vinclis ad sidcra palmas :
Vos, aclerni igne», et non violabile vcslrum
Tcslor numcn, ait ; vos, arac ensesque nefandi,
Quos fugi, rinacque deùm, quas boslii gessi :
Fas miti! Craiorum sacrala rcsolverc iura,
Ciascun per sé temendo ; e nessun certo
Qual ili loro accennasse Apollo e 'I Fato.
Qui fece Ulisse in mezzo al Greco stuolo
Con gran tumulto apprcscntar Calcante ;
E del volere in ciò de’ santi numi
Inlerrogollo. Ed ci rispose in guisa,
Che la sua fellonia, benché da tutti
Fosse prevista, fu però da molti
Simulala e taciuta, e da molti anco
A me predetta : pur ei tacque ancora
Per dicci giorni, e scaltramente al niego
Si mise di voler che per suo dello
Fosse alcun destinato, o spinto a morte.
Ma poi, come da gridi astretto e vinto,
Di concerto con lui ruppe il sileniio
SI eh* io fui dichiaralo al fin per vidima ;
Consentir tulli, perchè tulli ancora
Finian con la mia morte il lor periglio.
Era già da vicino il giorno orribile.
In clic doveano al sacrificio offrirmi :
E già il ferro e già il salo e già le bende
Erano a le mie tempie intorno avvolte,
Quando, rollo ( io noi niego ) ogni ritegno,
Da la morte mi tolsi ; e fin eh’ a' venti
Desser le vele ( eh’ cren presti a darle)
Di buia notte in un pantan m' ascosi,
Ove nel fango infra le scardo e i giunchi
Slava qual mi vedete. Ora son qui
Privo d' ogni conforto e d’ ogni speme
Di mai più riveder la patria antica,
I dolci figli e ’l desiato padre,
Che saran, lasso me! per la mia fuga,
Benché innocenti, anéor forse in mia vece
Incarcerati, e tormentali e morti.
Or io, signor, per quelli eterni dei
Clic scorgon di lassù se ’l vero i’ parlo,
Per quella pura e intemerata fede
( Se tra' mortali in alcun loco è tale )
Ond' io già tutto a rivelar ti vengo,
Priegoti che pietà di me ti prenda,
E de’ miei tanti e si gravosi affanni
Che indegnamente io soffro.
A colai pianto
Commossi, e da noi fatti anco pietosi
Vita e vènia gli diamo. E di sua bocca
Comanda il re clic si disferri e sciolga ;
Poi dolcemente in tal guisa gli paria :
Qual tu li sia, de’ tuoi perduti Greci
Ti dimentica ornai; chè per innanzi
Sarai de" nostri. Or mi rispondi il vero
Di quel eh’ io li domando; A che fino lianuo
Qui si grande edificio i Greci eretto ?
Per consiglio di cui ? con qual avviso
l.’han fabbricato? È voto? è magia , è macchina?
Cile trama è questa? Avea ’I re dello appena,
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LIBIIO SECONDO
S9
Fas odisso viros, alquc omnia ferro sub auras,
Si qua tcgunl, tencor patriae ncc legibus ullis.
Tu modo promissis mancas, scrvalaquc scrvcs,
Troia, (idem, si vera (crani, si magna rcpcndam
Omnis spcs Danaòm ci coopti fiducia belli
Palladis auxiliis semper stetit. Impius ex quo
Tydides sed enim scclcrumquc inrentor l'lixcs,
Fatale aggressi sacrato avellere tempio
Palladiani, caesis sutnmae custodibus arcis,
Corripucrc sacram effigierò, tnanibusque crucnlis
Virgincas ausi divac conlingcre viltas ;
Ev ilio (luerc ac retro sublapsa referri
Spcs Danaùm, fractae vircs, aversa deac mcns.
Ncc dubiis ca signa dedii Tritonia monslris.
Vii positura castris simuiacrum ; arsero coruscac
Luminibus flammae arrcclis, salsusquc per artus
Sudor iit, terque ipsa solo ( mirabile dictu )
Emicuit, parmamque fercns bastamque Ircmentcm
Exlemplo lenlanda fuga cani! acquora Calclras,
Nec posse Argolicis «scindi Pergama telis,
Omina ni repctant Argis, numcnquc rcducanl,
Quod pelago et curvis sccum avcieA carìnis.
Et nunc, quod palrias vento patiere Mycenas,
Arma dcosque parant comiles, pelagoqnc remenso
Improvisi adcrunt. Ita digerii omina Calcbas.
Ilanc prò Palladio; monili, prò numine laeso,
ElDgiem slatuerc, nefas quac triste piarci,
liane tamen immensam Calcbas attollerc molem
Itoboribus leitis, coeloque edncerc iussil,
Ne rccipi porlis, aut duci in moenia possi!,
Neu populum antiqua sub relligione lucri,
Nam, si vestra manus violasse! dona Minervac,
Tum magnum ciilium ( quod di prius omeri in ipsum
Convcrlanl I ) Priami imperio Phrygibusquc futurum.
Sin manibus vcslris vestram adsccndissct in urbcm,
diro Asiam magno Pelopca ad moenia bello
Venluram, et nostros ca fata mancrc ncpotcs.
Talibus insidiis periurique arte Sinonis
Credila res, eaptique dolis laerimisque coaclis,
Quos ncque Tydides, ncc Larissacus Acliillcs,
Non anni domucrc deccui, non mille carinae.
Quand'ei, d’inganni e d'arte Greca Distrutto,
Le già disciollc mani al ciclo alzando,
Disse : Voi fochi eterni e ’nviolablli,
Voi fasce, ond’io portai le tempie avvinte,
Voi sacri altari, e voi cutlri nefandi,
Cui fuggendo anco adoro, a quel eh’ io dico
Per testimoni invoco. A me lece ora
Ch' io mi disciolga, e mi disacri in tutto
Da l’ obbligo de’ Greci. E mi lece anco
Che non gli ami, e che gli odii, e che divolghi
Quel che da lor si cela ; già che astretto
Più non son de la patria a legge alcuna.
Tu, se vero io ti dico, e se gran merlo
Di ciò li rendo, e te. Troia, conservo ;
Conserva a me la già promessa ferie
Nel cominciar di questa guerra i Greci
Riposero ogni speme, ogni lidnnza
Ne t'aiuto di Palla; e ben riposte
Fur sempre, infili che l' empio DTomede,
E l' invenlor di ogni mal opra Ulisse,
Il sacro tempio suo non violare :
Come fer quando, ne la rocca ascesi,
N’uccisero i custodi, e n’ involare
Il Palladio fatale, osando impuri
Por le man sanguinose al sacrosanto
Suo simulacro, e macular le intatte
E intemerate sue virgincc bendo.
Da indi in qua d’ardir sempre e di forze
Scemàr, non che di speme ; e Palla infesta
Ne fu lor sempre ; e no diè chiari segni
E portentosi, allor che al campo addotta
Fu la sua statua, che posata appena
Torvamente mirolli; e lampi e fiamme
Vibrò per gli occhi, e per le membra tutte
Versò salso sudore. Indi tre volte,
Meraviglia a contarlo ! alto da terra
Sorse, e imbracciò lo scudo, e brandi Pasta.
Allor gridando indovinò Calcante.
Clic fuggir si dovesse, e tosto a’ venti
Spiegar le vele : chè di Troia in vano
Era l’ assedio, se con altri augùri
I)' Argo non si tornava un' altra volta,
E de la dea non si placava il nume,
Ch'or, per ciò fare, lian seco in Grecia addotto.
Onde giunti a Micene, incontanente
Si daranno a dispor P armi e le genti,
E gli dei, che gli aiti, e gli accompagni.
Poi ripassando il mar, con maggior forza
Di nuovo assaliranvi, o d' improvviso.
Cosi Calcante interpelra, e predice.
Or questa mole clic lanp alto sorge,
Qui per consiglio di Calcante è posta
Invece del Palladio, e per ammenda
Del nume offeso, a bello studio intesta
Di legni così gravi e cosi grandi,
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ISO
DELL'ENEIDE
lite aliud maius miseria multoque Iremcndtim
Obiicilur magia, alque improvida pcclora lurbal
Laucoon, duiius Nepluno sorte sarerdos,
Solcmnes Iniirum ingenlom mnelabat ail aras.
Ecce ameni gemini a Tcnedo tranquilla per alla
( llorrcsco referens ) immensi* orbibus angues
lncumliunt pelago, parilerque ad lilora tcndunl ;
Peclora quorum, ìnler Ituclus arredo, iubacquc
Sanguineac ossuperant undas, pars edera ponlum
Pone logli, sinualque immensa volnmiue terga ;
Kit sonilus, spumante salo, lamquc arra lenebant,
Ardentesque oculos stiliceli sanguine et igni,
Sibila lambebant linguis vibraulibus ora.
IlifTugimus viso eisangucs : illi agminc cerio
Laocoonla pctiint. Et primum parva dunrutn
Corpora nalorum serpens amplcsus ulerquc
Implicai, et miseros morsi! depascitur arlus ;
Posi ipsuin, ausilio subeuntem ac tela fcrcntcni,
Corripiunt, spirisque ligant ingcnlibus ; et iam
llis medium amplcii, bis collo squamea cirrmn
Terga dali, supcrnni capile et ccrvicibus aids.
Ilio simili manibus tendi! divellere nodos,
Perfusus sanie viltas alroquc veneoo ;
t'.lamores simili liorrendos ad sidera lollil.
Qualcs mugilus, fugil qiiuni saueius aram
Taurus, et incerlam escussil cervice securim.
Al gemini lapsu delubro ad summa dracones
EOilginnl, sacvacquc pclunl Trilouidis arcein,
Sub pedibusque deae, clipeique sub orbe tegunlur.
Tum «ero Iremeracla novità per pcclora condii
Insinuai pavor ; et scelus espcndissc mcrenlem
Laocooutc feruul, sacrum qui cuspide robur
Ed a si smisurata allena creila,
A (in clic per le porle entro a le mura
Quinci addur non si possa, ovo per segno
E per memoria poi del nume antico
Riverita da voi, sacrala c colla,
Sia ricovro c tutela al popol voslro.
Chi allur che questo dono a Palla offerto
Per vostra man sia violalo c guasto,
Itiiina estrema ( la qual sopra lui
Caggia più loslo) a voi vuol che ne venga,
Ed al gran voslro impero ; cd, a rincontro,
Quando da voi sia dentro al vostro cerchio
Condono c custodito ; allor, che l’ Asia
Congiurerà con le sue forre tutte
A l’ cstcrminio d’ Argo ; c che tal fato
Sopra a' nostri nipoti in ciclo è (Isso.
Con tal arte Sinon, con tali insidie
Ec' si clic gli credemmo ; c quelli stessi
Cui non poter ni T figlio di Tidéo,
Ni di Larissa il bellicoso alunno,
Ni dieci anni domar, ni mille navi,
Furon da lagrimcllc c da memogno
Sforzali c vinti.
In questa a gl' infelici
Un altro sopravvenne assai maggioro
E più fero accidente ; onde a ciascuno
D’ improvviso spavento il eor lurbossi.
Era Laooconlc a sorte eletto
Sacerdote a Nelluno; e quel dì stesso
Gli facea d’ un gran loro ostia solenne :
Quand’ ecco clic da Tcnedo ( m' agghiado
A raccontarlo ) duo serpenti immani
Venir si vegjpti parimente al lito.
Ondeggiando col dorsi onde maggiori
De le marine aliar tranquille e qucle.
Dal mezzo in su fendean coi pelli il maro,
E s' ergean con le leste orribilmente,
Cinto di creste sanguinose cd irte
Il rcslo, con gran giri c con le code
L' ncque sferzando, si clic lungo trailo
Si facean suono c spuma c nebbia intorno.
Giunli a la riva, con Neri occhi accesi
Di vivo foco c d' alro sangue aspersi,
Vibrar le lingue, c gitlar liscili orribili.
Noi di paura sbigolliti o smorti
Olii qua, chi là ci dispergemmo ; c gli angui
S' allllàr drillnmcnto a Laocoonle,
E pria di due suoi pargoletti tìgli
Le Icncrcllc membra ambo avvinchiando,
Scn fòro crudo c miscrabil pasto.
Poscia a lui, eli' a' fanciulli era con l' arme
Giunto in aiuto, s' avventuro, c stretto
L' avvinscr si che le scagliose terga
Con due spiri nel petto e due nel colio
Gli racchiusero il fiato ; c le bocche alle,
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LIBRO SECONDO
31
Lacscrit, et tergo scelcralam inlorscrit hasUm.
Ducendum ad sedes slniulacrum, orandaque divac
Numina conclamane
Ditidimus muros, et moenia pandimus urbis ;
Accingunt omnes operi, pedibusque rolarum
Subiiciunl lapsus, et stuppea «incula collo
Intcndunt. Scandii fa la lis mackina muros,
Fola armis : pueri circum innuplacquc pucllac
Sacra canunl, funemque marni conlingcrc gaudent :
Il la subii, mcdiacquc ininans illabilur urbi.
0 patria, o ditóni domus llium, et indila bello
Moenia Dardanidum I Qualar ipso in limine porlac
Subslilil, alque utero sonitum quatcr arma dedcrc.
Inslamus tamen immemores cacciquc furore,
Et monslrum infelii sacrala sislimus aree.
'fune cliam fatis aperii Cassandra fuluris
Ora, dei iussu non unquam eredita Tcucris.
Kos delubro deùm miseri, quibus ultimus ossei
lite dies, festa velamus fronde per urbem.
Vcrtilur interra coclum, et ruit oceano Nos,
Intolvens umbra magna terramque poluinque,
Mjrmidonumque dolos ; fusi per moenia Teucri
Conticucre ; sopor fessos complcctitur arlus.
Entro al suo capo fleramentq inllssc,
Gli addentarono il Icsebio. Egli, com' era
f)' atro sangue, di bara e di veleno
Le bende e T rollo asperso, i tristi nodi
Disgroppar con le man tentava indarno,
E d’ orribili strida il cicl ferita ;
Qual mugghia il loro allor clic da gli altari
Sorge ferito, se ilei maglio appieno
Non cade il colpo, ed ci lo sbatte e fugge.
I fieri draghi alfln da i corpi esangui
Disviluppati, in ver la rócca insieme
Strisciando e zuflblando, al sommo ascesero:
E nel tempio dì Palla, entro al suo scudo
Rinvolti, a' pii di lei si raggruppar».
Rinnovossi di ciò nel volgo orrore
E tremore e spavento ; e mormorossi
Che degnamente avea Laocoonlc
Di sua temerità pagalo il (lo,
E del furor clic contro al sacro legno
Gli armò f impura e scellerata mano :
E gridar lutti che di Palla al tempio
Si conducesse, e con preghiere e voti
De la dea si facesse il nume amico.
A ciò seguire immantinente accinti.
Rumando le porte, apriam le mura,
Adattiamo al cavallo ordigni e travi,
E ruote e curri a' piedi, e funi al collo.
Cosi mossa e tirala agevolmente
lai macchina fatale il muro ascende,
D' armi pregna e d'orinali, a cui d' intorno
Di verginelle e di fanciulli un coro,
Sacre lodi cantando, con ditello
Porgran mano a la fune. Ella per metro
Traila de la città, mentre si scuote,
Alcntru che ne l' andar cigola e freme,
Sembra che la minacci. 0 patria, o Ilio,
Santo de' numi albergo I inclita in arme
Dardania terra I Noi la pur vedemmo
Con tanti occhi a T entrar, clic quadro volle
Frrmossi, e quattro volle anco n' udimmo
II suon dell’ armi ; e pur, ila furia spinti,
Cicchi e sordi clic fummo, i nostri danni
Ci procurammo, clic 'I di stesso addotto
E posto in cima a la sacrala ròcca
Fu quel mostro infelice. Allor Cassandra
La bocca aperse, e quale esser solca
Verace sempre e non credula mai,
L' estremo fine indarno ci predisse ;
E noi di sacra e di festiva fronde
Velammo i tempii il di, miseri noi!
Che de' lieti dì nostri ultimo fuc.
Scende da l’ Oceàn la nulle intanto,
E col suo fosco velo involvc e copre
lai terra e 'I cielo e de - Pclasgi insieme
L’ordite insidie. I Teucri a i loro alberghi,
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DELL’ENEIDE
Et iam Argiva plialanv inslructis navibus ibat
A Tcncdo, lacilac per amica silenlia lunae,
Lilora noia pclrns ; fiammas quum regia puppis
Etlulcral, falisquc de A ni defensus iniquis,
Inclusos utero Dauaos et pinea furtim
Lavai elauslra Sinon. Illos palcfaclus ad auras
ltcddit equus, laetique cavo se roborc promunt
Thessandrus Stheuelusquc duces, et dirus Ulixes,
Dcmissum lapsi per f imeni, Aconiasquc, Tlioasquc,
Pclidesquc Ncoplolemus, primusque Madison,
Et Mcnclaus, et ipsc doli labricalor Epcus.
Invadunt urbein sonino vinoqiic sepullam ;
Caeduntur vigilcs, porlisquc patenlibus omnes
Areipiunl socios, alque agmina conscia iungunt.
Tempus crai, quo prima qnics morlalibus aegris
Incipit, et dono linóni gratissima serpi!.
In somnis, ecce, ante oculos mocstissimus llcctor
Visus adesso milii, Inrgosquc cITunderc flctus,
flaptatus bigis ut quondam, alcrque cruento
Pulvcrc, perque pedes traieetus torà lumenles.
Ilei milii, qualis crai I quanlum mutatus ab ilio
llcctore, qui redit eiuvias indili us Achilli,
Ycl Panarmi Phrygios ìaculalus puppibus ignes ;
Squalcnlem barbato, et concrclos sanguine crines,
Vulncraqiic illa gerens, quac circtim plurima muros
Accopil palrios ! Litro llcns ipse videbar
Compcllarc virano, et mocslas exproniere voces :
0 lux Dardaniae, spes o Adissimo Tcucrùm,
Quac lanlac lenuere morac ? Quibns llcctor ab oris
Exspcclalc venis ? Ut te post multa tuormn
Finterà, post varios boininumqnc urbisque labores
Defessi adspicimus? quac caussa indigna scrcnos
Foedavil vuUus? aut cur haec vulnera cerno?
lite riiliil; nec me quaercnlcm vana moralur;
Scd graviter gemilus imo de pectore duccns ;
Hcu Tugc, nate dea, teque bis, ait, eripe tlammis.
lloslis liabel muros; ruit allo a culmine Troia.
Sai palriac Priamoquc dalum. Si Pergamo devira
Defendi possenl, oliano hac defensa fuissent.
Sacra suosque libi commendai Troia Penatcs:
llos cape falorum comilcs, liis moenia quacrc,
Slagna percrrato slaUics quac denique ponto.
Sic ait; et manibus villas Vcslamquc polcntera
Aelernumqnc adytis cITert penclralibus igneni.
A i lor riposi addormentati e quel
Giaccan sccuramcnle;
E già da Téncdo
A l’ usala riviera in ordinanza
Ver noi se ne venia l’Argiva armata,
Col favor de la notte occulta c cheta ;
Quando da la sua poppa il regio legno
Ne diè cenno col foco. Allor Sinono,
Che per nostra ruina era da noi
E dal falò maligno a ciò serbalo,
Accostassi al cavallo, e il chiuso venire
Chetamente gli aperse , e fuor ne trasse
L’ occulto agguato. Uscirò a P aura in prima
I primi capi baldanzosi e lieti,
Tulli per una fune a terra scesi :
E Tur Tessa ndro c Stèndo ed Ulisse,
Acamante e Toanlo c Macaone
E Pirro c Menelao con lo scaltrito
Fabbricalor di questo inganno Epèo.
Assalir la città, clic già ne l’ ozio
E nel sonno e nel vino era sepolta ;
Ancisero lo guardie ; aprir le porle ;
Miser le schiere congiurale insieme ;
E dicr forma all' assalto.
Era ne P ora
Clic nel primo riposo hanno I mortali
Quel cip è dal cielo ai loro afTanni infuso
Opportuno e dolcissimo ristarò ;
QuaniPecco in sogno (quasi avanti gli ocelli
Mi fosse veramente) Ettor m'apparve
Dolente, lagrimoso, e quale il vidi
Già strascinalo, sanguinoso c lordo
Il corpo lutto, c i piè forato c gonfio.
Lasso me I quale c quanta era mutata
Da quell' Etlór che ritornò vestito
De le spoglie d' Achille, e rilucente
Del foco, ond' arse il gran Datile Argolico I
Squallida area la barba, orrido il crine
E rappreso di sangue ; il petto lacero
Di quante unqua ferite al patrio muro
Ebbe d' intorno. E mi parea che T primo
Foss' io che lacrimando gli dicessi :
0 splendor di Dardania, o de' Troiani
Sccurissima speme, c quale indugio
T’ Im Un qui trattenuta ? Ond' or ne vieni
Tanto da noi bramato ? Ahi dopo quanta
Strage de' tuoi, dopo quanti travagli
De la nostra città, già stanchi c domi
Ti riveggiamo ! E qual fero accidente
Fa si deforme il tuo volto sereno?
E clic piaghe son queste ? Egli a ciò nulla
Dispose, come a vani mici quesiti ;
Ma dal profondo petto alti sospiri
Traendo, Oh ! fuggi, Enea, fuggi, mi disse :
Toglili a queste fiamme. Ecco clic dentro
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LIBRO SECONDO
33
Diverso intensa misccnlur moenia Iuctuj
Et magis atquc inagi s, quamquam secreta parentis
Ancliisae domus arboribusque obtccta recessi!,
Clarescunt sonitus, armorumque ingruit horror.
Excutior sonino, et summi fastigio tedi
Adscensu supero, atquc arrcclis auribus adsto,
In segetem veluti quum fiamma, furcntibus Auslris,
Incidi!, aut rapidus montano fluminc torrcns
Sterni! agros, sterni! sala laeta boumque labores,
Praccipitesque traiti! silvas, stupet inscius allo
Accipicns sonilum savi de vertice pastor.
Tum vero manifesta Ddes, Dana ùmque patescunt
Insidine. lam Dciphobi dedit ampia ruinam.
Vulcano superante, domus; iam provimus ardet
Ecalcgon; Sigea igni freta lata relucent;
Eioritur clamorquc viróm clangorque tubarum.
Arma amens copio; nec sat ralionis in armis;
Scd glomcrarc manum bello, et concurrcre in arccm
Cum sociis ardenl animi. Furor iraque mcntem
Praecipitanl; pulebrumque mori succurrit in armis.
Ecce autem telis Panlhus elapsus Achlvtìm,
Panthus Olbrjades, arcis Phoebiquc saccrdos,
Sacra manu viclosque dcos , parvumque ncpolcm
Ipse trahit, cursuquc amens ad limina tendit.
Quo res summa loco, Panltiu? quam prendimus arcem?
Vii ea falus cram, gemitu quum talia reddit :
Ycnit summa dics et incluctabile tempus
Dardaniae. Fuimus Troes; fuit Uium , et ingcns
Virgilio, voi. calco.
Sono i nostri nemici. Ecco gii eh' ilio
Arde tutto c ruina. InGno ad ora
E per Priamo e per Troia assai s' è fatto.
Se difendere ornai più si potesse,
Fòra per questa man difesa ancora :
Ma dovendo cader, le sue reliquie
Sacre e gli santi suoi numi Penati
A te solo accomanda ; e tu li prendi
Per compapi a' tuoi fati ; c, come è d’uopo,
Cerca loro altre terre, ergi altre mura ;
Chè dopo lungo e travaglioso esigilo
L'ergerai più di Troia altere e grandi.
Detto ciò, da le chiuse arche rcpostc
Trasse e mi conscpò le sacre bende,
E l’ effigie di Vesta e T foco eterno.
Spargonsi intanto per diverse parti
De la presa città le grida e ’1 pianto
E ’l tumulto de l' armi ; c rinfuriando
Vie più di mano in man, tanto s' avanza
Che a l' antica magion del padre Anchise
( Come che fosse assai remota, c chiusa
D’ alberi intorno ) il gran rumore aggiunge.
Allor dal sonno mi riscuoto, e salgo
Subitamente d' un torrazzo in cima,
E porgo per udir gti orecchi attenti.
Cosi rozzo pastor, se da gran suono
È da lunge percosso, in allo ascende,
E mirando si sta confuso e stupido
0 foco, che al soffiar d' un torhid’ austro
Stridendo arda le biado c le campagne,
0 tempestoso e rapido torrente
Che dal monte precipiti, e le selve
Ne meni e i colti e le ricolte c i campi.
Allor, lardi, credemmo ; allor le insidio
Ne Tur conte de' Greci. E già T palagio
Era di Dcifòbo arso c distrutto ;
Già 'I suo vicino Ucalcgon ardea,
E l' incendio di Troia in ogni lato
Rilucea di Sigeo ne la marina ;
E s' udian gridar genti c sonar tube,
lo m' armo, e forsennato anco ne l' armi
Non veggio ove m'adopri. Al fin risolvo,
Ràunati i compapi, avventurarmi,
Menar le mani, o ne la ròcca addurmi.
Mi fan l' impeto e l' ira ad ogni rischio
Precipitoso ; e solo a mente vienmi
Che un bel morir tutta la vita onora.
Eravam mossi ; quando ceco Ira via
Ne si fa Panto d' improvviso avanti,
Ponto tiglio d - Otréo, che de la ròcca
Era custode, c sacerdote a Febo.
Questi, scampalo da’ nemici appena,
Inverso il lito attonito fuggendo,
1 sacri arredi c i sacri simulacri
De gli dei vinti, c il suo piccol nipote
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Si
LELL' ENEIDE
Gloria Tencrorum. Ferus omnia lupilcr Argos
Translulil; incensa Danai dominanlur in urbe.
Arduus armalos niediis in moenibus adslans
Fundil cquus, victorquc Sinon incendia miscet ,
Insullans: poitis alii bipatentibus adsunl,
Jlillia quol magni* unquam venere Jlyccnis:
Obsedere alii lelis angusta riarura
Opposili; slal ferri acies mucrone etrusco
Strida, parala ncci; vis primi proclia lontani
Portarum vigiles, cl caeco Marie resislunl.
Talibus Olhryadae diclis et numinc divflm
In flammea et in arma fcror, quo tristi* Erinnys,
Quo fremitua Torni et sublalus ad aetliera clamor.
Addunl ac socio* Rbipcus et moiimus armis
Epylus, oblali per lucani, Hypanisquc Dymasquc,
Et latori adglomerant nostro , iuvcnisquc Corocbus
Mygdonidos. lllis ad Troiam forte dicbus
Venerai, insano Cassandrac incensus amore ;
Et getter aulii inni Priamo Phrjgibusque ferebat,
Infelii, qui non aponsac praecepta furcnlis
Audierat.
Quos ubi conferma autiere in proelia vidi,
Incipio super bis: luvenes, fortissima frustra
Pectora, si vobis audcntcm estrema cupido
Certa sequi fqttac sii rebus fortuna, videtis:
Eicessere omnes, adylis arisque reliclis,
DI, quibus impcrium hoc stetcrat; succurritls urbi
Incensaci: mnriamur, et in media arma ruarnus.
lina aalua ridia nullam sperare saitilcm.
Sic animia iuvenum furor additus. Inde, lupi ccu
Raplores atra in nrbula, quos improba ventris
Ezegit caccos rabies; calulique relieti
Faucibus cvspeclant siccis; per tela, per hosles
Vadimus haud dttbiam in mortem mediaeque tenemus
Urbis iter; nov atra cara circrimvolat umbra.
Quis cladem illius noci», quis fonerà ftindo
Esplicai. 8 ut possi! lacrimis acquare laltores?
Urto antiqua ruit, multos dominala per annos ;
Plurima perque riaa slemunlur inertia passim
Corpora, perque domos , et religiosa deorum
l.imina. Ncc soli poenas darti sanguine Teucri ;
Quondam eliam viclis redi! in praecordia virtus,
Victaresque caduut Danai. Crudelis ubique
l.uclus, ubique pavor, et plurima mori» imago.
Si Iraea seco. 0 Paolo, o Paulo ( io dissi )
A clic siam giunti ? Ove ricorso abbiamo,
Se la rócca è gii presa 7 Ei sospirando
E piangendo rispose : F. giunto, Enea,
L' ultimo giorno, e 'I tempo inevitabile
De la nostra ruma. Ilio Tu già ,
E noi Troiani fummo. Or è di Troia
Ogni gloria caduta. 11 fero Giove
Tutto in Argo ha rivolto ; e tutti in preda
Siam de' Greci e del foco. Il gran cavallo,
Ch'era a Pallade volo, altero in mezzo
Stassi de la cilladc, e d’ ogni lato
Arme versa ed armati. Il buon Sinone
Gode de la sua frode, d 1 ogn' intorno
Scorrendo si rimescola, e s’ aggira
Gran maestro d’ incendi c di ruinc.
A porte spalancate cntran le schiere
Senza ritegno ed a migliaia, quante
Nè d’Argo usciron mai, nè di Micene.
Gli altri, che prima cntraro, han già le strade
Assediate, e stan con l' armi infesto
Parate a far di noi strage c macello.
Soli son Ano a qui sorli in difesa
I corpi de le guardie : c questi al buio
Fanno con lievi c repentini assalti
Tale una cicca resistenza appena.
Dal parlar di costui, dal Nume avverso
Spinto, mi caccio tra le damme e r armi,
Ove mi chiama il mio cicco furore,
E de le genti il fremilo e le strido
Che feriscono il cielo. E per compagni
Primieramente al lume de la luna
Mi si scopron Bipéo, Epito il cerchio,
Ed Ipane c Rimante : indi comparve
II giovine Corebo. Era costui
Figlio a Migdonc, insanamente acceso
De l’ amor di Cassandra ; e come fosse
Già suo consorte, pochi giorni ovanti
In soccorso del suocero c de’ Frigi
S' era a Troia condotto. Infortunato I
Che non area la sua sposa indovina
Ben anco intesa. A questi insieme accolti
Per accendergli piò mi volgo, e dico :
Giovani forti e valorosi, in vano
Ornai Ila la fortezza e ’l valor vostro ;
Poiché perduti siamo e che Troia arde,
E gli dei tutti, a cui tutela e cura
Si reggea questo impero, in abbandono
Lasciano i nostri tempii e i nostri altari.
Ma se voi cosi fermi c cosi certi
Siete pur, com' io veggio, a seguitarmi,
Ancor che a morte io vada, in mezzo a Farmi
Avventiamci, e moriamo. l ! n sol rimedio
A chi speme non ave è disperarsi.
Cosi F ardir di quelli animi accettai
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LI URO SECONDO
Piimus se, Danatìm magna comitante caterva,
Androgeos obfert nobis, socia ogmina credens
Inscius; atque ullro verbis compcltal amicis :
Fcstinate, viri. Nani quae tara sera moratur
Segnities? Alii rapiunt incensa rcruntquo
Pcrgaraa; vos cclsis nunc primum a navibus ilis?
Dixil; et citcmplo — ncque enim responsa dabantur
Fida salis — sensil medios dclapsus in hosles.
Obstupuit, retroque pedoni cum voce repressit.
Improvisum aspris velati qui sontibus angtiem
Prcssit liumi nitens, Irepidusque repente refugit
Attollenlcm iras et cacrula colla tumentem:
liaud secus Androgeos visu tremefortus abibal.
Irruimus, densis et circumfundimur armis;
Ignarosquc loci passim et formuline captos
Sternimus; adspiral primo fortuna labori.
Atque hic successu exsullans animisque Corocbus:
0 sodi, qua prima, inquit, Fortuna salutis
Monstrat iter, quoque ostendit se destra, sequamur:
Blutcmus clipeos, Danaòmque in^ignia nobis
Apteraus. DoJus, an rirtus, quis in hoste requirat?
Arma dabunt ipsi. Sic fatus, deinde comanlem
Androgei galeam, clipciquc insigne decorum
Induilur, latcrique Argivura accommodal enscm.
Hoc Rhipeus, hoc ipsc Djmas, omnisque iuventus
Laela facit; spoliis se quisque rccentibus armai.
Vadimus immilli Danais haud numine nostro,
Multaquc per caccam congressi proelia noctcm
Conscrimus; multos Danaùm demiltimus Orco.
Uiffugiunt alii ad uaves, et litora cursu
33
Furor divenne. Usciam di lupi in guisa,
Che rapaci, famelici e rabbiosi,
Col ventre vóto c con le canne asciutte
Sentan de' lupidni urlar per fame
Pieno un digiun covile. Andiam per mezzo
De' nemici e de I* armi a morte esposti
Senza riservo, c via drilli fendiamo
La città tutta, a la buia ombra occulti,
Che rattezza facea de gli edifici.
Or chi può dir la strage c la ruina
Di quella nollc ? E qual è pianto eguale
A lauta uccisione, a tanto eccidio ?
Troia ruina, la superba, antica
E gloriosa Troia, c che tini* anni
Portò scettro e corona. Era, dovunque
S’ andava, di cadaveri, di sangue,
D’ ogni calamità pieno ogni loco,
Le vie, le case, i tempii. E non pur soli
Caddero i Teucri, chè I* antico ardire
Destossi, e surse alcuna volla ancora
Ne gli lor petti. I vincitori e i vinti
Giaccan confusamente, o d* ogni lato
S’ udian pianti e lamenti ; e questi c quelli
Eran da la paura e da la morie
la mille guise aggiunti.
Andrògco il primo
De T Greci fu, che avanti ne s* offerse
Condotticr di gran gente. Egli avvisando
Parte sollecitar de la sua schiera,
Affrettatevi, disse ; a clic badate ?
Che indugio è’I vostro? Altri espugnata ed arsa
E depredata Iran di già Troia ; e voi
Testé venite I Avea ciò detto appena,
Che, il segno e la risposta indarno attesa,
Tra nemici si vide ; c come attonito
Restando, con la voce il piè ritrasse.
Come repente il vi'alor s’ arretra,
Se d’ improvviso fra le spine un angue
Avvidi che prema, ed ei premuto e punto
D’ ira gonfio e di tosco gli s’ avventi ;
Così dal nostro subitami incontro
Sovraggiunto in un tempo c spaventalo
Andrògco per fuggir ratto si volse.
Ma noi, che impaurili e sconcertati
A la sprovvista gli assalimmo in lochi
A lor non consueti , in breve spazio
Li circondammo, c gli ancidemmo al fine :
Tanto nel primo assalto amica e presta
Ne fu la sorte. E qui fatto Corebo
D' un tal successo e di coraggio altero,
Compagni, disse, poi clic la fortuna
Con queslo si felice a gli altri incontri
Nc porge aita a nostro scampo, usiamla.
Muiiam gli scudi, accomodiamo gli cimi
E l’ insegne de’ Greci. 0 biasino, o lode
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30
DELL’ENEIDE
Fida pclunt; pars ingcntcm formidìnc turpi
Scandunl rursus cquum, c( noia condunlur in atro.
Ilt-u nihil invilis fas quemquara Udore divisi
Ecco Iraliebalur passis PriarneTa virgo
Crinibus a tempio Cassandra adytisque Mincriac,
Ad eoclum tcndens ardentia lumina frustra.
Lumina; nam Icncras arcebant «incula palmas.
Sun Itili! liane spcciem Furiala mente Coroebus,
Et scsc medium inicr.it perituras in agraen.
Conscquiniur cuncli, cl densis incurrimus armis.
Hic primum ex allo delubri culmine lelis
Noslrurum nbruimur, oriturque miserrima eaedes
Annerimi facie et Graiarum errore iubarum.
Tum Danai gemito alque ereptac virginia ira
liudiquc coliceli invadunl; acerrimus Aiax,
Et gemini Alridae, Dolopumque excrcitus omnis:
Adversi ruplo eeu quondam turbine venti
Conlligunl, Zepbyrusque, Nolusquc.cl lactus Eois
Eurus equi»; stridimi silvac, saevilquc tridenti
Spumcus alque imo Nereus ciel aequora tondo.
Illi eliam, si quos obscura noclc per umbram
Fudimus insidiis, lotaquc agitavimus urbe,
Appnrcnl, primi clipeos mrnlitaque tela
Agnuscunl, alque ora sono discordia signant.
Ilirel obruiinur numero; primusque Coroebus
Pendei destra divae armipolcnlis ad aram
Procumbil; cadi! et Rbipeiis, iustissimus unus
Qui fuit in Teucris, et servantissimus aequi:
Dls alitcr visutn. Pcreunt llypanisquc Dymasquc,
Condii a sociis; nec le tua plurima, Panlhu,
Labcnlcm pietas, nec Apollinis infula texit.
Iliaci cinercs, cl (laminò exlrema meorum,
Tcslor, in oecasu veslro nec tela nec ullas
Vilavissc viecs Danaùm; et, si fata fuisscnt.
Ut caderem, meruisse marni. Divellimur inde;
Ipbitus et Pelias mccum: quorum Iphilus acro
lam gravior, Pelias et vulncre lardus L'lixi :
Prolinus ad sedes Priami clamore vocali.
Ilic vero ingentilii pugnarli, celi celerà nusquam
lìdia Torcili, nulli loia morcrenlur in urbe,
Che ciò ne sia, chi co' nemici il cerca 7
L' arme ne daranno essi. E, cosi detto,
La celata c 'I cimier d' Andrógco stesso,
E la sua scimitarra e la sua targa
Per lui si prese, armi onorate c conte.
Cosi fece Rifèo, cosi Dimanle,
E cosi tutti ; chè per sé ciascuno
Di nuove spoglie allegramente armassi.
Ci mettemmo Ira lor, chè i nostri dii
Non eran nosco ; e ne l' oscura notte
Con ogni occasione in ogni loco
Ci azzuffammo con essi ; e di lor molti
Mandammo a F Orco, o ritirar moli’ altri
Ne facemmo alle, navi : e Tur di quelli
Che per viltà nel cavernoso e cieco
Ventre si racquallàr del gran cavallo.
Ma che? Conira ’1 voler de’regi eterni
Indarno osa la gentel
Ecco dal tempio
Trar reggiani di Minerva, con le chiome
Sparse, e con gli occhi indarno al ciel rivolti
l a vergine Cassandra. Io dico gli occhi,
Perchè le regìe sue tenere mani
Eran da' lacci indegnamente avvinte.
A si fero spettacolo Corcbo
Infuriato, c di morir disposto,
Anzi che di soffrirlo, a quella schiera
Scagliossi in mezzo; e noi ristretti insieme
Tutti il seguimmo. Or qui fessi di noi
Una strage crudele c miserabile;
E da' nostri medesmi , che la cima
Tencan del (empio , e dardi e sassi e travi
Ne versarono addosso, immaginando
Da l'armi, da' cimieri, da l' insegne
Di ferir Greci; e i Greci d’ ogni intorno,
Tratti dal gran rumore e da lo sdegno
De la ritolta vergine, s'uniro
A i nostri danni. Il bellicoso Aiace,
I fieri Atridi, i Dólopi e gli Argivi ,
Tutti ne furon sopra in quella guisa
Ch'opposti un centra l’altro Affrico o Bòrea
E Garbino c Volturno accolte in mezzo
Ilan le selve stridenti o 'I mare ondoso,
Quando col suo tridente infin dal fondo,
II gran Nereo ^conturba. E tornir anco
Incontro a noi quei che da noi pur dianzi
Sen gir rotti c dispersi; e questi in prima
Scoprir le nostre insidie , c fèr palesi
Le cangiate armi e gli mentiti scudi ,
E T parlar che dal greco era diverso.
Cosi ne fu subitamente addosso
Un diluvio di gente. E qui per mano
Di Penclco, davanti al sacro altare
De l'armigera Dea cadde Corcbo:
Cadde Rifèo, eh' era ne' Teucri un lume
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LIBRO SECONDO
37
Sic Marlem iiidomllnm, Donaosque ad (cela mente*
Cernirmi*, oliscssumqiic acta (oludinc limen.
llacrcnl parìdiltus scolac, poslesquc sub ipsos
Niluntur gradibus, clipcosquc ad Irla siuistris
Prolccli obiiciunl, prcnsant rasligia dextris.
Dardanidac conira lurrcs ac teda dnmoruui
Culmina convcllunl; bis se, quando ultima comuni,
Estrema iarn in morie parant derendere lelis,
Auralasquc Irabes, vclerum decora alla parcntum,
Devolvunl: alii slriclis mucronibus inias
Obsedcrc forcs; bas servarli ogminc denso.
Instaurali animi, regia succurrcrc leclis,
Auvilioquc levare viros, vimque adderò viclis.
l.imen erat, caeraequo forca, et pervius usus
Tectorum inter so Priami, postesquo relieti
A tergo, infetta quo se, dum regna maocbant,
Saepius Andromacltc Terre incombalo solebai
Ad soccros, et avo pucrum Astynnarla trahebat.
Evado ad sunimi rasligia culminis, unde
Tela manu miseri iaclabanl irrita Teucri.
Turrim, in praeeipiti slantein, summisque sub astra
Eductam tectis, unde omnis Troia viderì,
Et DanaAm solitac naves, et Achaìa castra,
Aggrcssì ferro circum, quo sumtna labantcs
VlBGILIO, VOI. ISICfl.
Di boni», di giustiria e d'equilale
( Cosi a Dio piacque ) ; ed Ipane o Dimante
Caddero aneli' essi, e questi, oimè trafitti
Per le man pur de' nostri. E tu, pietoso
Panlo, cadesti; e la tua gran piotate,
E T infoia santissima d' Apollo
In ciò nulla li valse. 0 fiamme estreme ,
0 ceneri do' mici I falerni fede
Voi, die nel vostro occaso io risolilo alcuno
Non rifiutai ni d’arme, nò di foco,
Nò di qual fosse incontro, nè di quanti
Ne facessero i Croci : e sc’l fato era
Eli’ io dovessi cader, caduto fora:
Tal ne feci opra. Ne spiccammo al fine
Da quel mortale assalto : Itilo e Delia
Ne venner meco: Itilo affililo e grave
Ciò d’anni; e Pelia, indebolito e tardo
I)’ un colpo, càie di mano ebbe d' Ulisse.
Quinci divelti , al gran palagio andammo
Da le grida chiamati. Ivi era un fremilo .
l’n tumulto, un combatter così fiero,
Come guerra non fosse in altro loco ,
E quivi sol si combattesse, e quivi
Ognun morisse, e nessun altro altrove :
Tal v’era Marte indomito, e de’Greci
Tanto concorso. Avoan la porla cinta
Di schiere e ili testuggini e di travi ,
E d' amili i lati a la parete in allo
Appoggiale le scale ; onde, saliti
E spinti un dopo l’ altro, con gli scudi
Ci ricoprian di sopra , e con le destre
Rampicando salian di grado in grado.
A rincontro i Troiani , altri di sopra
Muri e letti versando e torri intere ,
1 travi e i palchi d'oro e i fregi tutti
De la reggia e de’ regi avean per armi ;
Vermi a far sì ( poiclr eran giunti al fine )
Ch'ogni cosa con lor finisse insieme:
Ed altri unitamente entro a la porta
Statan coi ferri bassi , in rolla schiera
A guardia de t' entrala. E qui di nuovo
A sovvenir la corte , a far difesa
Per entro, a dare a' vinti animo e forza
Mi posi in core: e ’n colai guisa il Tei.
Era un andito occulto ed una porta
Secrclamcnle accomodata a l’ uso
De le stanze reali , onde solea
Andromaca infelice al suo buon tempo
Gir a’ suoceri suoi soletta , e seco
Per domestica gioia al suo grand' avo
Il pargoletto AstTanattc addurre.
Quinci entromesso, me ne salsi in cima
A l’ alto corridore, onde i meschini
Faccan di sopra a le nemiche schiere
Tempesta in vano. Era dal letto a l’ aura
«
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Ì8
DEI.L'F.NEIDE
luncturas tabulata dabanl, convellimus altis
Sedibu»; impulimusque: ea lapsa repente ruìnam
Cum soni tu traini et Danaùm super agrnina late
Incidi!. Asl alii subcunl; lice saia, nec ullum
Telorum inlerca cessai gcnus.
Vcstihulum ante ipsum primoque in limine Pjrrhus
Eisultal, telis et luce eeruscus aliena:
Qualis, ubi in lueem coluber, mala graniina paslus,
Frigida sub terra tumidum quem bruma tegebat,
Nunc positis novus eiuviis nilidusque iuventa,
Lubrica convolril, sublato pectore, terga
Arduus ad solcm, et linguis mica! ore trisulcis.
l’na ingens Peripli» et equorum agitator Achillis
Armigcr Aulomcdon, una omnis Scjria pubes
Sucecdunt ledo, et flamtnns ad culmina iactant.
Ipse inler primos corrcpta dura bipenni
Limina pcrrumpil postesque a cardine rellit
Aeratos; iamque eicisa trabe Orma cavavi!
Robora, et ingcnlcm lato dedit ore feneslram:
Apporci domus intus, et alria longa patcscunl;
Apparcnt Prismi et vetcrum penctralia regum;
Armalosquc vident slanlcs in limine primo.
At domus interior gemitu miscroquc lumullu
Miscetur; pcnilusque cavae plangoribus aedes
Femincis ululanti ferii aurea sidcra clamor.
Tum pavidae lectis malres ingcnlibus crranl,
Ampleiaequc tenenl postcs, atquc oscula (igunt.
Instai vi patria Pyrrhus; nec ctaustra, ncque ipsi
Custodes sulTerre valent. Labat ariete crebro
Ianua, et emoti procumbunt cardine postcs.
Fit via vi; rumpunt adilus, primosque trucidant
Immissi Danai, et late loca milite complent.
Non sic, aggeribus ruplis quum spumeus amnis
Eiiit, oppositasqne cvicit gurgitc moles,
Fertur in arva furens cumulo, camposquc per omnes
Cum slabulis armento trabit. Vidi ipse furenlcm
Spiccata , c sopra la parete a ilio
Un'altissima torre , onde il paese
Di Troia , il mar , le navi c ’l campo tutto
Si scopria de' nemici. A questa intorno
Co’ ferri ci mettemmo e co’ puntelli ;
E da radice , ov’ era al palco aggiunta ,
E da' suoi tavolati e da' suoi trovi
Recisa in parte , la tagliammo in tutto ,
E la spingemmo. Alla rijina c suono
Fece cadendo ; e di più Greche squadre
Fu strage c morte c sepoltura insieme.
Gli altri vi salir sopra ; e d' ogni parte
Seni' intermission d’ ogni arme un nembo
Volava intanto.
In su la prima entrala
Slava Pirro orgoglioso, c d’armi cinto
SI luminose, c da’ redassi accese
Ili tanti incendi , che di foco c d' ira
l’arcan lungo avventar raggi c scintille.
Tale un colùbro mal pasciuto e gonfio ,
Di lana uscito, ove la fredda bruma
Lo tenne ascoso , a F aura si dimostra ,
Quando deposto il suo ruvido spoglio
Ringiovcnilo, alteramente al sole
Lubrico si travolse, e con tre lingue
Vibra mille suoi lucidi colori.
Seco il gran Perifanle e T grande auriga
D’ Achille Automcdonlc , c lo stuol lutto
Era de’ Seiri ; c di gii sotto entrati ,
Fiamme a’ tetti avventando , ogni difesa
Ne faccan vana. E qui co' primi avanti
Pirro con una in man grave bipenne
Le sbarre, i legni, i marmi , ogni ritegno
De la ferralo porta abbatte c frange ,
E per disgangbcrarla ogni arte adopra.
Tante al fin ne recide clic nel meno
V apre un' ampia finestra. Appaion dentro
Gli atri! superbi i lunghi colonnati,
E di Priamo e de gli altri antichi regi
I reconditi alberghi. Appaion Farmi
Che d' avanti eran pronte a la difesa.
S’ode più dentro un gemilo, un tumulto
Un compianto di donne, un ululato,
E di confusione e di miseria
Tale un suon che feria F aura e le stelle.
Le misero matrone spaventate,
Chi qua, chi là per le gran sale errando,
Ratlonsi i petti; e con dirotti pianti
Danno infino a le porte amplessi e baci.
Pirro intanto non cessa , e furioso
In sembianza del padre, ogni riparo ,
Ogni intoppo spezzando , entro si caccia.
Già l'ariete a fieri colpi e spessi
Aperta, fracassala , e d’ ambi i lati
Da' cardini divelta avea la porla ;
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LIBRO SECONDO
39
Cuedc Neoptolemum, gemmosi] tic in limine Atridas;
Vidi llecubam ccnlumque nurus, Priomumqnc per aras
Sanguine foedantem, quos ipse sacrarmi, ignea.
Quinquaginta illi thalamì, spcs tanta nepotum,
Barbarico poslcs auro spolììsque superbi,
Procubuerc; tencnt Danai, qua deficit ignis.
Forsitan et, Prismi fucrint quac Tata, requiras.
Urbis uli captac casoni convulsaque «idi!
Limine tcctorum, et medium in penctralibus hostem,
Arma diu senior desueta Iremenlibus acro
Circumdat ncquidquam humeris, et inutile fcrrum
Cingilur, ac densos fertur morilurus in liostes.
Acdibus in mediis, nudoque sub aetbcris are,
Ingcns ara fuit, iuitaque veterrima laurus,
Iricumbens arae, atque umbra completa Pcnales.
Uic Hecuba et natae ncquidquam altaria circum,
Praecipitcs atra ccu tempestate columbae,
CondCDsae et ditóni ainpleiac simulacra sedebant.
Ipsum aulem sumlis Priamum iuvenalibus armis
Ut vidil: Quae mens lam dira, miserrime coniuoi,
Impulit bis cingi lelis? aut quo ruis? inquii.
Non tali ausilio, ncc defensoribus istis
Tcrapus egei; non si ipse meus nunc adforet ilector.
Due tandem concede; haec ara luebitur omnes,
Aut moriere simul. Sic ore dialo, recepii
Ad scsc, et sacra longaevum in sede locavi).
Quand' egli a forza urtò, ruppe c conquise
I primi armati; e quinci in un momento
Di Greci s' allagò la reggia tutta.
Qual è, se rotti gli argini, spumoso
Esce c rapido un fiume , attor clic gonfio
E torbo e rùinoso i campi inonda ,
Seco i sassi traendo e i boschi interi ,
E gli armenti e le stalle e ciò che avanti
Gli s' attraversa; in colai guisa io stesso
Vidi Pirro menar rGina e strage :
E vidi ne l’ entrata ambi gli Atridi ;
Vidi Ecuba infelice , ed a lei cento
Nuore d’ intorno; e Priamo vid' anco
Ch'eslinguea col suo sangue, oimè! quc’fochi
Clic da lui stesso eran sacrali e colli.
Cinquanta maritali appartamenti
Eran nel suo serraglio: oh quale, c quanta
Speranza de’ figliuoli e de' nipoti I
Quanti fregi , quant' oro , quante spoglie ,
E quant' altre ricchezze! e tutte insieme
Perirò incontanente: c dove il foco
Non era, erano i Greci.
Or , per coniarvi
Qual di Priamo fosse il lato estremo ,
Egli , poscia clic presa , arsa e disfatta
Vide la sua cittadc; e i Greci in mezzo
Ai suoi più cari e più riposti alberghi ;
Ancor che sòglio c debole c tremante,
L'armi che di gran tempo avea dismesse ,
Addur si fece; e d'esse inutilmente
Gravò gli omeri e’ I fianco ; e come a morte
Devoto, ove più folti c più feroci
Vide i nemici , incontri a lor si mosse.
Era nel mezzo del palazzo a l'aura
Scoperto un grand'altare, a cui vicino
Sorgea di molli c di moli' anni un lauro
Che co' rami a l' aitar facca tribuna ,
E con l' ombra a’ Penali opaco velo.
Qui , come d' atra e torbida tempesta
Spaventate colombe, a l'ara intorno
Avea le care figlie Ecuba accolte ;
Ove a gl' irati dei pace ed aita
Chiedendo, a gli lor santi simulacri
Stavano con lo braccia Indarno appese.
Qui, poiché la dolente apparir vide
II vecchio re giovenilmente ormato ,
0, disse, infelicissimo consorte,
Qual dira mente, o qual follia ti spinge
A vestir di quest’ armi ? Ove t’ avventi
Misero 7 Tal soccorso c tal difesa
Non è d’ uopo a tal tempo : non se appresso
Ti fosse anco Ettor mio. Con noi più tosto
Rimanti qui; chè questo santo altare
Salverà tutti, o morrem tutti insieme.
Ciò dello, a sé lo trasse; e nel suo seggio
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1ELL' ENEIDE
Ecco aulcm clapsus Pjrrhi tic caede Politcs,
Unus natorum Prianii, per tela, per lioslcs
Porlicibus longis fugil, cl vacua alria lustrai
Saucius. Illum ardens infesto vulucre Pjrrlius
Inscquilur, iam iamque maini lene!, cl prendi liasla
lì tandem aule oculos cvasil et ora parcntum,
Concidit, ac multo vilarn rum sanguine fucili.
Ilic Priamus, quamquam in media iam morte tcnelur,
Non (amen abstinuit. nec voci iraeque pepcrcil.
Al libi prò sedere, esclamai, prò talibus ausi»,
DI, si qua csl rodo pietas, quac talia curcl,
Persolvant gratcs dignas, et praemia rcddanl
Debita, qui nati corsili me cernere letum
Feristi, cl palrios foedasli funere vultus.
Al non ilic, salum quo te mentiris, Achillea
Talis in hoslo fui! Priamo, sed iura fìdcmquc
Supplicis erubuit, corpiisquc evsangue sepolcro
Reddidit llcclorcnm, tneqne in mea regna rcmisil.
Sic falus senior, lelumquc imbelle siile ictu
Collier it, rauco quoti prolinus aere repulsimi,
Et suolino clipei ucquidqoam umbonc pepcudil.
Cui Pjrrlius: Refercs ergo liaec, ci nuutius ibis
Pclidac genitori; illi inca trislia furia
Degeneremque Ncoplolcmum narrare mcmrnlo.
Nuuc mnrcrc. Hoc J ireos, aitarla ad ipsa Ircmcntcm
Travii et in multo lapsanlcm sanguine itali,
Impliciiilque coinam lami, dcvlraquc coruscum
Evlulit ac lalcri caputo (cnus abdidit cnscm.
Dace flnis Priami falorum; hic cvilus illum
Sorte tulit, Troiana ineensam cl prolapsa videntem
Pergama, tot quutidam populis tcrrisque superbum
Rrgnatorem Asiae. lacci ingens licore truucus,
Aiulsumquc humcris caput, d sinc nomine corpus.
!
In maestalc il pose.
Ecco d'avanli
A Pirro inlanto il giovine Polite ,
Un de' tigli del re , scampo cercando
Dal suo furore, e già da lui ferito ,
Per portici e per logge armi e nemici
Allraversando in vèr l’ aliar scn fugge :
E Pirro lia dietro clic lo segue, «’ncalza
Si clic gii gii con Tasta e con la mano
Or lo prende, or lo fere. Al fin qui giunto,
Fatto di mano in man di forza esausto
E di sangue e di vita , avanti a gii ocelli
L>’ ambi i parenti sui cadde, e spirò.
Qui, perchè si vedesse a morte esposto,
Priamo non di sè punto ohITossi,
Nè la voce frenò, nè fri’nò l'ira ;
Anzi esclamando: 0 scellerato, disso ,
0 temerario I Abbiali in odio il ciclo ,
Se nel ciclo è piclatc; o se i celesti
lian di ciò cura, di lassù ti caggia
i.a vendetta die morta opra si ria.
Empio, eh 'anzi a'mici numi, anzi al cospeilo
Mio proprio fai governo e scempio tale
D' un tal mio Cìglio, e di si fera vista
le mie luci contamini e funesti.
Colai meco non fu , benché nimico ,
Achille, a cui tu menti esser figliuolo ,
Quando, a lui ricorrendo, umanamente
M' accolse, e riverì le mie preghiere ;
Gradi la fede mia ; il' Klior mio figlio
Mi rendè ì corpo esangue, e me scettro
Nel mio regno ripose. In questa acceso
Il dcbil vecchio alzò l’ asta , e lancioila
Si, che senza colpir languida e stanca
Feri lo scudo , e lo percosse appena ,
Che dal sonante acciaro incontanente
Risospinla e sbattuta a terra cadde.
A cui Pirro soggiunse: Or va , tu dunque
Messaggiero a mio padre, e da le stesso ,
Le mie colpe accusando e i mici difetti ,
Fa conto a lui come da lui traligno:
E muori inlanto. Ciò dicendo , irato
AITcrrollo , « per mezzo il mollo sangue
Del suo Aglio, tremante e barcolloni,
A l'aliar lo condusse, iti nel ciufTo
Con la sinistra il prese, e con la destra
Strinse il lucido ferro, e neramente
Nel fianco inUno a I’ elsa glie T immerse.
Questo fin ebbe, e qui fortuna addusse
Priamo, un re si grande , un si superbo
Dominator di genti e di paesi ,
Un de l' Asia monarca ; a veder Troia
Rumala e combusta, a giacer quasi
Nel lito'un Irouco desolalo, un capo
Senza il suo busto , e senza nome un corpo.
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LIBRO SECONDO
41
Al me tum primula snevus cireumstelil horror;
Obslupui; subiil cori geniloris imago.
Ut rrgern acquacvum crudeli vuluere vidi
Vilam cihalnnlem; subiil deserta Crcùsa,
El dircpla domus, el parvi casus lidi,
ltcspicio, cl, quac sii me circum copia, lustro.
Dcscrucrc omnes defessi; cl corpora sallu
Ad terram misere aut ignibus aegra dedere.
lamquc adco super unus eram; quum liniina Veslac
Servanlcm cl lacilam secreta in sede lalcnicm
Tyndarida adspicio; dantelara incendia lucem
Erranti, passimque oculos per cuncla ferenti.
Ilio, sibi infeslos eversa ob Pergama Tcucros,
Et puenas liana ùm et deserti coniugis iras
Pracmcluens, Troiae et palriao communis Erinnys,
Abdidcrat scsc, alque aris invisa sedebat.
Exarscrc ignes animo; subii ira cadentem
lilcisci palriam, et sccleralas sumere poenas.
Seilicct haec Spartana incolumi patriasque Mycenas
Adspiciel, partoque ibil regina triumpho?
Coniugiumque, domumque, palres, natosque videbit,
1 badimi turba et Phrygiis comilala mlnislris ?
Occiderit ferro Priamus ? Troia arscril igni ?
Dardanium Inlics sudarit sanguine iilus ?
Non ila. Namquc, elsi nnllum memorabile nomcn
Femincn in pocna csl, nec habet vicloria Iaudcm,
Eistinvissc nefas tamen cl sumsissc merentis
I.audabor poenas, animumque ciplessc iuvabit
Ullricis flainmac, et cineres satìasse ntcorum.
Talia iarlabam, cl furiata mente ferebar,
Quum milii se, non ante oculis (am elara, videndam
Oblulil, cl pura per noelem in luce rcfulsit
Alma parens, confessa deam, qualisquc vidcri
Coclicolis, cl quanta, sole!; dexlraquc prehensum
Conlinuil, roscoque haec insupcr addidii ore :
Nate, quis indomitas tanlus dolor esci tal iras ?
Quid furia ? aut quonam nostri libi cura recessi! ?
Non prius adspicics, ubi fessum aelatc parcnlem
Liqueris Ancbiscn ? superai coniunsne Creusa,
Ascaniusquc pucr ? quos omnes undique Graiac
Circum errant acies, el, ni mea cura resista!,
lam flammee lulcrint, inimicus et hauseril ensis.
Non libi Tyndaridis facies invisa Lacaonac,
Culpalusvc Paris; divòm inclcmenlia, divflm,
lias evertil opcs, slernitque a culmine Troiana.
Adspice: namque omnem, quac nunc obducta lucidi
Morlalis hcbclat visus libi, cl humida circum
Caligai, nubcm cripiam; tu nc qua parenlis
Allor pria mi sentii dentro e d'inlorno
Tal un orror , che stupido rimasi.
E , di Priamo pensando il caso atroce ,
Mi si rappresentò l’ imago avanti
Dei padre mio eli’ era a ini d' anni eguale.
Mi sovvenne !' amata mia Creusa,
Il mio piccolo lulo, e la mia casa
Tuba a la violenta , a la rapina ,
Ad ogni ingiuria esposta. Allora in dietro
Mi volsi per veder che gente meco
Fosse de' miei seguaci ; e nullo intorno
Più non mi vidi; chè tra stanchi c morti ,
E feriti e storpiati, altri dal ferro ,
Altri da le ruine, altri dal foco ,
M’ avean già tulli abbandonalo.
In somma
Mi trovai solo. Onde , smarrito errando,
E d' ogui intorno rimirando , al lume
Del grand'incendio ecco mi s’olire a gli ocelli
Di Tindaro la figlia site nel tempio
Se nc stava di Vesta , in un reposlu
E secreto ridotto ascosa e cheta ;
EIcna, dico, origine e cagione
Di tanti mali, c che fu d' Ilio e d' Argo
Furia comune. Onde comunemente
E de’ Greci temendo o de’ Troiani ,
E de l'abbandonato suo marito;
S'cra in quel loco, c ’n sò stessa ristretta,
Confusa, vilipesa cd abbonita
Fin da gli stessi altari. Arsi di sdegno ,
Mcmbrando clic per lei Troia cadea ;
E 'I suo castigo c la vendetta insieme
De la mia patria rivolgendo : Adunque
( Dicea meco ), impunita e trionfante
Ritornerà la scellerata in Argo T
E regina vedrà Sparta c Micene ?
Goderà del marito , dei parenti ,
De' figli suoi? Farà pompe c grandezze,
E d’ Ilio avrà per serve c per ministri
L' altere donne c i gran donzelli intorno?
E qui Priamo sarà di ferro anciso ,
E Troia incensa , e la Dardania terra
Di tanto sangue tante volte aspersa ?
Non Ila cosi ; che se ben pregio e lodo
Non s’ acquista a punire o vincer donna ,
lo lodalo c pregiato assai tcrrommi
Se si dirà eh’ aggia d' un mostro tale
Purgato il mondo. Appaghcrommi almeno
Di sfogar P ira mia : vendicherommi
De la mia patria; e col fiato e col sangue
Di lei placherò l' ombre, c farò sazie
Le ceneri de* mici. Ciò vaneggiando ,
Infuriavo , quand’ ecco una luce
M’aprio la notte, o mi scoverse avanti
L’ alma mìa genitrice in un sembiante ,
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42
DELL'ENEIDE
lussa lime, neu praeceplis parere recusa.
ilic, ubi disieclos melos avulsaque saiis
Saia videa, miitoquc undanlem pulverc fumum,
Neptunus muros magnoquc cmola tridenti
Fundamenta quatit, tolamque ab sedibus urbani
Eruit; hic Iuno Scaeas sacrissima porlas
Prima lenct, sociumquc furcns a navibui agmen,
Ferro accincta, vocat.
lam summas arccs Tritonia, rcspice, Pallas
lnsedit, nimbo effulgens, et Gorgone saeva.
Ipse pater Danais animos vircsque seoundas
Sufficit; ipse dcos in Dardana suscitai arma,
Eripe, nate, fugam, fìncmquc impone labori.
Nusquam aboro, et tutum patrio te limine sistam.
Diierat, et spissis noctis se condidil umbris.
Apparcnt dirac facies, inimicaque Troiac
Numina magna dcòm.
Tutti vero omne trulli visum considcre in ignes
llium, et ei imo serti Neplunin Troia;
Ac, voluti summis antiquam in montibus ornum
Ouum ferro accisam crcbrisquc bipennibus inslant
Eruerc agricolae cerlatim; illa usque minatur,
Et Iremcfacla comam concusso vertice nutat,
Vulneribus donec paullalim cvicla supremum
Congcmuit, traiitque iugis avulsa ruinam.
Non come l' altre volte in altre forme
Mentilo o dubbio, ma verace c chiaro ,
E di madre c di dea , qual credo e quanta
Su tra gli altri celesti in ciel si mostra.
Colai la vidi , e tale anco per mano
Mi prese; e con pietà le sante luci
E le labbia rusale aperse , e disse :
Figlio, a clic tanto affanno? a che tini' ira?
Citò non t'acqueti ornai? Questa ì la cura
Clic tu prendi di noi? Chi non più tosto
Rimiri ov’ abbandoni il vecchio Anchise
E la cara Creiisa c '1 caro luto ,
Cui sono i Greci intorno? E se non fosso
Cha in guardia io gli aggio, in preda al ferro,
(al foco
Fòro ti già lutti. Ah Qglio I non il volto
De F odiata Argiva, non di Pari
La biasmata rapina, ma del cielo
E de' celesti il voler empio atterra
La Troiana potenza. Alza su gli occhi
( Ch'io ne trarrò l'umida nube e il velo
Che la vista mortai F appanna e grava :
Poscia credi a tua madre, e senza indugio
Tutto fa che da lei ti si comanda ),
Vedi là quella mole, ove quei sassi
Son da' sassi disgiunti, e dove il fumo
Con la polve ondeggiando al ciel si volve ,
Come fiero Nclluno indo da l’ imo
Le mura c i fondamenti c 'I terren tutto
Col gran tridente suo sveglie e conquassa.
Vedi qui su la porla come Giuno
Infuriata a tutti gli altri avanti
Si sta cinta di ferro , e da le navi
Le schiere d'Argo a’ nostri danni invila ;
Vedi poi colassù Palladc in cima
A P alta ròcca, entro a quel nembo armata,
Con che lucenti e spaventosi lampi
11 gran Gorgone suo discopre e vibra.
Che più ? mira nel ciel , che Giove stesso
Somministra a gli Argivi animo e forza,
E incontro a le vostre arme a l'arme incita
Gli eterni dei. Cedi lor, figlio, c fuggi ;
Poi clic indarno t 'affanni. Io sarò teco
Ovunque andrai, si che securamenle
Ti porrò dentro a' tuoi paterni alberghi.
Cosi disse; e per entro a le folte ombre
De la notte s’ascose.
Ailor vid' io
Gl’ invisibili aspetti, e i fieri volti
De'numi a Troia infesti, o Troia tutta
In un sol foco immersa, e fin dal foodo
Sottosopra rivolta. In quella guisa
Che d'alto monte in precipizio cade
Un orno antico, i cui rami pur dianzi
Facean contrasto a' venti e scorno al sole,
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LIBRO SECONDO
43
Dcsccndo, ac ducente dee flammam inler et hostcs
Eipcdior; dant tela locum, llammacquo rccedunl.
Alque ubi iam patriae perventum ad limina sedia
Anliquasque domos, gcnilor, quem tollero in altos
Oplabam primum montes, primumque petebam,
Abnegai excisa vilam produccrc Troia
Ersi iumque pali. Vos o, quibus integer acri
Sangui?, ail, solidacquc suo stant roborc vires,
Vos agitate fugain.
Ale si roclicolae voluissent ducere vitam,
Ilas mitii servassenl sedes. Satis una superque
Vidimus eicidia, et captac superavimus urbi.
Sic o, sic positum affali discedilc corpus.
Ipse manu inorlem inveniam; miscrebitur lioslis,
Eiuviasquc pelei. Facilis iarlura scpulcri.
Iam prideni invisus.divis et inuliiis annos
Dcmoror, ex quo me divòm pater alque hominum rei
Fulminis afllavil «cnlis, et contigli igni.
Talia perstabat nicmorans, (ixusque manebal.
Nos centra, effusi lacrimi», coniuntque Creusa,
Ascaniusque, nmnisque domus , ne venere secum
Cuncta pater fatoque urgenti incumberc velici.
Abnegai, inceploquc et sedibus haeret in isdem.
Rursus in arma feror, morlcmque miserrimus opto.
Nam quod consiiiutn aut quac iam fortuna dabatur 7
Atene cflcrre pedem, genitor, te posse rcliclo
Sperasti? tanlumquc nefas patrio cicidil ore?
Si nihil ex tanta supcris placet urbe rclinqul,
Et sedei Ime animo, perituraeque adderò Troiac
Teque tunsque invai; palei isti ianua leto ,
Iamquc aderii multo Priami de sanguine Pyrrhus,
Natum ante ora patris, pairem qui obtruncat ad aras.
Hoc erat, alma parens, quod me per tela, per ignes
Eripis, ut mediis hoslem in penelralìbus, ulque
Ascanium, palrcmque meum, iuxlaquc Creusam,
Alterimi in alterius mactatos sanguine , cemam?
Arma, viri, ferie arma; vocat lux ultima viclos.
Reddito me Donais; sinite instaurala revisam
Proelia I Nunqunm omnes hodic moriemur inulti.
Quando con molte accette al suo gran tronco
Stanno i robusti agricoltori Ritorno
Per atterrarlo , c gli dan colpi n gara ;
Da cui vinto, e dal peso, a poco a poco
Crollando e balenando, il capo inchina ,
E stride e geme c dal suo giogo al fine
0 con parte del giogo si diveglie ,
0 si scoscende, c ciò che intoppa urtando,
Di suono c di rui'na empie le valli.
Ailor discesi; e la materna scorta
Seguendo, da' nemici c da le Gamme
Hi rendei salvo ; chè dovunque il passo
Yolgea, cessava il foco , e fuggian l' armi.
Poi eli' io fui giunto a la magione antica
Del padre mio , di lui prima mi calsc
E del suo scampo, c per condurlo a’monli
AI' apparecchiava, quand' ei disse: 0 figlio ,
lo decrepito, io misero, che avanzi
Ai di de la mia patria? Io posso, io deggio
Sopravvivere a Troia ? E fla eh' io soffra
SI vile esiglio ? Voi , che ne' vostri anni
Siete di sangue c di vigore interi ,
Voi vi salvate. A me ( s' io pur dovea
Restare in vita ) avrebbe il del serbato
Questo mio nido. Assai, figlio, e pur troppo
Son Tissuto On qui ; poi eli' altra volta
Vidi Troia cadere, e non cadd’ io.
Fatemi or di pietà gli ultimi offici! ;
Iteratemi il vale , e per defunto
Cosi composto il mio corpo lasciale,
Ch’ io troverò chi mi dia morte; e i Greci
Mcdcsmi, o per piotale, o per vaghezza
De le mie spoglie, .mi trarran di vita
E di miseria; e se d'esequie io manco ,
Se manco di sepolcro , il danno è lieve.
Da l' ora in qua son io visso a la terra
Disutil peso, ed al gran Giovo in ira ,
Che dal vento percosso e da le fiamme
Fui del folgore suo. Ciò memorando
Slava il misero padre a morte addillo ,
E d' intorno gli cr’io, Creusa, Iulo ,
La casa tutta con preghiere e pianti
Slringendolo a salvarsi, a non trar seco
Ogni cosa in ruma, a non offrirsi
Da sè stesso a la morte. Ei fermo e saldo
Nè di proponimento, nè di loco
Punto si cangia: ond' io pur l’armi grido
Di morir desioso. E qual v’ era altro
Rimedio o di consiglio, o di fortuna ?
Ah ! che di questa soglia io tragga il piede.
Padre mio , per lasciarti ? Ah I che tu possa
Creder tanto di me? Da la tua bocca
Tanto di scclleranza e di viltate
È d’ un tuo figlio uscito? Or s’ è destino
Che di si gran cittì nulla rimanga ,
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DELL 1 ENEIDE
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44
Itine ferro accingor rursus; clipcoquc sinislram
lnserlabam oplans , meque exira teda ferebam.
Ecce autem complcxa peiles in limine coniunx
llaercbal, parvumque patri tendebai lulum :
Si perituri» abis, et nos rape in omnia lecum;
Sin aliquam expertus sumlis spem ponia in armis,
liane primuni lutare domum. Cui parvi» Iulus,
Cui pater, et coniuni quondam tua dieta rclinquor?
Yalia vociferar» geinitu lectum omne rcplebal;
Quinn subitum dicluquc oritur mirabile monstruui.
Naroque manus inlcr mocsloruroquc ora parcntuui
Ecce lev» biennio de vertice visus luti
Fondere lumen apex , tactuque innoxia molles
Lambere damma comas, et circum tempora pasci.
Nos pavidi trepidare mclu , crincmquc Qagrantem
Exculcrc, et sanctos rcslinguerc fonlibus ignes.
At pater Ancliises oculos ad sidera lactus
Exlulit, et coelo palmas eum voce tctendil:
lupiter omnipolcns, prccibus si flccteris ullis,
Adspicc nos; hoc tantum; et, si piemie meremur,
Da deinde auxilium, pater, utquc liacc omina brma.
Se piaec a te, se nel tuo core è fermo
Che nè di le, nè de gli tuoi si scemi
La ruma di Troia ; e cosi vada ,
E cosi fla ; eh' io veggio a mano a mano
Oui del sangue del re tutto cosperso ,
E bramoso del nostro , apparir Pirro
Che i padri uccide ansi a gli altari, e i figli
Anzi a gli occhi de’ padri. Ah I madre mia,
Per questo line qui salvo e difeso
M'hai da Farmi e dal fuoco, acciò ch’io veggia
Con gli occhi mici ne la mia casa stessa
I miei nemiri e ’l mio padre e 'I mio figlio
E la mia donna crudelmente uccisi
I.’ un nel sangue de l’altro ? Mano a l'arme :
Chi mi dù l’armo? Ecco che 'I giorno estremo
Vinti a morte ne chiama. Or mi lasciale ,
Ch' io torni infra’ nemici , e che di nuovo
Mi razzuffi con essi ; chò non tulli
Abbiam senza vendetta oggi a perire.
E già di ferro cinto, a la sinistra
II' adattava lo scudo, e fuori uscla ,
Quanti’ ecco in su la soglia attraversata
Crcusa avanti a’ piè mi si distende,
E me gli abbraccia; e ’l fanciullelto lido
M'apprescnta, e mi dice: Ah! mio ronsorlc
Dove ne lasci ? Se a morir ne vai ,
Chè non loco n' adduci ? E se ne l’armi
E ne la esperienza hai speme alcuna ,
Chè non difenili la tua casa in prima ?
Ove Ascanio abbandoni ? ove tuo padre ?
Ove Crcusa tua , che tua s'è delta
Per alcun tempo ?
E ciò gridando , empiee
Di pianto e di slridor la magion tutta.
Quaud’ccco innanzi a gli occhi, e fra le mani
De gli stessi parenti, un repentino
E mirabile a dir portento apparve ;
Che sopra il capo del fanciullo lulo
Chiaro un lume si vide, e via piò chiara
Una fiamma che tremola e sospesa
Le sue tempie rosate e i biondi crini
Scn già come leccando , e senza offesa
Lievemente pascendo. Orrore e tema
Ne presi in prima. Indi a quel santo foco
D’ intorno, altri con acqua, altri con altro,
Ognun Tacca per ammorzarlo ogni opra.
Ma il padre Ancbisc a colai vista allegro,
Le man, gli occhi e la voce al ciel rivolti,
Orò dicendo: Eterno onnipotente
Signor, se umana prece unqua ti mosse,
Vèr noi rimira, e ne Ha questo assai.
Ma se di merlo alcuno in tuo cospetto
È la nostra pietà, padre benigno,
Danne anco aita; e con felice segno
Questo annunzio ratìfica e conferma.
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LIBRO SECONDO
Vii ea fai us era! senior; subltoquc fragore
Inlonuil laevum, el de coclo lapsa per umbras
Slclla facera duccns multa cum luce cucurril.
Ulani, summa super labcntem culmina tedi,
Cernimus Idaca claram se conderc sili» ,
Signantcmque vias; tum lungo limite sulcus
Dal lucem, et lalccircum loca sulfure fumati!,
llic vero «ictus genilor se lollit ad auras,
Aflaturque deos, et sanclum sidus adorai:
lam iam nulla mora est; sequur, et, qua ducilis,adsum.
DI pairii, servale domum, servale uepotem.
Vestrum hoc augurium, veslroqueinnuminc Troia est.
Cedo cquidem, ncc, nate, libi cornea ire recuso.
Divorai ilio; et iam per moenia clarior ignis
Audilur, propiusque a estua incendia volvunt.
Ergo agc, rare pater, cervici imponere nostrae;
Ipsc subibo bumeris, ncc me iabor iste gravabit.
Quo res cunquc cadenl, unum el communc periclum,
Una salus ambobus crii. Mihi parvus Iulus
Sit Comes, et longe script vestigi.! coniunx.
Vos, famuli, quae dicam, animis advcrlite vestris.
Est urbe egressis tumulus tcmplumque vetustuni
Uescrlae Cereris, iuxtaque antiqua cupressus,
Rclligione patrum mullos seriola per annos;
Mane ei diverso sedem veniemus in unam.
Tu, genilor, cape sacra manu palriosque Penate»;
He, bello e tanto digressum et caede recenti,
Allreclare nefas, donec me Rumine vivo
Abluero.
Hacc fatus, latos humeros subicctaquc colla
Veste super fulvique instcrnor pelle Iconis;
Succedoque oneri. Deitrae se parvus Iulus
Implicuit, sequiturque palrem non passibus acquis;
Pone subii comuni. Fcrimur per opaca locorum;
Et me, quem dudum non ulta iniecla movebanl
Tela, neque adverso glomcrali ei agtnine Graii,
Nunc omnes terreni aurae, sonus eicilal omnis,
Suspcnsum el pariler comilique onerique limenlcm
Iamque propinquabam porlis, omnemque videbar
Evasisse vicem; subito quum creber ad aures
Visus adesso pedum sonilus, gcnitorque per umbram
Prospiciens: Nate, esclamai, fuge, nate; propinquant;
Ardentes clipcos atquc aera micanlia cerno,
llic milii ncscio quod trepido male numen amicum
Confusam eripuit mentem. Namque avia cursu
Dum sequor, et nota eicedo regione viarum,
lleut misero coniunx fatone crepta Creùsa
Substitit, erravilne via, seu lassa rcsedit,
Inccrtum; nec post oculis est reddila nostris.
Ree prius amissam rcspeii, animumve rellcit,
Quam tumulum antiquae Cereris sedemque sacralam
Venimus. llic demum, collcclis omnibus, una
Defuit, et comiles, nalumque, virumque fcfellil.
Quem non incusavi amens hominumque deorumque ?
Aul quid in eversa vidi crudclius urbe ?
Virgilio, voi rateo.
U
Avrà di ciò pregato il vecchio appena,
Che tonò da sinistra, e dal convesso
Del cicl cadde una slclla clic per mezzo
Fendè l' ombrosa notte e lunga striscia
Di face c di splendor dietro si trasse.
Noi la vedemmo chiaramente sopra
Da' nostri letti ire a celarsi in Ida,
Si che lasciò, quanto il suo corso tenne.
Di chiara luce un solco; e lungo intorno
Fumò la terra di sulfureo odore.
Allor vinto si diede il padre mio ;
E tosto a l' aura uscendo, al santo segno
De la stella inchinossi, e con gli dei
Tarlò devotamente: 0 de la patria
Sacri numi Penali, a voi mi rendo.
Voi questa casa, voi questo nipote
Hi conservate. Questo augurio è vostro,
E nel poter di roi Troia rimansi.
Poscia, rivolto a noi: Fa’ , figliuol mio,
Ornai disse, di ntc che più f aggrada,
Citò al tuo voler son pronto, e d‘ uscir (eco
Più non recuso. Avca già T foco appresa
La città tutta; c già le fiamme c i vampi
Ne feriali da vicino allor che il vecchio
Cosi dicca. — Caro mio padre, adunque,
Soggiuns' io, com’ è d' uopo, in su le spalle
A me li reca, c mi l' adatta al collo
Acconciamente, eh’ io robusto e forte
Sono a tal peso; c sia poscia che vuole :
Chè un sol periglio, una salute sola
Fia d' ambidue. Seguami luio al pari ;
Cremo dopo: e voi, mici servi, udite
Quel ch’io diviso. È de la porla fuori
Un colle, ov’ ha di Cerere un antico
E deserto delubro, a cui vicino
Sorge un cipresso, già moli’ anni c molti
In onor de la Dea serbalo c collo.
Qui per diverse vie tulli in un loco
Vi ridurrete: e tu con le lue mani
Sosterrai, padre mio, dc’sanli arredi
E de’ patrii Penali il sacro incarco.
Chè a me, si lordo e si recente uscito
Da tanta uccision, toccar non lece
Pria che di vivo fiume onda mi lave.
Ciò detto, con la veste e con la pelle
D’un velloso leon m’adeguo il tergo,
F. il caro peso a gli omeri m’impongo.
Indi alla destra il fanciullcllo lulo
Ili s’aggavigna, c non con moto eguale
Ei segue i passi miei, Creusa Torme.
Andiam per luoghi solitari c bui:
E me, cui dianzi intrepido e sicuro
Vider de Tarme i nembi c degli armali
Le folle schiere, or ogni suono, ogni aura
Empie di tema: si geloso fammi
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LEU/ ENEIDE
Ascanium, Anchisenque patroni, Teucrosquc Pcnalcs
Commendo sociis, el curva valle recondo;
Ipsc urbem repcto, el cingor fulgoniibus armis.
Stai, casus renovare omnes, omncmquc reverli
Per Troiam, el rursus caput obiectare pcriclis.
Principio muros obscuraque limine porlae,
Qua gressum exluleram, repelo; el vcsligia retro
Observata sequor per noctem, el luminc lustro.
Horror ubique animo?, simul ipsa silcntia terreni.
Inde domum, si forte pedem, si forte Inlissel,
Me refero. Irrueranl Danai, el teclum omne tenebant.
Micci ignis edax stimma ad fastigi» vento
Volvilur; exstipernnt flammae; furil ncslus ad atiras.
Procedo, el Priami sedes nrccmqtie reviso.
El iam porticibus vacuis lunonis osyto
Cuslodcs ledi, Phoenix el dirus Ulixes,
Pracdam asservabnnt. Hoc undique Troia gara,
Incensis erepta arfytls. mensaeqne deorum,
Craleresque auro solidi, caplivaquc tesila,
C.ongerilur. Pueri el pavidae longo ordine maire*
Stani circum.
Ausus quln elinm voces iactnre per timbram.
Impioti clamore vias, moesfusque Creusam
Nequidquam ingominans ilommque ilerumque vocavi.
Qunercnli, et teclis urbis sinc fine furenti,
Infolix simulacrum atquc ipsius umbra Crcusae
Visa inibi ante ocutos, et noia mnior imago.
Ob'tupui, sloterunlquc cornac, el vox faucibus bncsil.
Tum sic affari, el cums his demorc dictis:
Quid tantum insano iuval indulgere dolori,
0 dulcis coniunx? Noe haec slnc mimino divftm
Evcniunt: nec te comilem asportare Creusam
Fas, aut ilte sinil superi regtiator Olympi.
Lunga libi exsilia, et vaslum maris nequor arandum:
El tcrram Hespcriom venie», ubi Lydius arva
Inler opima virflm leni fluii agmine Thybris.
Illic res laclae, regnumque, et regia coniunx
Parta libi; lacrimas dilectac pelle Creusac.
Non ego Myrmidonum sedes Dolopumve superba»
Adspiciam, aul Graiis servitum matribus ibo,
Dardanis, et divae Venoris nurus;
Sed me magna dcùm gcnelrix his delinei oris.
hmqiie vale, et nati serva communis amorem.
Haec ubi dieta dedit, laerimantem et multa volenlem
Dicere dcscruil, tenuesque recessil in auros.
Ter conatus ibi collo dare brachia circum;
Ter frustra comprensa manus effugil imago,
Par levibus venlis, volucriquc similiima somno.
Sic demum socios, consumla nocle, rcviso.
E la soma e H compagno. Era vicino
A l'uscir de la porta, e fuori in lutto,
Conno credea, d’ogni sinistro incontro,
Quand’ccco d’improvviso udir mi sembra
Un calpestio di gente, a cui rivolto
Disse il vecchio gridando: Oh ! fuggi , figlio ,
Fuggi, che nc son presso, lo veggio, io sento
Sonar gli scudi, e lampeggiare i ferri.
Qui ridir non saprei, come nò quale
Avverso nume a me stesso mi tolse,
Clic mentre da la frolla e dal timore
Sospinto esco di strada , c por occulte
E non usate vie m'aggiro e celo ,
Desiai, misero me ! senza la mia
Diletta moglie, in dubbio se dal Falò
Mi si rapisse, o traviala errasse,
0 pur lassa a posar posta si fosse,
basta, cli'unqua di poi non la rividi:
Nè per vederla io mi rivolsi mai,
Nè mai me ne sovvenne, infili che giunti
Di Cerere non fummo al sacro poggio.
Ivi ridotti, ne mancò di tanti
Sola Creusa, oimè, con quanto scorno,
E con quanto dolor del suo consorte
E del figlio c del suocero c di lutti I
Io che non feci allora, c che non dissi ?
Qual de gli uomini, folle! c de gli dei
Non accusai? qual vidi in Ionio eccidio,
0 ch’io provassi, o che avvenisse altrui ,
Caso piò miserando c più crudele?
Qui mio figlio, mio padre e i paini numi
Lascio in guardia ai compagni, ed io de Farmi
Pur mi riresto, e indietro me ne torno,
Disposto a ritentare ogni fortuna ,
A cercar Troia tutto, a por la vita
Ad ogni ripentaglio. Incominciai
In prima da le mura e da la porta,
Ond’era uscito; e le vie stesse c Forme
Ripetei tutte, per cui dianzi venni,
fili occhi portando per vederla intenti:
Silenzio, solitudine c spavento
Trovai per tutto. A casa aggiunsi in prima
Cercando se per sorte ivi smarrita
Si ricovrasse. Era già presa e piena
Di nemici c di foco; c già da'teli!
Escian, da’venli c da le furie spinte.
Rapide fiamme c minacciose al cielo.
Tomo quinci al palagio; indi a la rocca;
Seguo a le piazze, apportici, a l'asilo
Di Giunon, che già fatti eran conservo
De la preda di Troia, a cui Fenice
E ’1 fiero Glisso eran custodi eletti.
Qdi d'ogni parte le Troiane spoglie
Fin delle sacrislic, fin de gli altari
Le sacre mense, i preziosi vasi
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LlllliO SECONDO
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Atque liic ingenlem comitum adlluxisse novorum
Intenio admirans numcruiD, raalrcsque, tirosquc,
Collectam exsilio pubcm, miserabile vulgus.
llndiquc convellere, animis opibusque parali,
In quascutnque vclim pelago deducere lerras.
lamque iugis summae surgebat l.ucifer Idae,
Dacebalquc diem; Danaique obscesa lencbanl
Di solid’oro, e i paramenti e i drappi
E le delizie e le ricchezze tulle
A gli inccndii ritolte, erano addotte.
D'intorno innumerabili prigioni
Slavan di funi c di catene avvinti,
E matrone e donzelle e pargoletti.
Clic di sordi lamenti c di muggiti
Eaccan ne Paria un tuono; e mcn tra loro
Era la donna mia: nè dove fosse,
Piè ripensar sapendo, osai dolente
Gridar per le vie tutte; c benché in vano,
Mille volte iterai l'amato nome.
Mentre cosi tra furioso c mesto
Per la città m'aggiro, e senza fine
La ricerco c la chiamo, ecco d'avanli
Mi si fa l'infelice simulacro
Di lei, maggior del solilo. Stupii,
M’aggricciai, m’ammutii. Prese ella a dirmi
E consolarmi: 0 mio dolce consorte,
A che si folle affanno? A gli dei piace
Clic cosi segua. A le quinci non lece
Di trasportarmi. Il gran Giove mi vieta
Ch'io sia loco a provar gli alfanni tuoi ;
Chè soffrir lunghi esigli, arar gran mari
Ti converrà pria ch'ai Ino seggio arrivi.
Clic ila poi ne l'Esperia, ove il Tirreno
Tcbro con placid'onde opimi campi
Di bellicosa genie impingua e riga.
Ivi riposo c regno e regia moglie
Ti si prepara. Or de la tua diletta
Creusa, signor mio, più non ti doglia;
Che i Dolopi superbi, o i Mirraidùni
Non vedranno già me Dardania prole,
E di Priamo figlia, e nuora a Venere,
Nè donna lor, nè di lor donne ancella,
Cbè la gran genitrice de gli dei
Appo sè liemmi. Or il mio caro lulo,
Nostro comune amore, ama in mia vece,
E lui conserva, e te consola: addio .
Cosi detto, disparve. Io che dal pianto
Era impedito, ed avea mollo a dirle.
Me le avventai, per ritenerla, al collo:
E Ire volte abbracciandola, altrettante,
Come vento stringessi o fumo o sogno,
Me ne tornai con le man vote al petto.
E cosi scorsa c consumata indarno
Tutta la notte, al poggio mi ritrassi
A’ miei compagni.
Ivi trovai con molta
Mia meraviglia d'ogni parte accolla
b'na gran genie, un miserabil volgo
D'ogni età, d'ogni sesso c d’ogni grado,
A l'esiglio parati, c insieme addilli
A seguir me, dovunque io gli adducessi,
0 per mare o per terra. Escia già d'Ida
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DELL’ENF.IDE
Liniina porlaruni, nec spes opis ulta dabalur.
Cessi, cl subbio monlem genitore pelivi.
La mattutina stella, c'Idl u'apria,
Quando in dietro mi volsi, c vidi Troia
Fumar gii tutta; e de la rocca in cima,
E di sovr'ogni porla inalberate
Le Greche insegne ; onde nè via, nè speme
Rimanendomi più di darle aita,
Cedei: ripresi il carco, c salsi al monte.
LIBRO TERZO
Postquam res Asiae Priamique evertere genlem
Imineritam visoni superis, ccdilque superbum ~
llium, et omnis humo fumai Neplunia Troia;
Diversa eisilia et dcserlas quaerere lerras
Auguriis sginiur divfim, classemquc sub ipsa
Antandro et Phrygiac molimur montibus Idae,
Incerti, quo fata ferant, ubi sisterc detur,
Contrahimusquo viros. Vii prima inceperat acslas,
Et pater Anchiscs dare fatis vela iubebat;
Litora quum patriac lacrimans portusque relinquo
Et campos, ubi Troia fuil. Fcror cisul in altum
Cum sociis naloque, Penatibus et magnis dls.
Terra procul vastis colitur Mavorlia campis,
(Thraccs arant), acri quondam regnata Lycurgo,
Hospitium antiquuni Troiae, sociiquc Pcnatcs,
Dum fortuna fuil. Fcror bue, cl litore curvo
Mocnia prima loco, fatis ingrcssus iniquis,
Aeneadasquc meo nomcn de nomine fingo.
Poiché fu d'Asia il glorioso regno
ET suo re seco e'I suo lignaggio tutto,
Come al cicl piacque, indegnamente estinto,
Ilio abbattuto e la Nettunia Troia
Desolala c combusta; i santi augùri
Spiando, a vari osigli, a varie terre
Per ricovro di noi pensando andammo:
E ne la Frigia stessa a piè d'Antandro,
Ne'monli d'Ida a fabbricar ne demmo
La nostra armata, non ben certi ancora
Ove il cicl ne chiamasse, e quale altrove
Ne dèsse altro ricetto. Ivi le genti
D'intorno accolte, al mar ne riducemmo,
E n'imbarcammo al One. Era de Fanno
La stagion prima, e i primi giorni appena,
Quando, sciolte le sarte e date ai venti
Le vele, come volle il padre Anchise,
Piangendo abbandonai le rive e i porli
E i campi, ove fu Troia, i mici compagni
Meco traendo e'I mio figlio e i miei numi
A Fonde in preda, e de la patria in bando.
È de la Frigia incontro un gran paese
Da'Traci arato, al fiero Marte addillo,
Ampio regno c famoso, e seggio un tempo
Del feroce Licurgo. Ospiti antichi
S'eran Traci c Troiani; e fin ch’a Troia
Lieta arrise fortuna, ebbero entrambi
Comuni alberghi. A questa terra in prima
Driuai'1 mio corso, c qui primieramente
Nel curvo lito con destino arverso
Una città fondai, che dal mio nome :3
Eneàde nomossi.
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libro mzma (■'
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Sacra Dionaeae mairi divisque fcrcbam
Auspicibus coeptorum operum; superoque ailenlcm
Coeliculum regi maclabam in lilore iaurum.
Forte fui! iurta luinulus, quo cornea sumino
Virgulla, et dens's haslilibus horrida myrtns.
Accessi; riridemquc ab humo convellere silvam
Oonatus, ramis tegerem ut frondcnlibus aras,
Jlorrcndum cl diclu video mirabile monslrum.
Nam, quae prima solo, ruplis radicibus, arbor
Vellitur, buie atro liquuntur sanguine gullae,
Et lerram lobo maculant. Alibi frigidus horror
Rursus et allerius lentum convellere vinien
Inscquor, et caussas penilus tentare lalenles :
Ater et allerius sequilur de corticc sanguis.
Multa movens animo, Nymphas venerabar agreslcs,
Gradivumque palrcm, Gelicis qui praesidet orvis,,
Rite secundarent visus, omcnque levarcnt.
Tcrlia sed postquam maiore haslilia nisu
Aggredior, genibusque adversae obluclor arenac;
(Eloquar, an sileam?) gemilus lacrimabilis imo
Andilur tumulo, et voi reddila fertur ad aures:
Quid miserum, Aenea, lacerasi Iam parce sepulto;
Parce pias seelerare manus. Non me libi Troia
Eilcrnum lulil, aul cruor hic de stipile manat.
Ilcu fugo cru Jcles terras, fugo lilus avarum.
Nam Polydorus ego. Hic conlìium ferrea tciit
Telorum seges, et iaculis increvit acutis.
Turo vero ancipiti mentem formidine pressus
Obslupui, sletcrunlquc cornac, et voi faucibus haesil.
Dune Polydorum auri quondam rum pondera magno
Infelii Priamus furlim mandarat alendum
Thrci'cio regi, quum iam diffiderei armis
Dardaniae, clnglque urbem obsidione riderci.
E mentre Intorno
Me le travaglio, e 1 santi sacrifici
A Venere mia madre, ed a gli dei,
Che sono al cominciar propizi, indico;
Mentre che 'n su la riva un bianco loro
Al supremo Tonante offro per vittima ,
Edile che m'avvenne. Era nel lilo
Un picciol monlicello, a cui sorgea
Di mirti in su la cima c di corniali
Una folla sclvclta. In questa entrando
Per di fronde velare i sacri altari,
Mentre dc'suol piò teneri c piò verdi
Arbusti or questo, or quel diramo e svelgo;
Orribile a veder, stupendo a dire,
M'apparve un mostro; che divello il primo
Da le prime radici, uscir di sangue
Luride gocce, c ne fu il suolo asperso.
Ghiado mi strinse il core, orror mi scosse
Le membra tutte, e di paura il sangue
Mi si rapprese, lo le cagioni ascose
Di ciò cercando, un altro ne divetsi.
Ed atro sangue uscinne: onde confuso
Vie piò rimasi , e nel mio cor diversi
Pensicr volgendo, or de l'agresli Ninfe,
Or del Scitico Marte i santi numi
Adorando, porgea preghiere umili,
Che di si Aera e portentosa vista
Mi si togliesse, o si temprasse almeno
Il diro annunzio. Ritentando ancora,
Vengo al terzo virgulto, e con piò forza
Mentre lo scerpo, c i piedi al suolo appunto
E lo scuoto c lo sbarbo (il dico, o’I taccio?)
Dn sospiroso e lagrimabil suono
Da l'imo poggio odo che grida, c dice :
Ahi! perchè si mi laceri e mi scempi ?
Perchè di cosi pio, cosi spietato,
Enea, ver me ti mostri ? A che molesti
En clf è morto e sepolto ? A che contamini
Col sangue mio le consanguinee mani?
Chè nè di patria, nè di gente esterno
Son io da te; nè questo atro liquore
Esce da sterpi, ma de membra umane.
Alti fuggi, Enea, da questo empio paese:
Fuggi da questo abomincvol lilo;
Chè Polidoro io sono, c qui confitto
fi M'ha nembo micidiale, e ria semenza
Di ferri c d’aste, che dal corpo mio
l'mor preso e radici, han fallo selva.
A colai suon, da dubbia tema oppresso,
Stupii, mi raggricciai, muto divenni,
Di Polidoro udendo.
En dc'flgliuoli
Era questi del re, che al Tracio rege
Fu con molto tesoro occultamente
Accomandato attor, che daTroiani
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/V
'o
50
DELL’ ENEIDE
llle.'ut opus fraclae Tcucrfltn, et Fortuna recessi!,
Res Agametnnonias viclrìciaque arma secutus,
Fas omne abrumpil, Polydoruin oblruncal, et auro
Vi politur. Quid non morlalia pcclora cogis,
Auri sacra farnesi Poslquam pator ossa reliquie,
Deleclos popoli ad proccrcs primumque parcnlem
Monstra dcOm refero, et quae sii sentendo, posco.
Omnibus idem animus, scclcrata cxccdcre terra,
Linqui pollulum hospilium, et dare classibus austro».
Ergo inslauramus Polydoro funus, et ingcns
Aggeritur tumulo tellus ; stani Manibus arac,
Cacrulcis moeslae vittis atraque cupresso,
Et circum Iliades, crinem de more solulae.
Infcrimus tepido spumantia cymbia lacte,
Sanguinis et sacri paleras; animamque sepulcro
, , Condimus, et magna supremum voce cicmus.
Inde, ubi prima Ddcs pelago, placalaque venti
Dani maria, et lenls crepitans vocat auster in allum
Deducunt socii naves, et lilora complcnl.
Provcliimur porlu, tcrracquc urbesque recedunt.
Sacra mari colitur medio gratissima tellus
Ncreidum mairi, et Ncpluno Aegaco,
Quam prius Arcilencns oras et litora circum
Erranlem, Gyaro cclsa Myconoque rcvinxit,
Immotamquc coli dedii, et eontcninerc ventos.
IIuc feror; haec fessos luto placidissima porlu
Accipit. Egressi vencramur Apollinis urbem.
Rei Anius, rei idem liominum Phoebiquc sacerdos,
Vittis et sacra redimilus tempora lauro
Occurrit; vetcrem Anchisen agnoscit amicum.
Iungimus hospitio dcxlras, et leda subimus. C ^
Tempia dei saxo vencrabar strucla vetusto:
Da propriam, Thymbraec, domum, da mocnia fessis,
Et genus, et mansuram urbem. Serva altera Troiac
Pergama, relliquias Danaùm atque immitis Addili.
Qucm sequimur ? quovc ire iubes ? ubi ponere sedes?
Da, pater, augurium, atque animis illabcre noslris.
Incominciossi a diffidar de Farmi,
E temer de l'assedio. Il rio tiranno,
Tuslo che a Troia la fortuna vide
Volger le spalle, nnch'ci si volse, e Farmi
E la sorte segui dei vincitori;
SI che de l'amicizia e de l'ospizio
E de l’umanità rotta ogni legge,
Tolse al regio fanciul la vita e I’ oro.
Ahi de l'oro empia ed esccrabil fame!
E ebe per te non osa, c che non tenta
Quesl’umana ingordigia? Or poichè’l gelo
Mi fu da Fossa uscito, a'primi capi
Del popol nostro ed a mio padre in prima
Il prodigio refersi, e di ciascuno
Il parer ne spiai. Via, disscr lutti
Concordemente, abbandoniam qucst'empia
E scellerata terra; andiate lontano
Da questo infame e traditore ospizio.
Rimettiamci nel mare. Indi l'csequie
Di Polidoro a celebrar no demmo;
E, composto di terra un alto cumulo,
Gli aliar vi consacrammo a I Numi inferni ,
Che di cerulee bendo c di funesti
Cipressi cran coperti. Ivi le donne
D'Ilio, com’è fra noi rito solenne,
Vestite a bruno e scapigliale e meste
Ulularono intorno; e noi di sopra
Di caldo latte c di sacrato sangue
Piene tazze spargemmo, e con supremi
Richiami amaramente al suo sepolcro
Rivocammo di lui l’anima errante.
Nè pria ne si moslràr Fonde sicure,
E lìdi i venti, che, del porto usciti,
Incontanente nc vedemmo avanti
Sparir l’odiosa terra, c gir da noi
Di mano in man fuggendo i liti c i monti.
E nel mezzo a l'Egèo, diletta a Dori
Ed a Nettuno, un'isola famosa,
Che già mobile c vaga intorno a'Iiti
Agitala da Fonde errando andava;
Ma fatta di Latona e de'suoi figli
Ricetto un tempo, dal pietoso arciere
Tra Giare e Micon fu sirena in guisa,
Che immota e colla e consacrala a lui
Ebbe poi le tempeste e i vculi a scherno.
Qui porto placidissimo c securo
Stanchi ne ricevette, e già smontali
Vcneravam d’ApoIlo il santo nido;
Quand'ecco Anio suo rege, e rege insieme
E sacerdote, che di sacre bende
E d’onoralo alloro il crine adorno
Ne si fa'nconlro. Era al mio padre Anchise
Già di molt’anni amico; onde ben tosto
Lo riconobbe, c con sembiante allegro
Lui primamente, indi noi lutti accolli,
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MIMO SECONDO
SI
Vi* ea faina crani, (rcmerc omnia risa repente,
l.iminaque, laurusqtte dei, tolusque movcri
Mons circnm, et mugirc adylis cortina reelusis.
Submissi pctimus imam, et vo» ferlur ad aurea:
bordanidae duri, quae vos a stirpe parenlum
Prima lulil tellus, cadem ros ubere laeto
Accipiet reducca. Autiquam «quirite matrein.
Hic dumus Arnese ennetis dominabilur orìs.
Et nati natorum, et qui nascentur ab illis.
linee Phocbus; mixtoque ingens «orti tumulili
Lactilia, et cuncti, quae sint ea moenia quaerunt.
Quo Plioebus vocct errantcs, iubeatque rercrti.
Tum gcnitor, vctcrum volvens monumenta rirorum,
Auditc, o proccres, ait, et spes discile restras.
Creta Iovis magni medio iacet insula ponto,
Mons Idaeus ubi et gcnlis cunabula noslrac;
Ccntum urbes liabitant magnas, uberrima regna;
Maximus unde paler, si rite audila rccordor,
Tcucrus Rhocleas primum est adrectus ad oras,
Optavitquc loeum regno. Nondum llium et arces
Pergamene sletcrant; habitabant rallibus imis.
Itine malcr cullrix Cybelae, Corybanliaquc aera,
IJacumque nemus; hinc fida silenlia sacri?,
Et iuncti currum dominae subierc leoncs.
Ergo agile, et, divòm ducunt qua iussa, sequamur,
Placcmus ventos, et Gnosia regna pctamus.
Noe longo distant cursu; modo lupiler adsil,
Tertla lux classem Crclaeis sistcl in oris.
Sic fatus, mcritos aria maclavil honores,
Taurum Nepluno, taurum libi, pulcher Apollo,
Nigram Ilicmi pecudcm, Zepltyris felicibus albam.
M
N'abbracciò, ne'nvilù, seco n'addusse.
Quinci al delubro, che ad Apollo in rima
Era d'un sasso anlicamentc ostruito,
Tulli salimmo, ed io devoto orai:
Danne, Padre Timbrco, propria magione
E propria terra, ore già stanchi abbiamo
Posa e ristoro, e ne da’stirpe e nido
[ Opportuno, durabile c scettro;
Danne Troia novella; c dc'Troiani
Serba queste reliquie, che avanzale
Sono appena a gli storpi, a le ruinc,
Al foco, a’Greci, al dispiclalo Achille.
Mostrane chi ne guidi, ove s’indrizxi
Il nostro corso, c qual Ita T nostro seggio.
Co i tuoi più chiari c manifesti augùri.
Signor, tu ne predici, e tu n'ispira.
Avea ciò detto appena, che repente
Il limitare, il tempio c 'I monte tutto
Crollossi intorno; scompigliàrsi i lauri;
Aprissi, c da gli interni suoi ridotti
Mugghiò la formidabile cortina.
Noi riverenti a terra ne gillammo;
E T suun, ch'era confuso, a l’aura uscendo,
Articolossi, e cosi dire udissi:
Dardanidi robusti, onde l'origine
Traeste in prima, ivi ancor Itelo e fertile
Di vostra antica madre il grembo aspettavi.
Di lei dunque cercate; a lei tornatevi:
Ch'ivi sovr'ogni gente in tutti i secoli
Domineranno i gloriosi Encadi,
E la posterità de gli lor posteri.
Ciò disse Apollo; c del suo dello fessi
Infra noi gran letizia e gran bisbiglio,
Interrogando e ricercando ognuno
Qual paese, qual madre, qual ricetto
Ne s'accennasse. Allora il padre Anchisc
Da lunge i tempi ripetendo e i casi
Dei nostri antichi eroi: Signori, udite,
Ne disse, ch'io darò lume e compenso
A le vostre speranze. È del gran Giove
Creta quasi gran cuna in mezzo al mare
Isola chiara, e regno ampio e ferace,
Che cento gran città nodrisce c regge.
Ivi sorge iin'ailrTda, onde nomata
Fu Fida nostra; ond'ha seme e radice
Nostro legnaggio; onde primieramente
Teucro, padre maggior dc'maggior nostri
(Se ben me ne rammento), errando venne
A le spiagge di Reto, ov'cgli elesse
Di fondare il suo regno. Ilio non era;
Nè di Pergamo ancor sorgean le mura
Fino in quel tempo; c sol ne l'irne valli
Abilavan le genti. Indi a noi venne
l.a gran Cibele madre; indi son l’armi
De’Coribanli, indi la selva Idea,
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52
DELL'ENEIDE
Fuma volai, pulsum regni: ceasissc paterni:
Idomenca duccm, dcscrtaque litora Crctac;
llosle vacare domos, sedesque adatare reliclas.
Linquimus Ortygiae porla?, pclagoquc volanms,
Bacchalamque iugis Naxon, viridemque Donusam,
Olearon, niveamque Paron, sparsasque per acquor
Cycladas, et crebri: legimiis frela consila Icrris.
Nanticu: cxorilur vario cerlamine clamor,
Ilortantur socii, Cretarn proavosque pctamus.
Proscquitur surgens a puppi ventus cuntcs.
Et tandem antiquis Curctum allabimur oris.
Ergo aiidus muro: optalac molior urbis,
Pergameamquc voco et ladani cognomino gentem
Ilorlor amare focos, arcemquc allollero tedia.
Tamquc fere sicco subduclac litore puppes;
Connubiis arvisquo novis operata iuventus:
tura domosque dabam, subito quum tabida membri:,
Corrnpto coeli traclu, miserandaque venit
Arboribusquc salisque lues, et Iclifcr annus.
Linqucbant dulces anima:, aut aegra Iraliebant
Corpora; lum sterilcs cxurcrc Sirius agros;
Arebant hcrbac, et victum segrs aegra negabal.
Hursus ad oraclum Orlygiae l’hoebumque remenso
llorlalur pater ire mari, veniamque precari:
Quam fessis finem rebus ferat, unde laborum
Tentare auxilium iubeal, quo vertere cursus.
E quel Odo silenzio, onde celati
Son quei nostri misteri, e quei leoni
Che al carro de la dea son posti al giogo.
Di là dunque veniamo, e là vuol Febo
Clic si ritorni. Or via seguiamo il Fato :
Plachiamo i venti, e ne la Creta andiamo,
Clic non è lungc; e se n'i Giove amico,
Anzi tre di n'approderemo ai liti.
Ciò dello, a ciascun dio, come convicnsi,
Sacrificando, due gran tori uccise,
E l’un diede a Nettuno e l'altro a Febo;
Una pecora negra a la Tempesta;
Al Sereno una bianca.
Era in quei giorni
Fama, che Idomcnéo Cretose eroe,
Da la sua patria e da'patcmi regni
Era scaccialo; onde di Creta i liti,
D'armi, di duce c di seguaci suoi
Nostri nemici, in gran parte spogliati,
Stavano a noi senza contesa esposti.
Tosto d'Ortigia abbandonammo i porti;
Trapassammo di basso i pampinosi
Colli, c Bacco onorammo: i verdi liti
Di Donusa, c d'Olèaro varcammo;
Giungemmo a Paro, e le sue bianche ripe
Lasciammo indietro. Indi di mano in mano
L’ altre Cicladi tutte e l mar che rotto
Da tant’ isole e chiuso ondeggia c ferve;
E seguendo, com'i de* naviganti
Marinaresca usanza, in Creta, in Creta,
Lietamente gridando, con un vento
Che no feria senza ritegno in poppa,
Quasi a volo andavamo; onde ben (osto
Dc'Cureli appressammo i liti antichi;
E gli scoprimmo, c «'approdammo al fine.
Giunti che fummo, avidamente diemmi
A fabbricar le desiate mura,
E Pcrgamea da Pergamo le dissi.
Con questo amalo nome amore e speme
Destai di nuova patria, e studio intenso
D'alzar le mura c di fondar gli alberghi. '
Eran le navi in su la rena addotte
Per la più parte; era la gente intenta
A Parti, a la coltura, a i maritaggi,
Ad ogni affare; ed io lor ministrava
Leggi e ragioni, e Pacca tempii e strade,
Quando fera, improvvisa pestilenza
Ne sopravvenne; c la stagione e l’anno,
E gli uomini c gli armenti e l'aria e l'acquo
E tull'allro infettonne; onde ogni corpo
0 cadeva, o languiva; e la semente
E i frutti c i’erbc e le campagne stesse
Da la rabbia di Sirio e dal veleno
De l'orribil conlage arse e corrotte,
Q negavano il vitto. Il padre mio
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LIBRO SECO*!*»
te eroi, et terris ammalia soinnus liabebat:
Edlgics sacrae divùm Phrygiique Pcnales,
Quos mecum a Troia mcdiisquc ex ignibus urbis
Eztuleram, risi ante oculos adslare iaccnlis
In somnis, multo muniresti lumino, qua se
Piena por inscrtas fundcbat luna foncslras;
Tum sic affari, et curas bis demere dictis:
Ouod libi dolalo Orlygiam diclurus Apollo est,
lite cani!, et tua nos en ultro ad limlna miltit.
Kos, le, Dardania incensa, tuaquu arma sccuti,
te, tumidum sub le permcnsi classibus acquor,
Idem venturos lollemus in astra ^Qfiotes,
Imperiumque urbi dabimus.J'u moenia magnis
Magna para, longumque fugae ne linque laborem.
Mnlandac sedes. Non haec libi litora suasit
Delius, aut Crelae lussi! considero, Apollo.
Est locus, ilesperiam Graii cognomino dicunt;
Terra antiqua, potens armis atque ubere glebae:
Oenotri colucre viri: nunc lama, minores
Italiani dijissc ducis de nomine genlem. -,
Ilae nobis propriae sedes; bine Dardanus ortus.
lasiusquc palcr, genus a quo principo nostrum.
Surge age, et haec lactus lungarno dieta parenti
Haud dubitando reler: Corylbum lerrasquc requi rat
Ausonias. Dictaca negai libi lupiterarva.
Tal ih us altonitus visia ac voce deorum,
(Ncc sopor illnd crai, sed coram agnosccre vullus
Vclatasquc comas praescnliaque ora videbar ;
Tum gelidus loto manabat corporc sudor)
Corripio c stralis corpus, lendoque supinas
Ad coclum cum voce manus, et multerà libo
Intemerata locis. Perfecto laelus bonore
Ancliisen facio cerlum, remque ordine pando.
Agnavil prolem ambiguam gominosque parenles,
Seque novo veterum dcceplum errore locorum.
Tum memorai : Nate, lliacis eiercite fatis,
Sola milii tales casus Cassandra cancbat.
Nunc repeto, haec generi porlendere debita nostro,
Et saepe Ilesperiam, saepe Itala regna vocare.
Sed quis ad Ilcspcriac venturos litora Tcucros
Crederei? aut quem tum vales Cassandra moverei ?
Cedamus Phocbo, et moniti meliora sequamur.
Sic all ; et cuncti dirlo paremus ovantcs.
liane quoque deserimus sedem, paucisquc relictis
A eia damus, vaslumquc cava trabe currimus acquor.
Poslquam altum lenucrc rales, ncc iam amplius ullac
Apparcnl terrac, coclum undique, et undique ponlus;
Vusiuo voi. rateo.
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Per consiglio ne diè che un’altra volta
Rinavigando il navigalo mare,
Si tornasse in Ortigia, e clic di nuovo
Ricorrendo di Febo al santo oracolo,
Perdon gli si chiedesse, aita c scampo
Da si maligno e velenoso influsso,
Ed alfln del cammino e de la stanza
Chiaro ne si traesse indrizzo e lume.
Era giù notte, e già dal sonno vinta
Posa c ristoro avea l’umana gente.
Quando le sacre effigie de’ Penati,
Quelle che meco avea tcatle dal fuoco
De la mia patria, quelle stesse in sogno
Vivo mi si mostràr veraci e chiare:
Tal piena, avversa e luminosa luna
Penetrava per entro al chiuso albergo
Di puri vetri i lucidi spiragli;
E come eran visibili, appressando
!.a sponda ov’io giacea soavemente
Mi si fecero avanti, e ’n colai guisa
Mi conforlaro: Quel che Apollo stesso,
Se tornassi in Orligia, a te direbbe,
Qui mandati da lui ti diciam noi:
E noi siam quei che dopo Troia incensa
Per tanti mari, a tanti affanni tcco
N’uscimmo, e te seguiamo c l’armi tue.
Noi compagni ti siamo; e noi saremo
Ch'alia nova città, che tu procuri,
Daremo eterno imperio, e i tuoi nipoti
Ergeremo alle stelle. Alto ricetto
Tu dunque, c degno de l'altezza loro,
Prepara intanto; e i rischi c le fatiche
Non rifiutar di più lontano esiglio.
Cerca loro altro seggio; ergi altre mura
Vie più chiaro di queste; chè di Creta
Nè curiam noi, nè lo li dice Apollo.
Una parte d’Europa, e che da'Grcci
Si disse Esperia, antica, bellicosa
E fertil terra. Da gli Enotrii colta
Prima Enotria nomossi: or com’è fama,
Preso d’italo il nome, Italia è della.
Questa è la terra destinata a noi.
Quinci Dardano in prima e lasio uscirò;
E bardano è l’aulor del sangue nostro.
Sorgi dunque c riporla al padre Anchise
Quel ch'or noi ti diciam, che diciam vero:
E tu cerca di Cònio, c d'Ausonia
L'anlichc terre, chè da Giove in Creta
Regnar ti s’inlcrdicc. Io di tal vista,
E di lai voci, ch’eran voci c corpi
De’ nostri dei, non simulacri c sogni,
(Chè ne vid’in le sacre bende c i volli
Spiranti vivi) attonito e cosperso
Di gelato sudore, In un momento
Salto dal letto; e con le mani al ciclo
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54
DELL’ ENEIDE
Tum mihi cacrulcus suprn caput adslitit imber,
Noelem hiememque fcrens; et inliorruil unda Icncbris.
Continuo venti volvunt mare, magnaque siirguni
Aequora; dispersi iaclamur gurgilc vasto.
Involvcrc diem nimbi, et nox humida coclum
Abstulit; ingemmarli abruptis nubibus ignes.
Excutimur cursu, et caccis crramus in undis.
Ipsc dicm noctcmque negai discernere coelo,
Nei* meminisse viac media Palinurus in unda.
Tres adeo inccrtos cacca caligine soles
Erramus pelago totidem sine sidcre noctes:
Quarto terra die primum se attollcre tandem
Visa, apcrirc procul montcs, ac volvere fumum.
Vela cadimi; remis insurgimus; haud mora, nautac
Aditisi torquent sptimas, et caerula verruni.
Servatimi ex undis Slrophadum me lilora primum
Accipiunt. Strophades Graio stani nomine dictac
Insulae Ionio in magno, quas dira Cclaeno
Ilarpyiaeque colimi aliac, Phinela postquam
Clausa dumus, niensasque nielli liquere priores.
Trislius liaud illis monstrum, nec saevior ulla
Pcslis et ira deùm Stygiis scsc extulil undis.
Virginei volucrum vultus, foedUsima venlris
Proluvies, uncacque manus, et pallida semper
Ora fame.
lluc ubi dclali porlus intravimus, ecce
bacia boum passim campis armento videmus,
Caprigcnumque pecus, nullo custode, per herbas.
Irruimus ferro, et divos ipsumque vocamus
In partem praedamque Iovem. Tum lilorc curvo
Exslruimusque toros, dapibtisquc epulamur opimis.
At subitac liorrifico lapsu de inontibus adsunt
llnrpyiae, et magnis quaiiunt clangoribus alas,
Diripiunlquc dapes, conlactuquc omnia focdanl
Immundo: tum vox lelruin dira inter odorem.
Rursum in seccssu longo sub rupe cavala,
Arboribus clausi circuii! alque liorrenlibiis umbris,
Iiistruinms mcnsas, orisque reponimus ignem:
Rursum ex diverso coeli caecisque latebris
Turba sonans praedom pedibus circumvolat uncis,
Potimi ore dapes. Sociis lune, orma ropessant.
Edipei dira bcllum nini gente gerendum.
Haud sccus ac lussi facilini; leclosque per herbam
Disponunl enses, et sciita lalcnlia condunl.
Ergo, ubi delapsae sonitum per curva dedere
Lilora, dat signum specula Misenus ab alla
Aere cavo. Invadimi socii, et nova proclia tenlant,
Obsccnas pelngi ferro foedarc volucrcs.
Sed ncque vini plumis ullam, ncc vulnera tergo-
Accipiunt, celerìque fuga sub sidern lapsae
Scmcsam praedam et vestigio foeda rclinquunt.
Una ili praccelsa consedil rupe Celaeno,
Infelix vates, rupilquc Itane pectore voccm:
Rellum eliam prò cacdc boum slralisquc iuvencis,
Laomedontiadae, belluronc inferro paratia,
E con la voce supplicando, spargo
Di doni intemerati i santi fochi.
Riveriti i renali, al padre Anchisc
Lido men vado, c del portento intera-
mente il successo e l'ordine gli espongo.
Incontanente riconobbe il doppio
Nostro legnaggio, ci due padri ci due tronchi,
Di cui rami siam noi, vette c rampolli;
E, d’erro uscito: Ora io m’avteggio, disse,
Figlio, che segno sci delle fortune
E del fato di Troia, e ciò rincontro
Che Cassandra dicco. Sola Cassandra
Lo previde e ’l predisse. Ella al mio sangue
Augurò questo regno; e questa Italia
E questa Esperia avea sovente in bocca.
Ma chi mai nc I’ Esperia avria creduto
Che regnassero i Teucri? E chi credca
In quel tempo a Cassandra? Ora, mio figlio,
Crediamo a Febo; e ciò chc'l dio del vero
Nc dà per meglio, per miglior si elegga.
Ciò disse, e i detti suoi tosto eseguimmo
Ed ancor questa terra abbandonammo,
Se non se pochi. N’andavamo a vela
Con sccond'aura; c già d'alto mirando,
Non più terra apparia, ma cielo ed acqua
Vcdevam solamente; quando oscuro
E denso e procelloso un nembo sopra
Mi stette al capo, onde lempesta c notte
Ne si fece repente , e, di più sili
Rapidi uscendo, impcrvcrsaro i venti;
S’abbuiò l’aria, abbaruffassi il mare,
E gonfiaro altamente e mugghiar Tonde.
Il ciel fremendo, in tuoni, in lampi, in folgori
Si squarciò d'ogni parte. Il giorno notte
Fòssi, e la nollc abisso; c l’un da l’altro
Non discernendo Pnlinuro slesso
De la via difildossi e de la vita.
Così (olii dal corso, c quinci e quindi
Per lo gran golfo dissipati e ciechi,
Da buio e da caligine coverti,
Tre soli interi senza luce errammo,
Tre notti senza stelle. Il quarto giorno
Vedemmo al fin, quasi dal mar risorta,
La terra aprirne i monti c gittar fumo.
Caggion le vele; e i remiganti a prova,
Di bianche schiume il gran ceruleo golfo
Segnando, inverso i liti i legni affrettano.
Nè prima fui di sì gran rischio uscito,
Che giunto nelle Strofadi mi vidi.
Strofadl grecamente nominale
Son certe isole in mezzo al grande Ionio,
Da la fera Celeno c da qucll’altre
Rapaci c lorde sue compagne Arpie
Fin da l'ora abitate, che per tema
Lasciar le prime mense, e di Fiitèo
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I.IBBO ÌECOKOO ‘JJ.
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El patrio Harpyias intontcs pellerc regno?
Arcipilc ergo animi* alque liaec mea llgilc dieta.
Quac Plioebo pater omnipoleos, mitri Plmebus Apollo
Pracdiiit, fobia Furiarum ego maxima pando
Italiani cursu petilis: vcnlisque vocali*
Ibilis Italiani, porlusquc intrare liccbit;
Sed nuli aule dalam cingclia moenibus urbani,
Quam vos dira fumes noalraequc iniuria cacdis
Ambesas subigat malia absumere menaas.
Dixil, et in silvani pennis ablata refugit.
At aociis subita gelidus formi dine sanguis
Deriguit; cecidere animi, nee iam amplius armis,
Sed volìs precibusqne iubent ciposccrc pacem,
Sivc deac, scu siut dirae obscenaequc volucres;
Et pater Anchiscs paasis de lilorc palmia
Rumina magna vocal, meritosque indirii bonorcs:
DI, probibete minas; di, (aleni avertile casum,
Et placidi servate pios. Tum litore funem
Deripere, cxcussosquc iubel taxarc rudenles.
Tendimi velo Roti; ferimur spumantibus undis,
Qua cursum ventusque gubernatorque vocabal.
Ioni medio appare! fluclu nemorosa Zacynlhos,
Dulichiumque, Samequc, el Reritos ardua saxis:
EfTugimus scopulos Iibacac, Laorlia regna,
Et lerram altriccm saevi exsecramur t.'lixi:
Mox el Leuealac nimbosa cacumina montis
El formidalus qaulis aperilur Apollo,
llunc pctimus fessi, et parvae succcdimus urbi:
Ancora de prora iacitur, stant licore puppcs.
Fu lor chiuso l'albergo. Altro di questo
Più sozzo mostro, altra più dira pesto
Da le tarlarne grolle unqua non tenne.
Scmbran vergini a'votli; uccelli c ragno -
A Patire membra; hanno di ventre un fedo
Profluvio, ond' è la piuma intrisa ed irta;
Le man d' orligli armale; il collo smunto;
La faccia per la fame c per lo rabbia
Pallida sempre c raggrinzata e magra.
Tosto che qui sospinti in porlo entrammo.
Ecco sparsi veggiam per la campagna
Senza custodi andar gran torme errando
Di cornuti e villosi armenti c greggi.
Smontiamo in terra; e per far carne, prese
L’ armi, a predare andiamo, de la preda
Gli dei chiamiamo c Giove stesso a parte.
Fatta la strage e già parati i cibi,
E distese le mense, cravam lungo
Al curvo lido a ricrearne assiti,
Quand'ecco che da’ monti in un momento
Con dire voci e spaventoso rombo
Ne si fan sopra le bramose Arpie;
E con gli urli c con P ali e con gli ugnoni,
Col tetro, osceno, abbomincvol puzzo
Re sgominàr le mense, ne rapirò,
Re infetlàr lutti, e i cibi e i lochi c noi.
Era presso un ridotto, ove alta e cava
Rupe d' arbori chiusa e d'ombre intorno
Facca capace ed opportuno ostello.
Ivi ne riducemmo, e ne le mense
Riposti i cibi e ne gli altari i fochi,
A convirar tornammo; ed ecco un'altra
Volta d'un'allra parte per occulte
E non previste vie ne si scoverse
L'orribil torma; e con gli adunchi artigli,
Co' Acri denti c con le bocche impure
Ghermir la preda, e ne lasciàr di novo
Véle le mense e scompigliate e sozze.
Allor, via (dico a* mici) di guerra i d'uopo
Contro si dira gente; c lutti all'arme
Ed a battaglia incito. Eglino in guisa
CIP io gli disposi, i ferri ignudi c Paste
E gli scudi e le Trombe e i corpi stessi
Infra l'erba acquatlaro: il lor ritorno
Stero aspettando. Era Miseno in allo
A la vedetta asceso; e non più tosto
Scoprir le vide, c schiamazzare udillc,
Che col canoro suo cavo oricalco,
Re diè cenno a'compagni. Uscir d'aggualo
Tutti in un tempo, e nuova zuffa e strana
Tentar conira i marini uccelli in vano:
Chi le piume e le terga ad ogni colpo
Arcano impenetrabili e sccurc ;
Onde scemamente al ciel rivolte
Se ne fuggirò, c De lasciàr la preda
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DELL’ ENEIDE
5C
Ergo insperata tandem tclfurc potiti,
Lustramurque lovl, votisque inccndimus aras ;
Arliaquc Iliacis cclcbramus litora ludis.
F.vcrccnl palrias oleo labcnte palaeslras
Nudali socii. luvat evasisse tot urbes
Argolicas, mediosquo fugain tcnuisse per lioslcs.
Sgraffiata, smozzicata e lorda tutta.
Sola Ccleno a l'alta rupo in cima
Disdegnosa fermossi; e d’infortunii
Trista indovina, infuriassi, e disse:
Dunque non basta averne, ardita razza
Di Laomedontc, depredali e scorsi
Gli armenti e i campi aostri, che ancor guerra.
Guerra ancor ne movete? E le innocenti
Arpie scacciar dal patrio regno osate?
Ma sentite, e nel cor vi riponete
Quel ch’io v’annunzio. lo son Furia suprema
Clic annunzioavoiqucl chc't granGioveaFe-
E Febo a me predice. Il vostro corso [bo,
È per l'Italia; e ne l’Italia avrete
E porto e seggio. Ma di mura avanti,
La città che dal eie! vi si destina,
Non cingerete, che d’un tale oltraggio
Castigo arde; e dira fame a tanto
Vi condurrà, che fino anco le mense
Divorerete. E, cosi detto, il volo
Biprese in vèr la selva, e dileguossi.
Sgomcntaronsi i miei, cadde lor l'ira;
E prieghi, in vece d’ armi, e voti oprando,
Mercè chiesero c pace, o dive o dire
Che si fosscr l'alale ingorde belve:
ET padre Anchise in su la riva sporte
Al ciel le palme, e i gran celesti numi
Umilmente invocando, indisse i sacri
A lor dovuti onori: 0 dii possenti,
0 dii benigni, voi rendete vane
Queste minacce; voi di caso tale
Ne liberale; e voi giusti c voi buoni
Siate pietosi a noi ch'empii non siamo.
Indi ratto comanda che dal lito
Si disciolgano i legni. Entriam nel mare,
Spicghiam le velca gli austri, evia pcrl'ondc
Spumose a lutto corso in fuga andiamo
U 've 'I vento e ’l noccliier ne guida e spinge.
E già d'alto apparir veggiam le selve
Di Zacinto : passiam Dulichio e Samo:
Yarchiam Nerito alpestre; c via fuggendo,
E bestemmiando, trapassiam li scogli
DTtaca, imperio di Laccio, e nido
Del fraudolente Ulisse. Indi ne s'apre
II nimboso Lcucate, e quel, che tanto
A' naviganti & spaventoso, Apollo.
Ivi stanchi approdammo: ivi gittate
L'ancore, ed accostati i legni al lito,
Ne la piccola sua cittade entrammo.
Grata vie più quanto sperala meno
No fu la terra; onde purgati ergemmo
Altari e voti, ed ostie a Giove offrimmo.
E d'Azio in su la riva festeggiando
Ignudi ed unti, uscir de' mici compagni
1 più robusti, c com' è patria usanza,
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li mio secondo
S7
Interca niagnutn sol clrcumvohilur annum,
Et glaciale liienis aquilonibus asperai undas.
Aere caro ctipeum, magni geslamen Abanlis,
Postibus adversis Ago, et rem cannine sigilo:
Aeneas haec de Danai! victoribvs arma.
Umilierò tum portus iubeo, et considero transtris.
Cerlatim sodi feriunt mare, et aequora serrani.
Protenus acrias Phaeacum abscondimus arces,
Litoraquc Epiri tegimus, portuque subimus
Chaonio, et celsam Buthroti acccdimus urbem.
Ilic incrcdibilis roram fama occupai aures,
Friamidcn llelenum Graias regnare per urbe;,
Coniugio Aeacidac Pyrrlii sceplrisque politimi;
Et patrio Andromachen ilerum cessissc marito.
Obstupui, miroqnc inccnsum peclus amore
Compcllare virum et casus cognoscerc lanlos.
Progrcdior portu, classes et litora linquens;
Solcmnis quum forte dapcs et Irislia dona
Ante urbem in luco, falsi Simoentis ad undam,
Libabat cineri Andromachc, Manesque vocabat
Hccloreum ad lumulum, viridi quem cespite inanem,
Et geminas, caussam lacrimis, sacraveral aras.
Ut me conspciit venicntem, et Troia circum
Arma amens vidit, magnis citerrila monslris,
Dcriguil visu in medio; calor ossa reliquit:
Labilur, et tongo vii tandem lempore fatur:
Verune le facies, verus milii nunlius affers,
Nate dea? Vi visite? aut, si lui alma recessit,
Hector ubi est? Diiit, lacrimasque effudìt, et omnem
Implevit clamore locum. Vii pauca furenti
Subiicio, et raris turbalus vocibus bisce:
Vivo equidem, vitamque extrema per omnia duco.
Ne dubita; nam vera vides.
llcui quis le casus, deiectam coniuge tanto,
Eicipil? aut quae digita salis fortuna revisil?
llecloris Andromacbe Pyrrhra’ connubia servas?
Deiccit vultum, et demissa voce locula est :
O fclii una ante alias Priamcia virgo,
lloslilcm ad tumulum Troiac sub mocnibus alti:
lussa mori, quae sorlilus non peduli! ullos,
Nec victoris beri teligit capliva cubile I
Nos, patria incensa, diversa per aequora veclao,
Slirpis Acbilleae fastus luvcnemquc superbum,
Scrvitio cnivae, tulimus; qui deinde, secutus
Ledaeam Ilermioncn Lacedaemoniosquc Hymenacos,
Me famulo fatnulamquc Ilclcno transmisil Itabcndam.
Ast illuni, ercptac magno ioflammatus amore
Coniugis, et scelcrum Furiis agilalus, Orcstcs
Eicipil ineautum, patriasque oblruncal ad aras.
Varie palestre a lotteggiar si diero;
Gioiosi che per tanto mare c tante
Greche terre mimiche a salvamento
Fosscr lant'ollre addotti. Era de l'anno
Compito il giro, e i gelidi aquiloni
Infestavano il mare; ond’ io lo scudo,
Che di forbito c concavo metallo
Fu già del grande Abanlc insegna c spoglia,
Con un tal molto in su le porle appesi:
A' Greci oincifori Enea io tolse.
Ed a le'l sacra, Apollo. Indi al mar giunti
Ne rimbarcammo: e remigando a gara
Fummo in un tempo dc’Feàci a vista,
E gli varcammo: poi rivolti a destra,
Costeggiammo l’Epiro, e di Caonia
Giungemmo al porto, edinBulrotoenlrammo,
Qui cosa udii elio meraviglia c gioia
Ali porse insieme; c fu, ch'GIcno, Aglio
Di Priamo re nostro, era a quel regno
Di Greche terre assunto, c che di Pirro
E del suo scettro c del suo letto crede,
Troiano sposo, a la Troiana Andromachc
S’cra congiunto. Arsi d'immenso amore
Di visitarlo, e di spiar da lui
Come ciò fosse; c de l'armata uscendo
Scesi nel Ilio, e me n'andai con pochi
A ritrovarlo. Era quel giorno a sorto
Andromache regina in su la riva
Del novo Simoenla a far solenne
Sepolcral sacriAcio; c come è rito
De la mia patria, avea fra due grand'aro
Di verdi cespi una gran tomba creila,
Monumento (li lagrime c di duolo;
Ove con trisli doni e con lugùbri
Voci del grand’ Eltór l'anima c'I nome
Chiamando, il Anto suo corpo onorava.
Poiché venir mi vide, c che di Troia
Avvisò Farmi, e me conobbe, un mostro
Veder le parve, c forsennata e stupida
Fcrmossi in prima; indi gelala c smorta
Disvenne c cadde; c dopo molto appena
Risensando, mirommi, c cosi disse:
Oh I sci tu vero, o pur mi sembri Enea ?
Sci corpo od ombra ? Se da'morli udito
È T mio richiamo, Eltór perchè te manda ?
Perch'ei tcco non viene ? E sci tu certo
Nunzio di lui ? Ciò detto, lagrimando,
Empia di strìda c di lamenti i campi.
Io di pietà a di duol confuso, Bppcna
In poche voci, c quelle anco interrotte.
Snodai la lingua. Io vivo, se pur vita
È menar giorni si gravosi a duri:
Ala cosi spiro ancora, o veramente
Son io quel che li sembro. 0 da qual grado
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DELL’ENEIDE
Morie Ncoptoleml regnorum recidila cessil
Pars llelcno, qui Cbaonios cognominc campos,
Cliaonianique omnem Troiano a Cliaonc disii,
l’ergamaque Iliacamquc iugis liane addidii arccm.
Sed libi qui cursum centi, quac fata dedere?
Aul quisnam ignarum noslris deui appulit oris?
Quid pucr Ascanius? superarne et tcseitur aura?
Qucni libi iam Troia —
Ecqua, (amen pucro, est amissae cura parenti»?
Ecquid in antiquam virlutem animos<|ue viri Ics
F.I pater Acneas et avunculus escila! llector?
Talia fondebai lacrimans, longosque ciebat
incassimi flclus; quum sese a moenibus beros
Priamides inultis llcicnos comitanlibus aiTert,
Agnoscilquc suo», laclusqiie ad limine ducil,
El mulluin lacrima» corba inter singula fundil.
Proredo, et parvam Troiani, simulalaque magni»
Prrgama, el arenlem Xanlld cognominc rivum
Agnosco, Scaeaequc ampleclor limina porlae.
Ncc non el Teucri socia sitimi urbe fruuutur;
Illos porlicibus rei accipicbal in ampiis.
Aulai in medio libabanl pocula Bacchi,
Imposilis auro dapibus, patcrasquc leocbaul.
Scaduta, e da quanto inclito marito
Andromache d'Ellorre a Pirro, a Pirro
Fosti congiunta ! Or qual altra più lieta
T'incontra, e più di le drgna fortuna ?
Abbassò *1 volto, c con sommessa voce
Cosi rispose: 0 fortunata lei
Sovr'ogni donna, die regina e vergine
Nc la sua patria a sacrifìcio offerta
Del nemico fu vittima e non preda,
1V6 del suo vincilor serva, nè donna.
10 dopo Troia incensa, c dopo tanti
E tanti arati mari, a servir uata.
Ite la stirpe d’Achille il giogo e 'I fasto,
ET superbo suo tiglio a soffrir ebbi.
Questi poi con Ermi'one congiunto,
E lei, che de la razza era di Leda
E del sangue di Sparta, a me preposta.
Volle ch’EIcno ed io, servi ambidue,
N'accoppiassimo insieme. Oreste intanto,
Che tor l'amata sua donna si vide.
Da l'amore infiammato e da le faci
De le furie materne, anzi a gli altari
Dei padre Achille, insidiosamente
Tolse la vita a lui. Per la sua morte
Fu *1 suo regno diviso, e questa parte
De la Caonia ad Eleno ricadde.
Che dal nome di Caonc Troiano
Cosi i’ha della, come disse ancora
Ilio da l'Ilio nostro questa rùcca
Clic qui su vedi; e Simoenla c Pergamo
Queste picciole mura e questo rivo.
Ha te quai venti, o qual nostra ventura
Ila qui condotto, fuor d'ogni pensiero
Di noi certo, c tuo forse ? Ascanio nostro
Vive ? cresce ? che fa, come ha sentito
La morte di Criiusa ? E qual presagio
Ne dò, ch'Enea suo padre, Eltòr suo aio
Si rinnovino in lui ? Colali Andromache
Spargca pianti e parole, ed ecco intanto
11 Teucro eroe che, de la terra uscendo,
Con molti intorno a rincontrar ne venne.
Tosto che ne adocchiò, meravigliando
Ne conobbe, n'accolse, e lietamente
Seco n'addusse, de' comuni affanni
Molto con me, mentre andavòmo, anch'egli
Ilagionando e piangendo. Entrammo al Gnc
Ne la piccola Troia, e con diletto
Un arido ruscello, un cerchio angusto
Sentii con finti e rinnovali nomi
Chiamar Pergamo e Xante; c, de la Scea
Porta, entrando, abbracciai l’amata soglia.
Cosi fecero i miei, meco godendo
L’amica terra, come propria e vera
Fosse lor patria. Il re le sale e i portici
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LIBRO S BWWTTO
39
'tv,
Iamqne dies, allcrque dies professi!; el auree
Vela vocant, tumidoque inflalur carbasus auslro :
Ilis vatem aggredior dictis, ac (alia quaeso :
Troiugcua, inlcrpres ditóni, qui numina Pboebi,
Qui Iripodas, Clarii laurus, qui sidera senlis,
El volncrum linguas, el praepctis omina pernice,
Fare agc ( namque omnem corsimi mihi prospera diti!
Rclligio, el cuncli suascrunt numine diti
Italiani pelere, et terras tentare repostas ;
Sola novum dicluque nefas Ilarpyia Celacno
Prndigium canil, el Irisles denunliat iras,
Obsccnamquc faraoni) quae prima pericula rito ?
Quidve sequens lanlos possim superare labores ?
Die Helenus, caesis primum de more iuvencis,
Esordi pacem ditùm, villasque resolvit
Sacrati capilis, meque ad tua limino, Phoebe,
Ipso numi multo suspeusum numine ducil ;
Alque liacc deinde canil divino cs ore sacerdos :
Naie dea ( nam te maioribus ire per allum
Auspiciis manifesta fides ; sic fata deùm rei
Sorlitur, rolvilque vices ; is vcrlilur ordo)
Panca libi c mullis, quo lutior bospita luslres
Aequora, el Ausonio possis considero porlu,
Expediam dictis ; prohibcnl nani celerà Parcac
Scirc Ilclenum farique velai Salurnia (uno.
Principio Italiani, quam tu iam rerc propiuquam,
Vicinosque, ignare, paras invaderò porlus,
Longa procul longis via dividii invia terris.
Ante el Trinacria lenlandus remus in unda,
El salis Ausonii lustrandum navibus aequor,
Inferniquc lacus, Aeaeaeque insula Circac,
Quam luta possis urbcm coniponerc terra.
Signa libi dicano ; lu condita mente tcnelo,
Quum libi solticito secreti ad fluminis uudam
Litorels ingens inventa sub ilicibus sus,
Triginla capitimi Ictus eniia, iaccblt,
Alba, solo recubans, albi circuni ubera nati,
Is Incus urbis crii, requies ca certa laborum.
Noe tu mensarum morsus liorresce fuluros ;
Futa tiara invcnienl, aderilque vocatus Apollo,
llas aulem terras llalique liane liloris oram,
Prolima quae nostri perfundilur acipioris acslu,
EITuge ; cura la malis liabilanlur wocnia Giaiis.
Di mense empiendo, fe'lor cibi c vini
Da'rcgi servì realmente esporre
Con vaselli d'argento e coppe d'oro.
Passato il primo giorno e l'altro appresso,
Soflìdr prosperi i venti; ond'io commiato
A l' indovino re chiedendo, seco
Hi ristrinsi e gli dissi: Inclito sire,
Cui non son degli dei le menti occulte,
Clic Febo spiri e 'I tripode c gli allori
Del suo tempio dispensi, e de le stelle
E desolanti ogni secreto intendi,
Danne certo (li priego) indirio e lume
De le nostre venture. Il nostro corso,
Com'ogni augurio accenna, ed ogni nume
Ne persuade, è per Italia; e lieto
E fortunato ancor ne si promette
Infino a qui. Sola Cclcno Arpia
Novi e tristi infortunii, e fame ed ira
De gli dei ne minaccia, lo da te chieggo
Avvederne c ricordi, onde sia saggio
A lai perigli, e forte a tanti afTaurii.
Qui pria solennemente Eleno, uccisi
I dovuti giovenchi, in atto umile
Impetrò da gli dei favore e pace;
Poscia, raccolto in sè, le bende sciolse
Del sacro capo; e me, cosi com'era
A tanto odldo attonito c sospeso,
Per man prendendo la febèa spelonca
H'addussc avanti, e con divina voce
Intonando proruppe:
0 de la dea
Pregiato figlio (quando a gran fortuna
E chiaro in prima che 'I tuo corso ì volto;
Tal è del ciel, dc'Fali e di colui
Che gli regge, il voler, l’ordine e T molo),
Io di molte e gran cose che antiveggo
Del tuo peregrìnaggio, acciò più franco
Navighi i nostri mari, e T porlo Ausonio,
Quando che sia, securamcnlc attinga.
Poche ne ti dirò; chi a le le Parche
Yiclan che piu ne sappi; cd a me Giuno,
Ch'io più le ne riveli. Ili prima il porto,
E l'Italia che cerchi, e si vicina
Ti sembra, è da tal via, da tanti intrichi
Scevra da te, ch'ami che tu v'aggiunga,
Ti parrà malagevole c lontana
Più che non credi, e li fla d'uopo avanti
Stancar più volte i remiganti e i remi,
E ’l mar de la Sicilia c il mar Tirreno,
E i laghi inferni c l'isola di Circe
Cercar li converrà, pria che vi fondi
Securo seggio, lo di ciò chiari segni
Barelli, e tu ne fa' nota e conserva.
Quando più stanco e travaglialo a riva
Sarai d'un duine, u 'sotto un'clcc accolla
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DELL’E.NEIDE
Ilio et Narycii posucrunl mocnia Locri,
El Sallcnlinos obsedil milite campos
Lyclius Idomeneus; liic illa ducis Mclibori
Parva Pbiloclclae subniva Pelelia muro.
Quin, ubi Iransmissac slclcrint trans acquerà classcs,
El, positis aris, iam vota in liloro solvcs,
Purpureo velare comas adoperili* amictu,
Ncqui intcr sanctos ignes in honore dcorum
Hostilis Facies occurral, et omino turbe).
Ilunc socii morem sacrorum, burle ipse tendo;
llac casti maneant in relligione nepoles.
Ast, ubi digrcssum Siculac te admoveril orae
Ventus, et angusti rarcsccnl claustra Pelori,
Laeva libi Icllus, et longo laeva pclautur
Acquora 'circuito; delirimi Fugo litus et undas.
Haec loca, vi quondam el vasta convulsa ruina,
(Tantum aeri longinqua vaici mutare vclustas)
Dissiluissc Ferunt, quum prolinus ulraquc Icllus
Lna Forte; venil medio vi pontus, et undis
Hespcrium Siculo lalus abscidit, arvaque et urbes
Litore diductas angusto interluii aestu.
Delirino Scylla latus, lacvum implarata Charybdis
Obsidct, alque imo baratimi ter gurgitc vastos
Sorbcl in abruplum (luctus, rursusque sub auras
Erigi! allemos, et solerà serberai unda.
At Scyllam rnccis cohibct spelonca latebris,
Ora csserlanlem, et naves in saia trabcnlcm.
Prima bominis Facies, et pulchro pectore virgo
Pube Icnus; postrema immani corporc pislrii,
Delphinum caudas utero eommissa luporum.
Praestal Trinacrii metas lustrare Pachynl
Ccssantcm, longos et circumflcctcrc cursus,
Quam semel ioFormcm vasto vidissc sub antro
Scyllam, et cacrulcis canibus rcsonantia sava.
Praelcrea, si qua est Uelcno prudentia, vati
Si qua lides, animimi si vcris implel Apollo,
Enum illiid libi, nate dea, pracquc omnibus unum
Procdicam, et rcpctcns ilcrumquc itcrumque monebo:
limoni, magnac primum prece numcn adora:
Iunoni cane vola llbcns, doiriinamquc potcntcm
Supplicibus supera donis. Sic denique victor.
Trinacria flucs Italos mittcre rcliela.
line ubi dclalus Cumacam accesscris urbcm,
Divinosquc laeus et Averna sonanlia silvia,
Insanam vatem adspicies, quae rupe sub ima
Fata eanil, Foliisquc notas et nom ila mandai.
Quaccumquc in Foliis descripsit carmina virgo,
Digerii in numcrum, atque antro scclusa rclinquil.
Illa manent immuta locis, ncque ab ordine ccdunL
Vcrum eadem, verso tenuis quetn cardine ventus
Imputi!, ellcncras turbavi! ianua Frondes,
IVunquam deinde cavo velitanlia prendere saio,
Noe revocare silus, aut iungere carmina curai.
Inconsulti abcunl, sedemque oderc Sibyllae.
Die libi nc i;ua mora Fuctinl dispcndia tanti,
Sari candida troia, ed ari trenta
Candidi Agli a le sue poppe intorno,
Allor di’: Onesto è il segno c ’I tempo c 'I loco
Di Fermar la mia sede, c questo 6 T Ano
De’mici travagli. Or ebe l’ingorda Fame
Addur li deggia a trangugiar le mense,
Comunque avvenga, i Lati a ciò daranno
Opportuno compenso; c questo Apollo
Invocalo da voi presto saravvi.
Queste terre d’Italia e questa riva
Vèr noi volta c vicina a i liti nostri,
E tutta da’ nemici e da’ malvagi
Greci abitata e cólta; d però lungo
Fuggi da loro. I Locri di Narizia
Qui si posaro; c qui ue’Salenlini
I suoi Cretesi Iilomenco condusse.
Qui Filollclc il llelibéo campione
La picciolctla sua Pelilia eresse.
Fuggiti, dico; » quando anco varcalo
Sarai di lì ne l’altro Ilio, intento
A sciorrc i voli, di purpureo ammanto
Ti vela il capo, acciò tra i santi Fochi,
Mentre i tuoi numi adori, ostile aspetto
Te co’tuoi sacrifico non conlurbi:
E questo rito poi sia castamente
Da le servato e da’nepoti tuoi.
Quindi partilo, allor clic da vicino
Scorgerai la Sicilia, c di Peloro
Ti si discovrirà l'angusta luce,
Ticnli a sinistra; cdcl sinistro mare
Solca pur via quanto a dilungo intorno
Gira l'isola lulla, c da la destra
Fuggi la terra c Tonde. È Fama antica
Cile questi or due tra lor disgiunti lochi
Erano in prima un solo, clic per Forza
Di tempo, di tempeste c di rùine
(Tanto a cangiar queste terrene cose
Può dc’sccoli il corso) un dismembralo
Fu poi da l'altro. Il mar Fra mezzo entrando
Tanto urlò, tanto ròse, che l'Esperio
Dal Siculo terreno ai An divise:
E i campi c le città, che. in su le rive
Resterò, angusto Frelo or bagna c sparlc.
Nel destro lato è Scilla; nel sinistro
É l'ingorda Cariddi. Eoa vorago
D'un gran baratro è questa, clic tre volle
1 vasti fluiti rigirando assorbe,
E tre volle a vicenda li ributta
Con immenso bollor Ano alle stelle.
Scilla dentro a le sue buie caterno
Stassene insidiando; o con le bocche
Dc’suoi mostri voraci, clic distese
Tien mai sempre ed aperte, i naviganti
Entro al suo speco a sò traggo c trangugia.
Dal mezzo in su la Faccia, il collo e’I petto
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LIBRO TERZO
M
Quamvls iucrepllent sodi, et ri cursus in a'iuni
Vela vocel, poaslsque sinus implcre secundos.
Quia adeas, v stero, precibusque oracula poscas.
Ipsa canal, vocemquc tolcns alque ora resolval.
Illa libi llaliae populos, renluraque bella,
El, quo quemque modo Rrgiasque ferasque laborcni,
Expedici, cursusque dabil venerala secundos.
Ilaec sunl, quae nostra liceal lo voce moneri.
Vado age, el ingentem faclis fer ad aelhera Troiani.
Quae postquam vales sic ore efTalus amico esl,
Dona dehinc auro gratia secloque elephanlo
Imperai ad naves ferri, slipalque carinis
Ingens argcnlum, Dodonaeosque Icbelas,
Loricam consertam hamis auroque Irilicem,
El conum insignis galeac crislasque comanles,
Arma Cieoplolemi. Sunl el sua dona parenti.
Addii equos, addilque duces ;
Remigium supplet, socios simul inslruil arniis.
Vnoiuo vol. carco.
Ha di donna e di vergine; il restante,
D'una pislrice immane, che simile
A'dellini ha le code, a i lupi il ventre.
Meglio i con lungo indugio e lunga volta
Girar Pachino e la Trinacria tutta,
Che, non ch’altro, veder quell'antro orrendo,
Sentir quegli urli spaventosi e Aeri
Di quei cerulei suoi rabbiosi cani.
Oltre a ciò, se prudenti, se fedeli
Sembrar ti può che sian d'Eleno i detti,
E se scarso non m’è del vero Apollo;
Sovr’a tutto io t’accenno, ti predico,
Ti ripeto più volle e ti rammento,
La gran Giunone invoca: a Giunon voti
E preghi c doni e sacrifico offrisci
Devotamente; chè, lei vinta, al fine
Terrai d'Italia il desiato lito.
Giunto in Italia, allor che ne la spiaggia
Sarai di Cucca, il sacro Averno lago
Visita, e quelle selve e quella rupe,
Ove la vecchia vergine Sibilla
Profetine il futuro, e'n su le foglie
Ripone i Fati: in su le foglie, dico,
Scrive ciò che prevede, e ne la grotta
Distese ed ordinate, ove sian lette,
In disparte le lascia. Elle serbando
L'ordine e i versi, ad uopo de’mortali
Parlan de l’avvenire; e quando, aprendo
Talor la porta, il vento le disturba,
E van per l’antro a volo, ella non prende
Più di ricorle e d'accoziarlc affanno;
Onde molti delusi e sconsigliati
Tornan sovente, c mal di lei s'appagano.
Tu per soverchio che li sembri indugio,
Per richiamo de’venli e de’compagni,
Non lasciar di vederla, e d’impetrarne
Grazia, ebe di sua bocca ti risponda,
E non con frondi. Ella damili avviso
D'Italia, de le guerre e delle genti
Che ti fian contro; e mostreratli il modo
Di fuggir, di soffrir, d’espugnar tutte
Le tua fortune, e di condurti in porto.
Questo è quel che mi occorre, o che mi lice
Ch’io ti ricordi. Or vanne, e co'tuoi gesti
Te porta e i tuoi con la gran Troia al cielo.
Poscia che ciò come profeta disse,
Comandò come amico che a le navi
Gli portassero i doni, opre e lavori
Che avea d’oro e d’ avorio apparecchiati,
E gran masse d’argento e gran vaselli
Di Dodonèo metallo: una lorica
Di forbite animine, e rintronale
Maglie, dentro d’acciaro, e'ntorno d’oro.
Etra larga, un cimiero, una celala,
y
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il DELL' ENEIDE
Intensa claasem ralla apiare iubebat
Aucblses, Aerei renio mora ne qoa fercoli.
Quetn Phoebi inlerprca multo compellat honore :
Coniugio, Anchina, Veneris dignale superbo,
Cura deflm, bis Pergameis erepte ruinis,
Ecce libi Ausoniae lellus; hanc arripe relia.
Et tamen hanc pelago praeterlabare necesse esl.
Ausoniae pars illa procul, quam pandi! Apollo.
Vade, ail, o felii nati pielate. Quid ultra
Prorehor, et fando surgenlea demoror auslroa !
Nec minus Andromache, digressu mocsla supremo,
Feri picturatas auri subtemine resles
Et Phrygiam Ascanio chlimjdcm; nec cedit honore;
Tettilibusque onerai donis, ac (alia falur:
Accipe et haec, roanunm libi quae monumenta mearum
Sint, puer, et longum Andromaetiae lestentur amorem,
Coningis Hectorcae. Cape dona estrema tuorum,
0 mihi sola mei super Asljanacliv imago.
Sic oculos, sic ille manus, sic ora ferebat ;
Et nunc aequali tecum pubesceret aero,
lios ego digrediens lacriinis adattar oborlis :
Virile felices, quibus est fortuna peracta
lam sua ; nos alia ei alii» in fata roeamur.
Vobis parla quies; nullum meri» acquor arandum,
Arra ncque Ausoniae, semper cedentia retro,
Quacrenda. EiBgicm Xanlbi Troiamque ridelia,
Quam restrae fecere manus, melioribus, opto,
Auspiciis, et quae fuerH minus obvia Graiis.
Si quando Thybrim vicinaque Thybrìdit arra
Inlraro, gcntique mese data monna cernam,
Cognalas urbes olim populosque propinquo»
Epiro, liesperia, quibus idem Dardanus auctor,
Alque Idem casus, unam facieiaus utramquo
Troiani auimis. Mancai nostre» ea cura nepoles.
Ond'era a pompa ed a difesa armato
Ncoltolemo altero. Il vecchio Anchise
Ebbe anch’egli i suoi doni: ebber poi tulli
Cavalli e guide; e fu di remi e d’armi
Ciascun legno provvisto.
E perchè T renio
Che secondo feria, noo punto indarno
Spirasse, ordine uvea di seior le vele
Già dato Anchise, a cui con molto onore
Si fece Eleno aranti, e cosi disse:
0 ben degno, a chi fosse amica e sposa
La gran madre d’ Amore; o de’Gelesti
Sovrana cura, che a l'eccidio avanti
Già duo volte di Troia, eccoli a vista
Giunto d'Italia. A questa il corso ìndrizia;
Ma fa mestier di volteggiarla ancora
Con lungo giro, perchè lunge assai
È la parie di lei die Apollo accenna.
Or lieto te ne va’, padre felice
Di si pietoso Aglio. Io, già clic l'aura
SI vi spira propizia, indarno a bada
Più noo terroni. Indi la mesta Andromache
Eo e con tulli, e con Ascanio al Anc
La suprema partenza. Arnesi d'oro
Guarniti e ricamati, e drappi e giubbe
Dì moresco lavoro, ed altri degni
Di lui vestili e fregi, e ricca e larga
Copia di biancherie dettàgli, e disse:
Prendi, Aglio, da me quesl'opre uscite
Da le mie mani, c per memoria lienle
Del grande e luogo amor che sempre arreni
Andromache d'Etlorrc; ubimi doni
Che ricevi da'tuui. Tu mi sci, figlio,
Quell'unico sembiante die mi resta
D’Aslianailc mio. Cosi la bocca,
Cosi le man, cosi gli occhi movea
Quel mio Aglio infelcc; e d'anni eguale
A le, del pari or saria leco in fiore.
Ed io da loro, anzi da me partendo,
Con le lagrime a gli occhi al fiu soggiunsi:
Vivete lieti voi, chè già la sorte
Vostra è compita: noi di fato in falò.
Di mare in mar tapini andrem cercando
Quel che voi possedete. A noi l'Italia
Tanto a noi se ne va più lunge, quanto
Più la seguiamo: e voi già la sembianza
D'Ilio e di Troia in pace vi godete,
Regno e fattura vostra: Ah ! che de l'altra
Sia sempre e più relice e meno esposta
A le forze de'Greci. lo s'unqua il Tebro
Vedrà, se Ila giammai che nc'suoi campi
Sorgali le mura destinale a noi;
Come la nostra Esperia e’I vostro Epiro
SI son vicini, c come ambe le terre
Fieli vicine e cognate, ed ambe avranno
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LIBRO TERZO
<3
Proieliimur pelago vicina Ccraonia iuila.
Lodo iter Ilaliam ctirsusque brcvissimus undis.
Sol ruit interra, el monte* umbranlitr opaci ;
Slernimur optatae gremio telluri* ad undam.
Sortili remos, passimque in litore sicco
Corpora curamus ; fesso* sopor irrigai arlus.
Necdum orbem medium Noi borii acla subibal
Ilaud segni* strato surgii Palinurus, et omnes
Eiploral lenlos, alqne auribua aera captai;
Sidcra runcta notai tacito labentin coelo,
Arcturum, pluviasquc lljadas, geminnsque Trioncs,
Armalumque auro circumspicil Oriona.
Poslquam cuocio videi coelo constare sereno,
l)at clarum e puppi signum; nos castra movemus,
Tcnlamusque viatn, el velorum pandimus alas.
lamquc rubeseebat slcllis Aurora fugalis;
Quum procul obseuros colles humilcmque videmus
Italiani. Ilaliam prìmus conclamai Achalea ;
Italiani laeto socii clamore salulant.
Tum pater Anctiises magnimi cratere corona
Induit, implevitque mero, divosque vocavit
Stans celsa in puppi :
Di maria et terrae lempcstatumque potcntes.
Ferie viam vento facilcm, et spirale secundi.
Crebrescunt optatae aurae, porlusque paiescit
Iam propior, templumque apparet in arce Minervoc.
Vela legunt socii, et proras ad lilora torquent.
Porlus ab Euroo floctu curvalus in arcum ;
Obieclae salsa spumanl adspergine caules :
Ipsc latei ; gemino demittunl brucino muro
Turriti scopuli, refugiique ab lilore lemplum.
Qualuor hic, primum omcn, equos in gramine vidi
Tondenles campum late, candore nivali.
Et pater Anchises : Bellum, o terra bospita, porlas ;
Bello armanlur equi ; bellum haec armenta minanlur.
Sed (amen idem olim curru succedere sueli
Quadnipedcs, et frena iugo concordia fcrre.
Spes el pacis, ait. Tum numina sancta prccamur
l'alladis armisonae, quae prima accepit ovanles ;
El capita ante aras Phrygio veiamur amictu ;
Pracceptisque Hclcni, (lederai quae maiima, rilc
lunoni Argivae iussos adolemus honures.
Ilaud mora : continuo pcrfcclis ordine volis,
Cornua vclalarum obrcrlimus anlennarum,
Graiugenùmque domos suspectaque linquimus aria.
Ilinc sinus ilerculei, si iera est fama, Tarenli
Cernilur. Alleili! se dira Lacinia conira,
Cauionisquc arces, et navifragum Sculaccimi.
Tum prucul c (luclu Trinacria cernilur Aetna;
El gemitum ingenlem Pelagi puisataque saia
Dardano per autore, e per fortuna
Un caso stesso; cosi d'ambedue
Mi proporrò che d'animi e d'amore
Siamo una Troia; e ciò perpetua cura
Sia de'nostri nipoti.
Entrati in mare
Ne spingemmo oltre a gli Cerauni monti
A Bulroto vicini, onde a le spiagge
Si fa d'Italia il più breve tragitto.
Gii declinava il sole, c erescean l'ombra
De'monti opachi, quando a terra vólti
Col desire, e co'remi in so la riva
Pur n'adducemmo, e procurammo a corpi
Cibo, riposo e sonno. Ancnr la notte
Non era a metto, die del suo slramatto,
Surse il buon Palinuro; e poscia ch'ebbe
Con gli orecchi spiato il vento e 'I mare,
Mirò le stelle, contemplò l'Arturo,
L indi piovose, i gemini Trioni,
Ed Orione armato: e, visto il cielo
Sereno e T mar sicuro, in su la poppa
Recosai, e 'I segno dienne. Immantinente
Movemmo il campo, e quasi in un baleno
Giunti e posti nel mar, vela facemmo.
Avea l'Aurora già vermiglia e rancia
Scolorile le stelle, attor che lunge
Scoprimmo, e non ben chiari, i monti io prima,
Poscia i liti d'Italia. Italia, Acate
Gridò primieramente: Italia, Italia
Da ciascon legno ritornando, allegri
Tutti la salutammo. Allora Anchlse
Con una inghirlandala e piena latta
In su la poppa alteramente assiso:
0 del pelago, disse, e de la terra,
E de le tcmpeslà numi possenti,
Spirate aure seconde, e vèr l’Ausonia
De'nostri legni agevolate il corso.
Rinfortaronsi i venti; apparve il porlo
Più da vicino; apparve al monte in cima
Di Paliade il delubro. Attor le vele
Calammo, e con le prore a terra demmo.
È di vir l'Oriente un curvo seno
In guisa d'arco, a cui di corda in vece
Sta d'un lungo macigno un dorso avanti,
Ove spumoso il mar percuote e frange.
Nc'suoi corni ha due scogli, ami due torri,
Che con due braccia il mar dentro accogliendo
Lo fa porlo e l'asconde; e sovra al porto
Lungo dal lito ì ’t tempio. Ivi smontali
Quattro destrier vie più che ncte bianchi,
Clic pascevano il campo, ai primo incontro
Per nostro augurio avcmmo.Óh! disse Anch'so,
Guerra ne si minaccia; a guerra addilli
Sono i cavalli; o pur sono anco al carro
Talvolta aggiunti, e van del pari al giogo:
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DELL’ ENEIDE
Audimus looge, fraclosquc ad litora voccs;
Exsullantque vada, atque aeslu miscentur arenae.
Et pater Anchises : Nimirum haec illa Charybdis ;
Hos Helenus scopulos, haec saia horrcnda canebat.
Eripite, o sodi, pariterque insurgile rcmis.
Ilaud minus ac iussi faciunt ; primusque rudentcm
Contorsi! laevas prnram Palinurus ad undas ;
Lacvam cuncla cohors remis venlisque petivit.
Tollimur in coelum curvalo gurgite, et idem
Subducia ad Manes imos desidimus unda.
Ter scopuli ciamorem inter cava saia dederc ;
Ter spumoni elisam et rorantia vidimus astra.
Intcrea fessos venlus cum soie reliquil,
Ignarique viae Cyclopum allabimur oris.
Porlus ab accessit ventorum immotus, et ingens
Ipse ; sed horrificis iuxta tonat Aetna ruinis,
Interdumquc alram prorumpit ad aethera nubem,
Turbine fumanlem piceo et candenle favilla ;
Atlollilque globos flammorum, et sidera lambii :
Interdum scopulos avulsaque viscere monlis
Erigil eructans, liquefactaque saxa sub auras
Cum gemilu glomerat, fundoque cxaestual imo.
Fama est, Enceladi semiustum fulmine corpus
Urgeri mole bac, ingentemque insuper Aelnam
Imposilam ruplis flammom e xspira re caminis ;
Et fessum quoties mulet lalus, intremere omnem
Murmurc Trinacriam, et coelum sublexere fumo.
Noctem illom tedi silvis immania monstre
Perferimus, nec, quae sonitum del caussa, videmus.
Nam ncque crani astrorum ignea, nec lucidus aelhra
Sidera polus, obscuro sed nubila coelo,
El Lunam in nimbo noi inlempesta tenebal.
Guerra fla dunque in prima, c pace dopo.
Quinci devoti venerammo il nume
De l’armigera Palla a cui gioiosi
Prima il corso imi rizzammo. In su la riva
Altari ergemmo; e noi d’intorno, come
Eleno ci ammoni, le teste avvolte
Di Frigio ammanto, a la gran Giuno Argiva
Preghiere e doni c sacriflzii offrimmo.
Poiché solennemente i prieghi e i voti
Furon compili, al mar ne radduccmmo
Immantinente; e rivolgendo i corni
De le velale antenne, il Greco ospixio
E'I sospetto paese abbandonammo.
E prima il Tarantino erculeo seno
(Se la sua fama è vera) a vista avemmo:
Poscia a rincontro di Lacinia il tempio,
La rocca di Caulone e ’l Scilacéo,
Onde i navigli a si gran rischio vanno.
Indi ne la Trinacria al mar discosto
D’Eina il monte vedemmo, e lungc udimmo
Il fremilo, il muggito, i tuoni orrendi
Che fncean ne’suoi liti c’ntorno a'sassi
E dentro a le caverne i Audi c i fuochi,
Al cicl rullando insieme il mare e'I monte
Fiamme, fumo, faville, arene e schiuma.
Qui disse il vecchio Anchise: È forse questa
Quella Carici Ji ? Questi scogli certo,
E questi sassi orrendi Eleno dianzi
Nc profetava. Via, compagni, a* remi
Tutti in un tempo, e vincitori usciamo
D’un tal periglio. Palinuro il primo
Rivolse la sua vela c la sua proda
Al manco lato; e ciò gli altri seguendo,
Con le sarte e co’rcmi in un momento
Ne gittammo a sinistra; e il mar sorgendo
Prima al ciel ne sospinse; indi calando,
Ne l’abisso ne trasse. In ciò tre volle
Mugghiar sentimmo ì cavernosi scogli,
K tre volte rivolli in vèr le stelle
D'umidi spruzzi c di salata schiuma
Il cicl vedemmo rugiadoso e molle.
Erevan) lassi; e’I venio e’I,’ sole insieme
Nc mancAr si, che del viaggio incerti
Disavvedutamente a le contrade
Dc’Ciclopi approdammo. E per sé stesso
A’venii inaccessibile c capace
Di molli legni il porlo, ove giugnemmo;
Ma sì d'Etna vicino, clic i suoi tuoni
E le sue spavenlevoli ruine
Lo tempestano ognora. Esce talvolta
Da questo monte a l’aura un'atra nube
Mista di nero fumo c di roventi
Faville, che di cenere c di pece
Fan lurbi c groppi, ed ondeggiando a scosse
Vibrano ad ora ad or luride fiamme
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LIBRO TERZO
65
Posterà iamque dies primo surgebat Eoo,
Humenlemque Aurora polo dimorerai timbrarli ;
Quam subito e silvia, macie confecla suprema,
Ignoti nova forma viri miserandaquc cultu
Procedi!, supplezquc manus ad litora tendit.
Respicimus. Dira iliuvies, immissaque barba,
Conscrlum tegumen spinis : at caetera Graius,
Et quondam patriis ad Troiam missus in armis.
Isque ubi Dardanios habitus et Troia vidit
Arma procul, paullum adspectu conterrilus hacsit,
Continuitquc gradum ; mot scse ad litora pracceps
Cum fletu precibusque lulit : Per sidera testor,
Per superos, atque hoc coeli spirabile lumen :
Toltile me, Teucri; quascunquc abducitc terras;
Hoc sai erit. Scio me Danais e classibus unum,
Et bello lliacos fateor petiisse Penatcs.
Pro quo, si sceleris tanta est iniurta nostri.
Spargile me in fluclus, vasloque immergile ponto.
Si perco, bominum manibus periisse iuvabit.
Ditterai ; et gcnua amplexus, genibusque volulans
Haerebat. Qui sii, fari, quo sanguine cretus,
Hortamur ; quae deinde agilet Fortuna, faleri.
Ipse pater dextram Anchises, haud multa moratus,
Dat itiveni, atque animum pracsenli pignoro firmai.
Ille haec, deposita tandem fbrmidmc, falur :
Sum patria ex Ithaca, comes infelici» Ulixi,
Nomen Acbemenidcs, Troiam genitore Adamasto
Pauperc ( mansissetque ulinam fortuna ! ) profectus.
Hic me, dum trepidi crudelia limina linquunt,
Immcmores socii vasto Cyclopis in antro
Dcscrucre. Domus sanie dapibusque cruentis,
Intus opaca, ingcns. Ipse arduus, allaque pulsai
Sidera, ( di, talem lerris avertile pcstem ! )
Che van lambendo a scolorir le stelle,
E talvolta, le sue viscere stesse
Da sè divelto, immani sassi e scogli
Liquefatti e combusti al eie! vomendo
In fin dal fondo romoreggia c bolle.
È fama, che dal fulmine percosso
E non estinto, sotto a questa mole
Giace il corpo d’Encelado superbo;
E che quando per duolo e per lassezza
Ei si travolve, o sospirando anela,
Si scuote il monte c la Trinacria tutta;
E del ferito petto il foco uscendo
Per le caverne mormorando esala,
E tutto intorno le campagne e’I cielo
Di tuoni empie e di pomici c di fumo.
A questi mostri tutta notte esposti
Entro una selva stemmo, non sapendo
Le cagion d’essi, e di cercarle ogni uso
Ne si togliea, poiché ’l paese conto
Non c’era; nè stellato, nè sereno
Si vedea ’l ciel, ma fosco e nubiloso,
E tra le nubi era la luna ascosa.
Già del giorno seguente era il mattino,
E chiaro albore avea l'umido velo
Tolto dal mondo, quando ecco dal bosco
Ne si fa incontro un non mai visto altrove
Di strana e miserabile sembianza,
Scarno, smunto e distrutto, una figura
Più di mummia che d’uomo. Avea la barba
Lunga, le chiome incolte, indosso un manto
Ricucilo di spini: orrido tutto,
E squallido e difforme, con le mani
Verso il filo distese, a lento passo
Venia mercè chiedendo. Era costui,
Come prima ne parve c poscia udimmo,
Greco, e di quei che militare a Troia.
Onde noi per Troiani e i nostri arnesi
E le nostr’armi conoscendo, in prima
Attonito fermossi; e poscia quasi
Rincorato a noi venne; e con preghiere
E con pianto ne disse: 0 se le stelle,
Se gli dei, se quest'aura, onde spiriamo,
Generosi c magnanimi Troiani,
Scrbin la vita a voi, quinci mi tolga
La pietà vostra, c vosco m’adducete.
Ove che sia; chè mi fia questo assai;
Poich’io snn Greco, e di quei Greci ancora
Che venner (lo confesso) ai danni vostri.
Se T fallo è tale, c se ’l vostro odio è tanto
Ch’io ne deggia morir, morte mi date,
E (se così «'aggrada) a brano a brano
Mi tanfate, e ne fate esca a’ pesci;
Chè se per man d’umana gente io pero,
Perir mi giova. E. così detto, a’picdi
Ne si gitlò. Noi l’esortammo a dire
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DELL’ ENEIDE
Nec visu facili», nec diclu afiTsbilis ulti.
Visceribus miserorum et sanguino vescilur atro.
Vidi egomet, «Ino de numero quum corpora nostro
Prensa manu magna medio resupinus in antro
Frangerci od saxum, sanicque eir persa notarmi
Limina ; ridi, atro quum membra flucntia lobo
Manderei, et tepidi Iremerent sub denlibus arlus.
Ilaud impune qiiidem ; nec talia passus Ulizes,
Oblilusve sui est llhar.us discrimine tanto.
INam simili, cipletus dapibus viuoque sepullus,
Cerricem inOcxam posuit, iacuilque per antrnm
Immcnsus, saniem erurtons ac frusta cruento
Per somnum commista mero, nos, magna precati
Numtna, sortilique riees, una umliquc circum
Fundimur, et telo lumen terebramus acuto
Ingens, quod tona solimi sub fronte latebat,
Argolici clipei ani Phoebeae lampadis instar,
Et tandem laeli soeiorum ulciscimur umbras.
Sed fugile, o miseri, logitc, alque a litore funem
Rumpite.
Nam, qualis quanlnsque caro Polyplirmus in antro
Lanigeras Claudi! pecudes, alque ubera pressai,
Centum olii ctirra lutee liabitanl mi litora vulgo
Infondi Cyrlopes, et allis montibus crrant.
Tenia iam lunac se cornua lumine complenl,
Quum titani in siltis, inler deserla fcrarum
Lustra domosque trailo, taslosquc ab rupe Cyclopas
Prospicio, sonilumque pedum vocemque Ircmisco.
Viclum infelicem, baccas lapidnsaque corna,
Dant rami, et vulsis pascimi radicibus licrbac.
Omnia collustrans, bone primum ad litora ctasscm
Conspeii renientem. Iluic mo, quaccunque fuisset,
Addili ; satis est gcntrm efTugissc nefandam.
Vos animimi liane potius quocunque absumile loto.
Ctd fosse e di che patria e di che sangue
E qual era il suo casa. Il vecchio Ancliisa
La sua destra gli porse, e con tal pegno
L'alBdò di salute; ond’ei securo
Tosto soggiunse: Itaca è pairia mia:
Arhcmcnide il nome. Io fui compagno
De l’infelice Ulisse; e venni a Troia,
I a povertà del mio padre Adamasto
Fuggendo: (cosi povero mai sempre
Foss'io stalo con lui I ) Qui capitai
Con esso lilissc; e qui, mentr'ci fuggia
Con gli altri suoi questo crudele ospiiio,
Per tema abbandonommi e per obblio
he l’antro di i Ciclnpo. È questo un antro
Opaco, Immenso, clic macello è sempre
D'umana carne, onde ancor sempre intriso
£ di sanie e di sangue; cd è’I Ciclopo
Un mostro spaventoso, un che col capo
Tocca le stelle (o Dio, leva di terra
Una lai pcslc), cliè a mirarlo solo,
Solo a parlarne orror senio ed angoscia.
Pascasi de lo viscere e del sangue
De la misera genie; ed io l'ho visto
Con gli occhi miei nel suo speco rovescio
Stender le branche, e due presi de’nostri,
Rotargli a cerchio e sbattergli e sobillarne
Infra quei tufl le midolle c gli ossi.
Vistilo quando le membra de’meschinl
Tiepide, palpitanti e vive ancora
Di sanguinosa bava il mento asperso
Frangea co’denli a guisa di maciulla.
Ma noi soffri senta vendetta Ulisse:
Nè di se stesso in al morlsl periglio
Punto obbliossi; cbè non prima sleso
Lo vide ebro e satollo a rapo chino
Giacer ne l’anlro, e sonnacchioso c gonflo
Rullar peni di carne e sangue c vino.
Clic ne restrinse, ed Invocali in prima
I santi numi, divisò le veci
SI, che parie il tenemmo in terra saldo,
Parie ron un gran palo al foco agutio
Sopra gli fummo; e quel ch'unico avea
l)i targa e di febèa lampada in guisa
Sotto la lorva fronte occhio rinchiuso,
Gli Inveliamolo, vendicando al One
Col lor la luce a lui l'ombre de' nostri.
Ma voi che fate qui 7 chi non fuggite,
Miseri voi 7 Fuggite, e senza indugio
Tagliale il fune e v'allargale in mare:
Cbè cosi smisurati e cosi fieri,
Com'è costui clic Poliremo è dello.
Ne son via più di cento in questo lilo,
Tulli Ciclopi, e tulli Antropofàgi
Che vanno il di per questi monti errando.
Gii visto ho la cornuta e scema luna
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LIBRO TERZO
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Vii ca fatai crai ; sommo quum monte videmus
Ipsum inlcr pecudes «asta se mole moventem
Pastorcm Polyphemum, el litora nota petentem,
Monslrum liorremlum , informe, ingens, cui lumen
adorni um.
Tronca menu pinus regii et restigia firmai ;
Lanigerae comitanlur ores ; ea sola «oluptas,
Solamenque mali.
Poslquam altos teligli fluctas, el ad aequora veti i l ,
Luminis cflossi fluidum lavi! inde crnorem,
Dentibus mfrendens gemila ; graditurque. per aequor
lam medium, needum Ouctus talera ardua tinxiL
Noi procul inde fugam trepidi celerarc, receplo
Supplice, aie merito, tacitique incidere funem ;
Verrimus el proni certantibus aequora remis.
Sensil, et ad sonitum vocis vesligia torsit.
Verum ubi nulla datar delira affeclare potestà],
Ncc polis lonios fluclus acquare sequendo,
Clamorem immensum tallii, quo pontus el omnes
Intrcmuere undse, penitusque eiterrita tellus
Italiae, curvisque immugiil Aetna cavernis.
Al genus e silvis Cvclopum et montibus allis
Eicitum ruil ad porlus, et litora complent.
Cernimus adstanlea nequidquam lumine torvo
Actnaeos fralres, coelo capita alta ferentes,
Concilium horrendum : quales quum vertice cclso
Aèriae qucrcus, aul conifcrae cyparissi
Consliterunt, siivi alta Iovis, lucusse Dlanae.
Praecipites metus acer agii, quocunque rudenles
Escutere, el veulis intendere vela secundis.
[Contra iussa monenl Heleni, Scjllaoi alque Charjbdim
Inler, utraroque tiara leti discrimine parvo,
Ri teneant cursus ; certum est dare lintea retro.]
Ecce autem Boreas angusta ab sede Potori
Missus adest. Viro praetervehor ostia saio
Pantagiae, Hegarosque sinus, Thapsumquc iaeentem.
[Talia msnslrabal relegens errala retrorsum
Litora Achcmenidea, comes infelkis Olili.]
Tornar tre volte luminosa e tonda,
Da che son qui tra selve e tra burroui
Con le fere vivendo. Entro una rupe
È ’l mio ricetto; e quindi, benché lungc
Gli miri, ad or ad or d'atcrgrinlorno
Hi sembra, e’I suon n'abborro e'I calpestio
De la voce e de'piè. Pascolili d'erbe,
Di coccole e di more e di corgnali,
E di tali altri cibi acerbi c fieri:
Vita e vitto infelice. In questo tempo,
Quanto ho scoperto intorno, unqua non vidi
Ch'altro legno giammai qui capitasse,
Salvo che i vostri. A voi dunque del tutto
M'addico; e, che che sia. parrammi assai
Fuggir questa nefanda e dira gente.
Voi, pria che qui lasciarmi, ogni supplichi
Hi date ed ogni morte.
Appena il Greco
Avea ciò detto, ed ecco in su la vetta
Del monte avverso, Polifemo apparve,
Sembrato mi sarebbe un alto monte,
A cui la gregge sua pascessc intorno,
Se non che si movea con essa insieme,
E torreggiando inverso la marma
Per l'usato senlier se ne calava:
Mostro orrendo, difforme e smisurato.
Che avea come una grotta oscura in fronte
In vece d'occhio, e per bastone un pino.
Onde i passi fermava. Avea d'intorno
La greggia a'piedi, e la sampogna al collo:
Quella il suo amore, e questa il suo trastullo,
Ond'orbo alleggeriva il duolo in parte.
Giunto a la riva, entrò ne Tonde a guano;
E pria de l’occhio la sanguigna cispa
Lavossi, ad or ad or per ira i denti
Digrignando e fremendo; indi si stese
Per enlro'l mare, e nel più basso fondo
Fu pria co’piè, che non fur Tonde a Tanche.
Noi per paura (ricevuto in prima,
Come ben meritò, l'ospite Greco)
Di fuggir Raffrettammo; e chetamente
Sciolte le funi a remigar ne demmo
Più che di furia. Udì'! Cielopo il suono
E 'I trambusto de'remi; e vólti i passi
Vèr quella pane e T suo gran pino a cerco.
Poiché lungi scottane, e lungamente
Pensò seguirne per l'Ionio in vano,
Trasse un mugghio, che'l maro o i liti intorno
Ne tremar talli, ne senti spavento
Fino a l'Italia : ne tonaron quanti
La Sicania avea seni, Etna caverne.
L'udlr gli altri Ciclopi, c da le selve
E da’monti calando, in un momento
Corsero al porlo, e se D'eropiero I liti.
Gli vedevam da lunge in su l'arena,
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DELL' ENEIDE
OS
Sicanio practenta situi iaccl insula conira
Pleinyrium undosum ; nomcn diicre priores
Orlygiam. Alpheum fama est huc Elidis amoeni
Occullas rgisse vias subter mare, qui nunc
Ore, Arelhusa, tuo Siculis confundilur undis.
lussi numina magna loci veneramur ; et inde
Euupcro praepingue solum slagnanlis Udori.
Dine alias cautcs proiectaquc saia Pachyni
Itadimus ; et falis nunquam concessa moveri
Apparet Camarina procul, campique Geloi.
(Immanisque Gela fluvii cognomine dieta.)
Arduus inde Acragas ostentai maiima longe
Moenia, mognanimùm quondam generator equorum,
Teque datis linquo venlis, palmosa Selinus,
Et vada dura lego saiis Lilybeia caecis.
Dine Drepani me portus et illaciabilis ora
Accipit. Hic, pclagi tot tempeslalibus actus,
Heu, genilorem, omnis curae casusque levamen,
Amitto Ancbisen : hic me, pater oplime, fessum
Deseris, heu, lonlis nequidquatn erepte periclis I
Nec vales Helenus, quum multa horrenda tuonerei,
llos mihi praedixit luctus, non dira Cctaeno.
Hic labor ritremus, longarum haec meta viarum.
Dine ine digressum vestris deus appulit oris.
Quantunque Indarno, minacciosi e torri
Stender le braccia a noi, le teste al cielo,
Concilio orrendo; ebe ristretti insieme
Erano quai di querce annose a Giove,
Di cipressi coniferi a Diana
S'ergono i boschi alteramente a l’aura.
Fero timor n’assalse; e da l'un canto
Pensammo di lasciar che ’1 vento stesso
Ne portasse a seconda ovunque tosse,
Purché lunge da loro; ma da l'altro,
D'Eleno ce I vietava il dello espresso,
Che per meuo di Scilla c di Cariddi
Passar non si dovesse a si gran rischio,
E di $1 poco spazio c quinci e quindi
Scevri da morte. In questa, che gii fermi
Eracam di voltar le vele a dietro.
Ecco che da lo stretto di Peloro
Ne vien Borea a grand' uopo, onde repente
A la sassosa foce di Panlagia,
Al Mcgnrico seno, a i bassi liti
Ne trovammo di Tapso. In colai guba
Riferiva Achemenide, compagno
Che s' è detto d'Ulisse, esser nomati
Quei lociii, onde pria seco era passato.
Giace de la Sicania al golfo avanti
En’ isoletta che a Plemirio ondoso
È posta incontro, e dagli antichi è delta
Per nome Orligia. A quest' isola è fama,
Che per vie sotto il mare il Greco Alféo
Vien, da Doride intatto, infln d' Arcadia
Per bocca d’ Arelusa a mescolarsi
Con l' onde di Sicilia. E qui del loco
Venerammo i gran numi; indi varcammo
Del paludoso Eloro i campi opimi.
Rademmo di Pachino i sassi alpestri,
Scoprimmo Camerino, e 'I fato udimmo
Che mal per lei fòra il suo stagno asciutto.
La pianura passammo de' Geloi,
Di cui Gela è la terra, e Gela il fiume.
Mollo da lunge il gran monte Agraganle
Vedemmo, e le sue torri e le sue spiagge
Che di rute fur già madri famose.
Col vento stesso in dietro ne lasciammo
La palmosa Sellne; e ’n su la punta
Giunti di Liiibéo, tosto girammo
Le sue cieche seccagne, e '1 porto al (Ine
Del mal veduto Drepano afferrammo.
Qui, lasso me I da tanti affanni oppresso,
A tanti esposto, Il mìo diletto padre,
Il mio padre perdei. Qui stanco c mesto,
Padre, m' abbandonasti: e pur tu solo
M' eri in tante gravose mie fortune
Quanto arca di conforto e di sostegno.
Oimè 1 che indarno da si gran perigli
Salvo ne ti rendesti. Ab, che fra tanti
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libro terzo
Sic pater Acneas, intentis omnibus, unus
Fata rcnarrabai divftm, cursusque docebal.
Conlicuil tandem, factoque tiic line quicrit.
Orrendi c miserabili infornimi,
di’ Elmo ci predisse c l’ empia Arpia,
Questo non era gii, eh* era il maggiore 1
Oli fosse questo ancor P ultimo affanno
Com - è I* ultimo corso ! Chi partendo
l>a Drepano, se ben fera tempesta
Qui m’ ha gitlato, certo amico nume
M' ha, benigna regina, a voi condotto.
Così da tutti con silenzio udito,
PoicIP ebbe Enea distesamente esposto
La rùina di Troia c i rischi c i fati
Egli error suoi, fece qui line c tacque.
Virgilio tol. OTTICO.
IO
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LIBRO QUARTO
Al regina grati ioni dudum saucia cura
Vulnus alil venia, el carco carpitur igni.
Molla riri virlus animo. inuUinquc recursal
Ucnlis lionos ; liacrenl inllxi peclorc vullus
Verbaquc ; noe placidam membris dal cura quielem.
Posterà Pliocbca luslrabal lampade lerras
llumeiilcniquc Aurora polo dimoierai umbrani ;
Qilum sic iinanimam nlloquilur male sana sororem :
Anna soror, (pine me snspensam insomnia lerrent I
Quis novns hic noslris succcssit sedilius liospcs !
Qucm scse ore fercns ! qnam foni peclorc el armis I
Credo equidem, ner. vana fldes, gcnus esse deorum ;
Uegcncrcs anirnos timor arguii. Ilru, quibus ilio
laclalus falis I quae bella cibausla canebai I
Si milii non animo nmm immolumquc sederci,
Ne cui me lincio vcllem sodare iuguli,
l’ostquam primus amor deccptam morie fcfellil ;
Si non pertaesum Ibalami lacdacquc frisaci :
lluic uni (orsan potili succiimbcrc culpae.
Anna, Talcbor cnim, miseri posi (ala Sycliaci
Coniugis, et sparso* (ralcrna carde Penale*,
Solus Ilio inflcvit scnsus, animumque labanlcm
Imputi! ; agnoseo velcri* vestigio flammee.
Sed milii rei tellus optem prius ima dchiscal,
Vcl Pater omnipolons alligai ine fulmine ad umbra*,
Pallente* umbra* Èrebi noctemquc pro(undam.
Ante, Pudor, quam le violo, aul Ina iura rcsolro.
Ilio meos, primus qui me sibi iunsil, umores
Abslnlil ; illc liabcal secum, serrclque sepolcro.
Sic citata, simun lacrimi* implcvil oborlis.
Anna refert : 0 luce magis dilccta sorori,
Solane pcrpeluo moercns carperc invelila,
Ma la regina il' amoroso strale
Già punta il core, e ne le vene accesa
D* occulto foco, intanto arile c si sface;
E de l' amato Enea fra sii volgendo
Il legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
K quel, clic più le sta ne l'alma impresso,
Soave ragionar, dolce sembiante.
Tutta notte ne pensa r mai non dorme.
Sorgea l' Aurora, quando sursc aneli' ella,
Cui le piume parean già stecchi c spini ;
E con la sua diletta c lido suora
Si ristrinse e le disse; Anna sorella,
Clic vigilie, clic sogni, clic spaventi
Son quosli mici ? die peregrino è queslo
Che qui novellamente 6 capilato ?
Vedesti mai si grazioso aspello
Conoscesti unqua il più saggio, il più forte,
E il più guerriero ? lo credo ( e non è vana
La mia credenza ) die dal del discenda
Veracemente. I.' alterezza è segno
I)' animi generosi. E che fortune,
E clic guerre ne conta ! lo, se non fosse
Clic fermo e stabilito ho nel cor mio
Clic nodo maritai più non mi stringa,
Poiché il primo si ruppe, c se d' ognuno
Schiva non fossi, solamente a lui
Forse in’ inchinerei. Ciiè, a dirti il vero,
Anna mia, da rhu morte e l' empio frate
Mi privàr di Sichéo, sol questi ha mosso
1 mici sensi e T uno core, e solo in lui
Conosco i segni de l' aulica fiamma.
Ma la terra m’ ingoi, c ’l del mi fulmini, *
E nell’ abisso lui trabocchi ili prima
Cir io li violi mai, pudico amore.
Col mio Sichéo, con chi pria mi giungesti,
Giungimi sempre, c' ntcmcralo e puro
Entro ni sepolcro suo seco ti serba.
E qui piangendo c sospirando tacque,
Anna rispose: 0 più ile la mia vita
Sfossa, amala sorella, adunque sola
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Milito QUARTO
71
Nec ilulccs nalos, Vcneris nec pracmia noria ?
Ili cincrem lui llancs crcdis curaro scpullos ?
Eslo : aegram aulii quondam flezerc inarili,
Non Libyae, non anlc Tyr» ; dcspcclus larbas,
Ductorcsquc alii, quos Africa terra Iriuuiphis
Divcs ali! : placilonc etiam pugnalo < amori ?
Noe venit in mcnlcm, quorum conscdcris arvis ?
■line Gaclulac urbes, genus insuperabile bello.
Et Numidac inficili cingunl, cl inospila Syriis ;
Itine deserta sili regio, lateque furcnlcs
Barraci, Quid bella Tyro surgenlia dicani,
Gcrmanique niinas ?
Dls equidem auspicibus rcor et lunonc secunda
line cursum lliacas vento tenuisse carinas.
Quam tu urbcm,soror, bone cerncs, quac sorgere regna
Coniugio tali I Tcucrùm comitanlibus armis,
Punica se quanlis atlollet gloria rebus!
Tu modo poscc dcos vernare, sacrisque litatis
Indulge liospitio, caussasque innccte morandi,
Dum pelago desaevit liienis cl aquosus Orino,
Quassataeque ratea, dum non trattabile coclum.
liis dictis incensum auimum inflammavit amore,
Spcmquc dedii dubiae menti, soivilque pudorem.
I
Principio dclubra adeunt, paccmquc per aras
Evquirunl : modani leclas de more bidentes
Lcgifcrae Cereri, Phocboque, patrique Lyaco,
limoni ante omnes, cui vincla iugalia curar.
Ipsa tennis destra paleram pulcherrima liido,
Candcnlis taccae media inter cornua fundit ;
Aul ante ora deftm pingues spaliatur ad aras.
Insta uratquc diem donis, pccudumque reciusis
Pectoribus inliians spirantia consulil evia,
lleu valum ignarac mcntcs I Quid vota furentem,
Quid dclubra iuvant ? Est mollis fiamma medullas
lnterea, et tacitum vivit sub pectore vulnus.
Eritnr infelis Dido, tolaque vagalur
Erbe furcns, qualis conieeta cerva sagilla,
Quam procul incaulam nemora intcr Creala liti!
Pastor agens lelis, liquitquc volatile ferrum
Ncscius ; illa fuga silvas saltusque pcragral
Vuoi tu vedova sempre c sconsolata
Passar questi tuoi verdi e florid' anni,
Cile frutto non ne colga, e mai non gusti
La dolcezza di Venere e ’l contento
De' cari Agli ? Una gran cura certo
llan di ciò l' ombre e '1 ccncr de’ sepolti!
Abbili iusino a qui fatto rifiuto
E del Gelulo larba c di lanl’ altri
Possenti, generosi e ricchi duci
Peni e Fenici, eli* io di ciò ti scuso,
Com' allor dolorosa, e non amante;
Ma poich'ami, ad amor sarai rubclla,
E ritrosa a te stessa ? All I non sovvicnti
Qual cinga il tuo reame assedio intorno?
Com' ha gl' insuperabili Cenili
Da l' una parte, i Numidi da l’ altra,
Fera gente e sfrenata? indi le secche,
Quinci i deserti, e più da lunge infesti
I feroci Barcei? Taccio le guerre
Clic giù sorgon di Tiro, c le minacce
Del fiero tuo fratello. Io penso certo
Clie la gran Giuno, e tutto il cicl benigno
Ne si mostrasse allor che a' nostri liti
Questi legni approderò. 0 qual ciltadc,
Qual imperio Ila questo ! Quanto onore,
Quanto prò, quanta gloria a questo regno
Ne verrò, quand' ci leco, c l'armi sue
Saran giunte a le nostre ! Or via, sorella,
Porgi preci a gli dei, fa vezzi a lui,
Assccuralo, onoralo, intratlienlo;
Che ’l crudo verno, il tempestoso mare,
II piovoso Orione, i venti, il ciclo,
Le sconquassate navi in ciò ne dònno
Mille scuse di mora c di ritegno.
Con questo dir, che fu qual aura al foco,
Ond'era il cor de la regina acceso,
L' infiammò, l' incitò, speme le diede,
E vergogna le tolse.
Andaro in prima
A visitare i tempii, a chieder paco
E favor da' celesti, a porger doni,
A far d' elette pecorelle offerta
A Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
E, pria clic a tulli gli altri, a la gran Giuno,
Cui son le nozze e i maritaggi a cura.
La regina ella stessa ornata c bella
Ticn d’ oro un nappo, e fra lo corna il versa
D' una candida vacca; o si ravvolge
Intorno a' pingui altari, cd ogni giorno
Rinnova i doni, c de le aperte vittime
Le palpitanti fibre, i vivi moli,
E le spiranti viscere contempla,
E cou lor si consiglia. 0 menti sciocche
De gl’ indovini I E clic potino i delubri,
E i voti, esterni aiuti, a mal eh' ò dentro ?
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LlìLL’ ENEIDE
Dictacos ; liaercl latori letali* annido.
Nunc media Acncan sccum per moenia ducit,
Sidoniasqiic ostentai opcs, urbemque paratali),
Incipit effari, mediaque in voce resisti! :
Rune cudem, labenle die, con vi via quacrit,
lliacosque ilerum demens atidirc labores
Kxpnscit, pendetque iterura narranti» ab ore.
Post, ubi digrossi, lumenque obscura vicissim
Luna prcinil, suadentquc cadentia sidera somnos,
Sola domo mocrel vacua, slralisquc relielis
Incubai ; illuni absens absenlem auditque videlque.
Aul premio Ascanium, penitoris imapinc capta,
Delinei, infandum si fallerò possil amorem.
Non coeptae assurgimi turres ; non arma iuvenlus
Exercet, portusvc ani propupnacula bello
Tuta parali! : pendoni opera inlcrrupta, minacquc
Murorum ingentes, acquataquc macliina coelo.
Quam simili ac tali personal peste teneri
Cara lo vis coniunx, nec fa inani obstare furori,
Talibus aggreditur Vcncrern Saturnia diclis:
Egrcgiam vero laudern et spolia ampia refertis
Tuquc puerque liius; magnum et memorabile numen,
Una dolodivòm si frmina vieta duorum est.
Ncc me adeo fallii, verilam le moenia noslra
Susppclas habuissc domos Carlbaginis allac.
Sed quis crii modus ? aul quo nunc ccrtamina (anta ?
Quin potius pacein acternain paclosque il vmenacos
Kxcrccmus ? Ilahcs, Iota qiiod mente pctisti:
Ardct amans Dido, Iraxitque per o>sa furorem.
Commiincm lume ergo populum paribusque regamus
Auspici»; liceal Phrygio servire marito,
Dotalcsquc tuac Tyrios pcrmiltcrc d ex tra e.
Nel coor, ne le midolle c nc le vene
È la piaga e la fiamma, ond'ardc c pere.
Arde Dido infelice, e furiosa
Per tutta la città s* aggira c smania :
Qual nc 1 boschi di Creta incauta cerva
D’ insidioso arder fugge lo strale
Che P ha già colta; c seco, ovunque vada,
Lo porta al fianco infisso. Or a diporto
Va con Enea per la città, mostrando
Le fabbriche, i disegni e le ricchezze
Del suo novo reame; or desiosa
Di scoprirgli il suo duol prende consiglio:
Poi non osa, o s'arresta. E quando il giorno
Va declinando, a convivar ritorna,
E di nuovo a spiar de gli accidenti
E de* fati di Troio, e nuovamente
Pende dal volto del facondo amante.
Tolti da mensa, allor dio notte oscura
In disparte gli Iraggc, c che le stelle
Sonno, dal ciel caggendo, a gli occhi infon-
Dolente, in solitudine ridotta, [dono,
Ritirata da gli altri, è sol con lui
Che le sta lungc, c lui sol vede e sente.
Talvolta Ascanio il pargoletto figlio
Per sembianza del padre in grembo accolto,
Tenia, se cosi può, l’ ardente amore
0 spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i tempii, ogni edificio intanto
Cessa di sormontar; cessa da V arme
La gioventù. Le porle, il porlo, il molo
Non sorgon più: dismesse ed interrotte
Pendon P opere tutte e la gran macchina
Clic Tea dianzi ira a' monti e scorno al ciclo.
Vide da l'alto la saturnia Giuno
Il furor di Didonc, e tal che fama
E rispetto d' onor più non V affiena :
Onde Venere assalsc, c in cotal guisa
Disdegnosa le disse: Una gran loda
Certo, un gran merlo, un memorabil nome
Tu col fanciullo luo, Ciprigna, acquisti
D’aver due si gran dii vinta una femmina.
10 so ben clic guardinga e sospettosa
Di me li rende c de la mia Cartago
11 temer di tuo figlio. Ma Ila mai
Clic questa tema c questa gelosia
Si finisca tra noi 7 Chò non più tosto
Con una eterna pace c con un saldo
Nodo di maritaggio unitamente
Nc restringono ? Ecco hai già vinto; c vedi
Quel che più desiavi. Ama, arde, infuria,
Con ogni affetto è verso Enea, luo figlio,
La mia Dido rivolta. Or lui si prenda ;
E noi concordemente in pace abbiamo
Ambedue questo popolo in tutela :
Nè ti sdegnar che si nobil regina
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LIBRO QUARTO
73
Olii (sensi! enim simulala mente loeulam,
Quo regnum llnliac Libycas averterei oras)
Sic contra est ingressa Vcnns: Quis lalia demens
Abnuat, aut Iccum mali! contendere bello ?
Si modo, quod niemoras, factum fortuna sequatur.
Sed fati* incerta feror, si Iupìtcr unam
Esse velil Tyriis urbem Troiaque profeclis,
Misccrive probel populos, aut foedera iungi.
Tu comuni; libi fas animum tentare precando.
Perge; sequar. Tum sic eieepil regia lutto :
llecutn erit iste labor. Pinne qua ratione, quod instai,
Conficri possi), paucis, advcrle, docebo.
Venatum Aeneas unaque miserrima Dido
In nemus ire patant, ubi primos crasliuus ortus
Exluleril Tilan, radiisque rctcìcril orbem.
His ego nigranlem commista grandine nimbum,
Dum trepidati! alac, saltusque indagine cingunt,
Desuper inrundam, et lonitru coelum ornile ciebo.
DilTugient comites, et noctc legeulur opaca :
Speluncam Ditto dui et Troianus eandem
Devenicnt. Adero, et, tua si milti certa toluntas ,
Connubio iungam stabili propriamque dicobo.
Die Hymenaeus crii. Non adversala petenti '
Annuii, alque dolis risii Cylherca reperlis.
Occanum inlcrca surgens Aurora reliquit.
It porlis, in Dare esorto, delccta iuventus;
lidia rara, piagai-, luto venabula ferro,
Massyliquc ruttili eqnites, et odora canum vis.
Reginam lltalamo cunctantem ad Umilia primi
Poenorum cispectant; ostroque insignis et auro
Stai sonipcs, ac frena ferOi spumantia mandi!.
Tandem progrcdilur, magna stipante caterva,
Sidoniam picto cblamydetn circumdala limbo ;
Cui pharctra ci auro, crincs noduntur in aurum,
Aurea purpurcam subneclit fibula vcslem.
Noe non et Plirvgii comites et laetus Iulus
Iiiccdunt. Ipso ante alios pulclierrintus otnncs
Inferi se sociutn Aeneas, atqucagmiua iungil.
Serva a Frigio marito, c eli' ci le genti
Pi" aggio di Tiro e di Cartago in dote.
Venere, clic ben vide ove mirava
Il colpo di Giunone, e che t'occulto
Suo bersaglio era sol con questo avviso
Distor d'Italia il destinato impero
E trasportarlo in Libia, incontro a lei
Cosi scaltra rispose: E chi si folle
Sarebbe mai che un tal fisse rifiuto
Di quel ch'ei più desia, per leco averne,
Tcco, che tanto puoi, gara e tenzone,
Quando ciò clic tu di' possibil fosse?
Ma non so che si possa, nè che 'I Fato,
Nè clic Giove il permetta, che due genti
Diverse, come son Tirii e Troiani,
Una sola divenga. Tu consorte
Gli sei; tu ne T dimanda, e tu l'impetra,
Ch’io per me nc son paga. Ed io, soggiunse
Giuno, sopra di me i'incareo assumo,
Ch'ei nc 'I consenta. Or odi brevemente
Il modo che a ciò far già nc si porge.
Tosto che T Sol dimane uscirà fuori,
Uscire ancor l'innamorata Dido
Col Troian Duce a caccia s'apparecchia,
Ove opportunamente a la foresta.
Mentre de’ cacciatori c de’cavalli
Andran le schiere in vòlta, io loro un nembo
Spargerò sopra tempestoso c nero ,
Con un turbo di grandine c di pioggia,
F, di si fieri tuoni il ciclo empiendo,
Ch'indi percossi i lor seguaci tutti
Andran dispersi c d'atra nube involti,
Solo con sola Dido Enea ridotto
In un antro medesimo accorrassi.
Io vi sarò; saravvi anco Imeneo;
E se del tuo voler tu m'assecuri,
10 farò si, ch'ivi ambiduc saranno
Di nodo indissolubile congiunti.
Venere in ciò non disdicendo, insieme
Chinò la testa: e de la dolce froda
Dolcemente sorrise.
Uscio dal mare
L'Aurora intanto; cd ecco fuori armati
Di spjedi e di zagaglie a suon di comi
Venirne i cacciatori, altri con reti,
Altri con cani, ila questi un gran molosso,
Quegli un veltro a guinzaglio, c lunghe Ulc
Van di segugi incatenali avanti.
Scorrono intorno i cavalier Massilij;
E i maggior Peni, e i più chiari Fenici
Stanno in sella aspcltando, anzi al palagio ,
Mentre ad uscir fa la regina indugio;
È presto intanto d’ostro c d'oro adorno
11 suo ginnetto, c vagamente fiero
Ringhia, e sporge la terra, e morde il freno.
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7t
DELL’ ENEIDE
Qualis, ubi liibcrnam Lyciani Xanlliiquc (lucilia
Dcscrit, ac Odimi malcrnam invisit Apollo,
Inslauratquc clioros, rnivlique altana circum
Crctcsque Dryopcsque frcnuuil picliquc Agallarsi :
Ipsc iugis Cynlhi gradilur, molliquc lluentem
Fronde premil crioem fingcns, alque implicai auro,
Tela sonanl humeris: baud ilio segnior ibat
Acneas; lanlum egregio dccus enilcl ore.
Postquam allos ventum in inonlcs alque invia lualra,
Ecce (crac, savi deieclac vcrlice, caprae
Decurrere iugis; alia de parie palenles
Transmillunt cursu campos alque agniina cervi
Pulvcrulcnla fuga giomeranl, monlcsquc rclinquunl.
Al pucr Ascanius mediis in vallibus acri
Gaudct equo; iamque hos cursu, iam praelcril illos,
Spumanlemquc dari pecora inler inerba votis
Optai apruui, aul fuitum descendcre monte Icouem.
Inlerca magno misccri murmurc coclum
Incipit; insequitur eomnti.vla grandine nimbus;
El Tyrii comilcs passim, et Troiana iuventus,
Dardauiusquc nepos Veneris, diversa per agros
Tecla mctu peliere; ruunl de monlibus amnes.
Spcluncam Dido dui el Troianus candcm
Dcvcniunl. Prima el lellus et pronuba limo
Dani sigmim: fuiscre ignes, el conscius acther
Connubiis; summoque ulularunt vcrlice Nymphac.
lllc dics primus teli primusque malorum
Caussa fuil. Nequc cnim specie famarc movelur,
Nec iam furlivum Dido mcdilatur amorem;
Coniugium vocal; lioc praclciil nomine culpam.
Esce a la line accompagnala intorno
Da regio stuolo, c con un regio arnese,
Ha leggiadro c ristretto. É la sua veste
Di Tirio drappo, e d'Arabo lavoro
Hiccamcntc fregiala: è la sua chioma
Con nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
Tutta di gemme come stelle aspersa;
E d'oro son le Ubbie, onde sospeso
Le sta d'intorno della gonna il lembo.
Do gli omeri le pende una faretra;
Dal fianco un arco. I Frigi, e'I bello luto
Le cavalcano aranti ; c via più bello,
Ma di belli feroce e graziosa
Le giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual se ne va da Licia e da le rive
Di Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
A la materna Dclo il biondo Apollo,
Allor che festeggiando accolli e misti
Infra gli altari i Driopi, i Cretesi,
E i dipinti Agatirsi in varie tresche
Gli s’aggirano intorno; o quando spazia
Per le piagge di Cinto, a l’aura sparsi
I bei crin d'oro, e de ramalo fronde
Le tempie avvolto, c di faretra armato;
Tal fra la gente si mostrava, c tale
Era nc'gesti c nel sembiante Enea,
Sovra d'ogni altro valoroso e vago.
Poscia che furo a'monli, c nel più folto
l’enelràr de le selve, ecco dai balzi
De Palle rupi uscir capri c camozze,
E cervi altronde, clic d'armenti in guisa,
Quasi in un gruppo spaventali a torme
Fuggono al piano, c fan nubi di polve.
Di ciò gioioso il giovinetto Iulo
Sul feroce destrier per la campagna
Gridando c traversando or questo arriva.
Or quel trapassa; e nel suo core agogna
Tra le timide belve o d'un cignale
Aver rincontro, o che dal monte scenda
Un velluto leone.
In questa il cielo
Mormorando turbossi, e pioggia e grandine
Diluviando, d'ogni parte in fuga
Ascanio, i Teucri, iTirii a i più propinqui
Tetti si riliraro; e fiumi in tanto
Sceser da’monli, ed allagare i piani.
Solo con sola Dido Enea ridotto
In un antro medesimo s’accolse.
Diè di quel, che segui, la terra segno
K la pronuba Gmno. 1 lampi, i tuoni
Fur de le nozze lor le faci e i canti:
Testimoni assistenti c consapevoli
Sol ne fur l’aria c l'antro; e sopra 'I monte
N’ulularon le Ninfe. Il primo giorno
Fu questo, e questa fu la prima origine
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unno QtAnTo
13
Evlcmplo l.ibyac magnas il Fama per urbes,
Fama, malum qua non alimi velocius ullum.
Mobilitale vigcl, viresque acquirit eundo;
Parva mclu primo, moz scsc a tlollil in auras,
Ingrrdiliirquc solo, cl caput intcr nubila condii.
Illam Terra parens, ira irritata dcorum,
Evlrcmam, ut perhibent, Coeo Enceladoquc sorortm
Progenuil, pedibus cclercm et pernicibus alis;
Monstrum horreuduin , ingcns, cui, quot sunt corporc
pltimac, j
Tot tigiles oculi subter, mirabile dictu,
Tot linguac, totidem ora sonant, tot subrigìt aures.
Nocte volai codi medio terracque per umbram
Stridcns, nec dolci declinai lumina sonino:
Luce sedei cuslos ani summi culmine ledi,
Turribus aut altis, et magnas territat urbes,
Tarn Odi pravique lena*, quam nuntia veri.
Maec toni mulliplici populos sermone replebal
Gaudens, cl perder lacta alque inrecla canebai :
Venisse Aeneam, Troiano a sanguine cretum,
Cui se puledra viro digncltir iungerc Dido ;
Nunc bicmem inler se luiu, ipiam longa, fovere
Regnorum immemores, lurpiquc ctipidine raplos.
Dace passim dea foeda virùm diffundil in ora.
Protcnus ad regem cursus detorquet larban,
Inccnditque animimi dictis, atquc aggcral iras.
Ilic llamuioue salus, rapla Garamanlidc Nympha,
Tempia lovi renlum lalis immania regnis,
Cenimi! aras posuil ; «igllcmquc sacraveral ignem,
Kvcubias divAm aetcrnas, pccudumquc cruore
Pingue solum, et variis florentia limina serlis.
Isque amens animi, et rumore accensus amaro,
Dicilur ante aras, media inter nuinina divini,
Nulla lovcm manibus supplcv orasse supinis :
lupiler omnipotens, cui nunc Haurusia pictis
Gens cpulala toris Lcnacum libai honorem,
Adspicis bare ? an le, genilor, quum fulmina lorques,
Ncquidqiiam horremus, caeciquc in nubibus ignea
Terrificali! animos, et inania murmura misccnl ?
Vernina, qunc noslris errans in flnibus urbem
Eviguam prclio posuil, cui lituo annidimi,
Cuiquc loci leges dedimus, connubio nostra
Itcputìl, ac dominum Aencan in regna recepii. I
El nunc illc Paris, cum semiviro comilalu,
Maconia mcntum mitra crincmquc madenlem
Subnizus, raplo polilnr : nos munera templis
Quippc luis fcrimus, fomomque fovemus inanem.
Di tulli 1 mali, c de la morie al line
Do la regina; a cui poscia non calsc
Nè de l'indegnità, nè de l'onore,
Nè de la sccrelczza. Ella si fece
Moglie chiamar d'Enea: con questo nome
Ricoverse il suo fallo.
Di ciò tosto
Per le (erre di Libia andò la fama,
ft questa fama un inai, di cui null’altro
E piò veloce; e coni’ più va, piò cresce,
E maggior forra acquista. É da principio
Picciola c debit cosa, e non s'arrischia
Di palesarsi; poi di mano in mano
Si discopre c s'avanza; e sopra terra
Scn va movendo e sormontando a l’aura,
Tanto clic ’l capo infra le nubi asconde.
Dicon che già la nostra madre antica,
Per la mina de' Giganti irata
Contra i celesti, al mondo la produsse,
D'Encclado o di Cco minor sorella;
Mostro orribile c grande, c d'ali presta
E veloce dc'pìè: che quante ha piume.
Tanti ha sotto occhi vigilanti, e tante
(Meraviglia a ridirlo) ha lingue c bocche
Per favellare, c per udire orecchi.
Vola di none per l'oscure tenebre
De la terra c del cicl senza riposo.
Stridendo sempre, e non chiude occhi mai,
Il giorno sopra letti, c per le torri
Scn va de le città, spiando tulio
Che si vede c che s’ode; c seminando,
Non mcn clio’l bene e'1 vero, il male e'I falso,
Di rumor empie e di spavento i popoli.
Questa gioiosa, bisbigliando in prima,
Poscia crescendo, del seguito caso
Molte cose dicca vere c non vere.
Dicea, rh'un, di Troiana stirpe uscito,
Venuto era in Carlago, a cui degnata
S'cra la bella Dido esser congiunta,
Chi con nodo dicea di maritaggio,
Chi di lascivo amore; c ch'ambcduo,
Posti i regni in non cale, a l'ozio, al lusso,
A la lascivia bruttamente addilli.
Consumavan del verno i giorni lutti.
Queste, c cose altre assai, la sozza dea
Per le bocche de gli uomini spargendo,
Tosto in Getulia al gran larba pervenne:
E con parole e con punture acerbe
S) dell'olTcso re l'animo accese,
Ch'arse d'ira c di sdegno. Ero d'Ammone,
E de la Garamanlidc Napca,
Già rapita da lui, questo re nato,
Onde a Giove suo padre entro a'suoi regni
Cento gran tempii c cento pingui altari
Avca sacroli, e di continui fochi
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Vi
DELL' ENEIDE
Talibus oranlem diclis, arasque tcncnlom,
Audiil omnipolcns, oculosquc ad mociiio lorsit
Regia, et oblilo* lamac mcliorìs smanica.
Tum sic llcrcurium alloquitur, ac talia mandai :
Vade ago, naie, voca Zcphyros, el labere pennis :
Dardaniumquc ducem, Tyria Carlhagine qui nunc
Evspcclat, Catisquc dalas non respicit urbes,
Alloqucrc, el celercs defer mea dieta por aura*.
Non illum nobis gcnclrix pulclierrima lalcm
Promisil, Graiùmquc ideo bis vindicat armis :
Sed Core, qui gravidam impcriis belloque Cremcnlcm
llaliam rcgerei, gcnus allo a sanguine Teucri
Prodercl, ac tolum sub leges minerei orbom.
Si nulla accendil tanlarum gloria rerum,
Ncc super ipsc sua molilur laude laborcm :
Ascanione pater Romanas invidet arces ?
Quid slruil? aut qua spc inimica in genie moratur,
Ncc prolcm Ausoniam el Lavinia respicit arra ?
Navigel : baco stimma esl ; Ilio nostri nunlius cslo.
Divorai. Ilio palris magni parere parabai
Imperio : et primurn pedibus lalaria neclil
Aurea, quae sublimem alis, sivc acquora supra,
Scu lerram, rapido pariler cum flamine porlanl ;
Mantenendo a gli dei vigilie eterne,
Di vittime, di bori c di ghirlande
Gli letica sempre riveriti c colli.
Ei si com'era afllillo c conturbato
Da l'amara novella, anzi a gli altari,
E Tra gli dei, le mani al ciclo aliando,
Colali, umile insieme e disdegnoso,
Porse pricglii c querele: Onnipotente
Padre, a cui tanti opimi c sontuosi
Conviti, e di Lenéo si larghi onori
Oflrisce oggi de’Mauri il gran paese,
Vedi tu queste cose? o pure invano
Tonando c folgorando ci spaventi 7
Dna femmina errante, una che dianzi
Ebbe a prezzo da me nel mio paese,
Per rondar la sua terra, un piccol sito;
Dna che arena ha per arare, ha vitto,
Loco c leggi da me, me per marito
Rifiuta; e di si donno e del suo regno
Ila Catto Enea. Questo or novello Pari
Con quei suoi delicati c molli eunuchi,
Mitralo il mento, e profumato il crine,
Va del mio scorno e del suo Curio altero:
Ed io qui me ne sto vittime e doni
A le porgendo: e son tuo Uglio indarno.
Cosi Iarba dicea; nò da l'altare
S’cra ancor tolto, quando il padre udillo;
E gli occhi in vèr Cartagine torcendo
Vide gli amanti clic, a gioire intesi,
Avean posto in oblio la fama e i regni.
Onde vólto a Mercurio: Va', figliuolo,
Gli disse, chiama i Venti, e ratto scendi
Lì ’vc si neghittoso il Troian duco
Bada in Cartago, e T destinato impero
Non gradisce e non cura; c ciò gli annunzia
Da parte mia: che Venere sua madre
Non per tal lo mi diede, c che a tal fine
Non è sialo per lei da l'armi Greche
Già due volle scampato. Ella promise
Ch’ei sarebbe alto a sostener gl'imperi,
E le guerre d'Italia, a trar qua suso
La progenie di Teucro, a porre il freno,
A dar le leggi al mondo. A ciò Be'l pregio
Di si gran cose c de la gloria slessa
Non muove lui, perchè non guarda al Aglio?
Perchè di tanta sua grandezza il froda,
Di quanto fian Lavinio ed Alba c Roma
Nc’secoli a venire? E con che speme,
Con che disegno in Libia fa dimora?
E co'ncmici suoi? Navighi in somma.
Questo digli in mio nome.
Ddito ch’ebbe
Mercurio, ad eseguir tosto s'accinse
I precetti del padre; c prima a’piedi
I talari adaltossi. Ali son queste
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LIBRO QUARTO
77
Tum virgam capii ; hac animai illc evocai Orco
rallenti^, alias sub Tartara (ristia mitlit.
Dal somnos adimilquc, et lumina morte resignal;
Dia frclus agii ventos, et turbida tranat
Nubile, lamque Tolans apicem et lalera ardua cernii
Atlanlis duri, coelum qui vertice fulcil,
Allanlìs, cinclum assidue cui nubibus alris
Piniferum caput et vento pulsatur et imbri ;
Nu humeros infusa tegit : tum Rumina mento
Praccipilanl scnis, et gtacie riget horrìda barba.
Hic primum paribus nitcns Cyllenius alis
Conslitil : bine loto praeceps se corpore ad undas
Misil, avi similis, quae circum liloro, circum
Piscosos scopulos, humilis volai aequora iuita.
[Haud aliler lerras inter coelumque volabat,
Litui arenosum ad Libyae, ventosque sccabat,
Materno venicns ab avo, Cyllenia proles.]
Ut primum aialis tetigit magalia planlis,
Aeneam fundanlcm arces ac teda novanlem
Conspicit : atque illi stellalus iaspide fulva
Ensis erat, Tyrioque ardebat murice laena,
Demissa ex humeris; dives quae muncra Dido
Feccral, et tenui lelas discreverat auro.
Continuo invadi! : Tu nunc Carthaginis altae
Fundamcnla locai, pulcliramque uxorius urbcm
Evstruis, ben regni rerumque oblile tuarum ?
Ipse deùm libi me darò demittit Olympo
liegnator, coelum et terras qui numine lorqucl ;
Ipse haec ferro iubet celcrcs mandata per auras :
Quid slruis ? aut qua ape Libycis teris olia terris 7
Si le nulla moicl lantanio) gloria rerum,
Ncc super ipse tua moliris laude laborem,
Ascanium surgentem, et spes heredis luti
Itespice, cui regnum Italiae Romanaque tellus
Debentur. Tali Cyllenius ore locutus
Mortales visus medio sermone reliquie
Et procul in lemiem ei oculis cvanuil auram.
Al vero Aeneas adspectu obmuluit amens,
Arreclaeque liorrore comae, et vox faucibus haesil.
Ardet abirc fuga, dulccsque relinqucre lerras,
Attonilus tanto monitu impcrioquc deorum.
Heu quid agat 7 Quo nunc reginam ambire furenlem
Vischio vol. eneo.
Con penne d'oro, ond - ci l'aria trattando,
Sostenuto da’ Venti, ovunque il corso
Volga, o sopra la terra, o sopra *1 mare.
Va per Io ciel rapidamente a volo.
Indi prende la verga, ond' ha possania
Fin ne l'inferno, onde richiama in vita
L'anime spente, ondo le vive adduce
Nc l'imo abisso, e dà sonno e vigilia,
E vita e morte: aduna e sparge i Venti,
E trapassa le nubi. Era volando
Ciunlo là 've d'Atlante il capo e T Ranco
Scorgca, de le cui spalle il cielo 6 soma:
D' Atlante, la cui lesta irta di pini,
Di nubi involta, a piogge, a venti, a nembi
È sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
E per nevi e per gel canuto c gobbo,
F. da Dumi rigato. In questo monte,
Clic fu padre di Maia, avo di lui.
Primamente fcrmossi. Indi calando
Si gittò sovra Fonde, c lungo il lilo
Di Libia se n'andò l'auro secando
In quella guisa che marino augello
D’ un’ alta ripa, a nuova pesca inteso,
Terra terra scn va tra rive e scogli
Umilmente volando. Appena giunto
Era in Carlago, che d'avanti Enea
Si vide, intento a dar siti e disegni
A i superbi cdiRcii. Avca dal manco
Lato una storta, di diaspro c d'oro
(ìuarnila, e di stellate gemme adorna.
Dal tergo gli pendea di Tiria ardente
Porpora un ricco manto, arnesi c doni
De la sua Dido, che ella stessa intesta
Avca la tela, c ricamali i fregi.
Nè 7 vide pria, che gii fu sopra, c disse:
Tu te ne stai si neghittosamente.
Enea, servo d'amor. ligio di donna,
A fondar l'altrui regno, c il tuo non curi?
A te mi manda ii rcgnalor celeste,
Che io li dica in sua vece: Or che pensiero.
Che studio è il tuo? Con die spcrania indugi
In queste parli? Se 'I tuo proprio onore.
Se la propria grandexza non ti spinge:
Chè non miri a'tuoi posteri, al destino,
A la speranta del tuo figlio luto,
A cui si deve ii glorioso impero
De l'Italia e di Roma? E più non disse,
Nè più risposta attese; anzi dicendo,
Uscio d'umana forma, c dileguossi.
Stupì, si raggricciò, tremante e fioco
Divenne il Troian duce, il gran precetto
E chi ’l portava, e chi ’l mandava udendo;
Già pensa di ritrarsi. Ma che modo
Terrà con Dido ad impetrar commiato?
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DELL' ENEIDE
Audeal a (Tatù ? quae prima exordia sumat ?
Alquc animum nunc Ime cclerem, nunc dividii illuc.
In parlesque rapii vorias, perque omnia versoi,
llacc allernanti polior senlcntia viso est :
Mneslhea Scrgcslumque vocal rorlemque Cloanllium :
Classem aplcnl tacili, sociosquc ad lilora cogant,
Arma parcnt, el quae sii rebus caussa novandis,
Dissimulenl : sese inlerea, quando oplima Dido
Nesciat, et lantos rumpi non spcrel amores,
Tentalurum adilus, el quae mollissima fandi
Tempora, quis rebus dexter modus. Ocius omnes
Imperio laeli pareti!, ac iussa faccssunt.
Al regina dolos ( quis fallerò possit amantem ? )
Praesensit, molusque excepit prima fuluros.
Omnia luta timens. Eadem impia Fama furcnli
Dctulil, armari classem, cursumquc parati.
Saevil inops animi, totamque incensa per urbem
Banchaliir : qualis commotis excila sacris
Thyias, ubi andito slimulanl triclerica Barello
Orgia, nocturnusque vocal clamore Cithacron.
Tandem bis Aencan compcllat vocibus ullro :
(
Dissimulare cliam sperasti, perfide, tantum
Posse n$fas, lacilusquc mea decedere terra ?
Ncc le nosler amor, nec le data devierà quondam,
Ncc moritura tenel crudeli funere Dido ?
Quin ctiam Inberno moliris siderc classem,
Et mediis properas Àquilonibus ire per altum,
Crudelis ? Quid ? si non arva aliena domosque
Ignotas pcleres, el Troia antiqua maneret,
Troia per undosum petcrclur classibus aequor?
Mene fugis? Per ego has lacrimas dextramque tuam te,
Quando aliud milii iam miserae nihil ipsa reliqui,
Per connubia nostra, per Inceptos Hymenacos,
Si bene quid de le tuerui, fuil aul (ibi quidquam
Dulce meum : miserere domus labentis, et islam,
Oro, si quis adhuc precibus focus, cxue mcntem.
Te propter Libycac genics Nomadumque lyranni
Odere; infensi Tyrii; te propter eundem
Con quai parole assalirà, con quali
Disporrà mai la furiosa amante?
Pensa, volge, rivolge; in un momento,
Or questo , or quel parlilo , or tulli insieme
Va discorrendo; ed ora ad un s’appiglia,
Ed ora all'altro. Si risolve al line:
E fatto a sè venir Mnestco, Sergesto,
E Tardilo Cloanto: Andate, disse,
Itaunalc i compagni. Itene al porto;
E con bel modo chetamente l'arme
Apprestate e Tarmala, c non mostrale
Segno di novità, nè di partenza.
Intanto io troverò loco opportuno,
E tempo accomodalo, c destro modo
D’ottener da quesl'otlima regina,
Che da lei con dolcezza mi diparta,
Nulla sapendo ancor di mia partita,
Nè sperando tal Unc a tanto amore.
A l'ordine d'Enea lieti i compagni
Obbedir (ulti; e prestamente in punto
Fu ciò che impose.
Ma Didon del trailo
Tosto s’avvide : e clic non vede amore ?
Ella pria se n'accorse ; ch’ogni cosa
Tcmea, benché sccura. E già la stessa
Fama importunamente le rapporta
Armarsi i legni, esser i Teucri accinti
A navigare. Onde d’amore e d'ira
Accesa, infuriala, e fuori uscita
Di sè medesma, imperversando scorre
Per lulla la città. Quale ai nollumi
('•ridi di Cilcron Tiiade, allora
Che il Iricnnal di Bacco si rinnova,
Nel suo moto maggior si scaglia e freme,
E scapigliala e fiera attraversando,
E mugolando al monte si conduce ;
Tal era Dido, e da (al furia spinta
Enea da sè con tai parole assalse :
Ah perfido 1 Celar dunque sperasti
Una tal (radigione, e di nascosto
Partir da la mia terra ? E del mio amore,
De la tua data fè, di quella morte
Che ne farà la sfortunata Dido,
Punto non li sovviene, c non li cale ?
Forse che non li arrischi in mezzo al verno
Tra' piò fieri Aquiloni a Tonde esporti ?
Crudele ! Or clic faresti, se straniere
Non li fosser le terre, ignoti i lochi
Che tu procuri ? E che faresti, quando
Fosse ancor Troia in piede ? A Troia andresti
Di questi tempi ? E me lasci, c me fuggi?
Deh ! per queste mie lagrime, per quello
Che lu de la luo fè pegno mi desti,
(Poiché a Dido infelice altro non resta
Che a sè tolto non aggia ) per lo nostro
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LIBRO QUARTO
Exslinclus pudor, cl, qua sola sidera adibam.
Fama prior. Cui mo moribundam descris, hospes?
Hocsolum nomen quoniam de coniuge restai.
Quid moror? au, mea Pygmalion dum muenia fraler
Destruat, aul captam duca! Gaciulus lorbas?
Sallcin si qua milii de le suscepta fuisscl
Àule fugam suboles, si quis mìlii parvulus aula
Luderel Acneas, qui le lamen ore refernt,
Non equidem oninino capta ac deserta vidercr.
Diicral. Ille \o\is monitis immota tenebat
Lumina, et obnixus curam sub corde premebat.
Tandem pauca refert : Ego le, quae plurima laudo
Enumerare vale», nunquam, regina, negabo
Promcritam; nec me meminisse pigebil Elissae,
Dum memor ipsc mei, dum spirilus hos regit arlus.
Pro re pauca ioquar. Neque ego hanc abscondere furto
Speravi, ne finge, fugam, nec coniugis unquam
Practcndi taedas, aul hacc in foedera veni.
Me si fata meis paterenlur ducere vitam
Auspiciis, et sponte mea compoucre curas,
Urbem Troianam primum dulccsquc meorum
Relliquias colercm; Priami teda alta manerent,
Et recidiva manu posuissem Pcrgama viclis.
Sed nunc Italiani magnani Gryneus Apollo,
Italiani Lyciae iusserc capessero sorte?.
Hic amor, haec patria est. Si le Carlhaginis arces,
Pbocnissam, Libycaequc adspectus delinei urbis,
Quae tandem, Ausonia Teucros considere terra,
Invidia est? Et nos fas estera quaerere regna.
Me palris Anchisae, quoties humentibus umbris
Noi opcril tcrras, quoties astra ignea surgunt,
Admonet in somnis et lurbida terrei imago;
Me puer Ascanius, capilisquc iniuria cari,
Qucm regno llesperiae fraudo et fatalibus arvis.
Nunc ctiam interpres divùm, love missus ab ipso,
(Tcslor ulrumquc caput) celercs mandata per auras
Detuli t. Ipse deùm manifesto in lumine vidi
Intrantcm rouros, voccmquc bis auribus hausi.
Maritai nodo, per l'imprese nozze,
Per quanto li fei mai, se mai li fei
Comodo, o grazia alcuna, o s’alcun dolce
Avesti unqua da me, ti priego ch'abbi
Pietà del dolor mio, de la rùina
Che di ciò m'avverrebbe ; c ( se più luogo
Ilun le preci con te ) che tu del tutto
Lasci questo pensiero. Io per te sono
In odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
A' miei Tirii, a me stessa. Ho già macchialo
La pudicizia ; e ( quel che più mi duole )
Ilo perduta la fama, ond' io pur dianzi
Sorvolava le stelle. Or come in preda
Sola a morte mi lasci, ospite mio ?
Clf ospite sol mi resta di chiamarli,
Di marito che m'eri. E perchè deggio,
Lassa vivere io più ? Per veder forse
Clic '1 mio fratei Pigmalìon distrugga
Queste mie mura, o 'I tuo rivale Iarba
In servitù m'adduca ? Almeno avanti
La tua parlila avess'io fallo acquisto
D'un pargoletto Enea che per le sale
Mi scherzasse d'intorno, e solo il volto,
E non altro, di te sembianza avesse ;
Ch’esscr non mi parrebbe abbandonata,
Nè delusa del tutto.
A lai parole
Enea di Giove al gran precetto affisso
Tcnca il pensiero c gli occhi immoti e saldi,
E brevemente le rispose al fine :
Regina, e* non fia mai ch'io non mi tenga
Doverti quanto forse unqua potessi
Rimproverarmi. E non fia mai clic Elissa
Non mi ricordi infin che ricordanza
Avrò di me medesmo, c che il mio spirto
Reggerà queste membra. Ora in discarco
Di me dirò sol questo, che sperato
Nè pensato ho pur mai d'allontanarmi
Da le ( come tu dj’ ) furtivamente ;
Nè d’esscrli marito anco pretendo ,
Clf unqua di maritaggio, o di soggiorno
Tcco non palleggiai. Se il mio destino
Fosse che la mia vita, e i mici pensieri
A mia voglia reggessi, a Troia in prima
Farei ritorno : raccorrei le dolci
Sue disperse reliquie ; a la mia patria
Di novo renderci la vita c i figli,
E la reggia e le torri e me con loro.
Ma ne l'Italia il mio Fato mi chiama.
Italia Apollo in Deio, in Licia, ovunque
Vado o mando a spiarne, mi promette.
Qucsl'è l’amor, qucsl'è la patria mia.
Se tu, che di Fenicia sei venuta,
Siedi in Cartago, c li diletti c godi
Del tuo Libico regno, qual divido,
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DELL’ ENEIDE
Desine mc<iue luis incendere Icquc querclis;
Italiani non sponic sequor.
Tulia diccnlcm iamdudum aversa tuetur,
Iluc illue votvens oculos, tolumque pcrerrot
Luminibus lacilis; el sic accensa profatnr:
Nec libi dira parens, generis nec Dardanus auclor,
Perfide; sed duris genuil le caulibus horrcns
Caucasus, llyrcanaeque admorunl ubera ligrcs.
Nam quid dissimulo? aut quae me ad maiora reservo?
Num flctu ingommi nostro? num liniina flciil?
Num lacrimas virtù» dedil, aul miscralus amanlem est?
Quac quibus anlcferam? Luti iam ncc maiima luno,
Nec Saturnius haec oculis paler ad'picil acquis.
Nusquam luta fldes. Eicclum litore, egeniem
Excepi, el regni demens in parte locavi;
Amissam classem, socios a morte reduxi;
(lleu furiis incensa Perori) nunc augur Apollo,
Nunc Lyciao sorles, nunc el love missus ab ipso
Intcrpres divùm ferì (torrida iussa per auras.
Scilicet i i supcris labor est, ea cura quietos
Solliciiat. Nequc te (eneo, neque dieta refello.
I, sequerc Italiani venlis, peto regna per undas.
Spero cqnidcm mediis, si quid pia numina possunl,
Supplici» hausurum scopulis, et nomine Dido
Saepe vocalurum. Sequar alris ignibus abscns.
Et, quum frigida mors anima seduxerit orlus,
Omnibus umbra locis adoro. Dabis, improbe, poenas;
Audiam, et liaec Mane* veniet niilii fama sub imos.
His medium dictis scrmonem abrumpit, et auras
Aegra fugil, seque ex oculis averli! et aufert,
Linquens multa melu cunclanlem et multa paraotem
Diccrc. Suscipiunt famulae, collapsaque membra
Marmoreo rcferunl limiamo, stralisquc reponunt.
Qual invidia è la tua, die i mici Troiani
Prendano Ausonia ? Non lece anco a noi
Cercar de’ regni esterni ? E non copre ombra
La terra mai, non mai sorgon le stelle
Che del mio padre una turbata imago
Non reggia in sogno, c clic di ciò ricordo
Non mi porga e spavento. A tulle l'oro
Del mio figlio sovviemmi, c de l'ingiuria
Che riceve da me si caro pegno,
Se del regno d'Italia io lo defraudo,
Che gli son padre, quando il Fato e Giove
Ne ’l privilegia. E pur diami mi venne
Dal ciel mandalo il inessaggier celeste
A portarmi di ciò nuova imbasciata
Del gran re degli dei. Donna, io ti giuro
Per la lor deità, per la salute
D ambedue noi, che con quesl'occhi il vidi
Qui dentro in chiaro lume ; c la sua voce
Con qucsl’orccchi udii. Rimanti adunque
Di piò dolerti ; e con le tue querele
Nè le, nè me più conturbare. Italia
Non a mia voglia io seguo. E più non disse.
Ella, mentre dicea, crucciata e torva
Lo rimirava, e volgca gli occhi intorno
Sema far motto. Al fin, da sdegno vinta,
Cosi proruppe : Tu, perfido, tu
Sei di Venere nato ? Tu del sangue
Di Dardano ? non già ; clic l'aspro rupi
Ti produsser di Caucaso, e l'Ircane
Tigri ti fur nutrici. A clic tacere ?
Il simular che giova ? E clic di meglio
Ne ritrarrci ? Forse eh’ a’ miei lamenti
Ila mai questo crudel tratto un sospiro,
0 gittata una lagrima, o pur mostro
Alto o segno d’amore, o di pleiade ?
Di che prima mi dolgo ? di che poi ?
Ah 1 che nè Giu no ornai, nè Giove stesso
Cura di noi ; nè con giust’occhi mira
Più l’oprc nostre. OC è quaggiù più fede ?
E chi più la mantiene ? Era costui
Diami nel lilo mio naufrago, errante,
Mendico. Io Tho raccolto, io gli ho ridotti
1 suoi compagni, i suoi navigli insieme,
Ch’eran morti e dispersi ; ed io l’ho messo
( Folle 1 ) a parte con me del regno mio,
E di me stessa. Ahi da furor, da foco
Rapir mi sento f Ora it profeta Apollo,
Or le sorti di Licia, ora un araldo,
Che dal ciel gli si manda, a gran faccende
Quinci lo chiama. Un gran pensiero han certo
Di ciò gli dei. D'un gran travaglio è questo
A lor quiete. Or va* , che per Innanzi
Più non li tengo, e più non ti contrasto.
Va pur, segui l'Italia, acquista i regni
Che ti dan Tonde e i venti. Ma se i numi
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LlIiliO QUARTO
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Al pius Aencas, quamquam lenire dolcntcm
Solando cupi!, cl diclis avertere curas,
Multa gemens, maguoque animum labefaclus amore,
lussa tamen dlvfim ezscquilur, classemque revisit.
Tura vero Teucri incumbunl, et lilore cclsas
lleducunt loto naves. Natat uncta carina;
Frondentesque ferunt remos et robora silvia
Inebricela, fogne studio.
Migrantcs cerna», totaque ca urbe ruentes,
Ac veluli ingentem formicae farris accrvum
Quum populant , hiemis memorcs, leeloque reponunt:
It nigrum compia agmen, praedamque per lierbas
Conveclant calle angusto; pars grandia trudunt
Obnìzae frumenta liumeris; pars agmina cogunt,
Castiganlque moras; opere omnis semila fervei.
Quis libi nunc, Dido, cernenti lalia sensusl
Quosve dabas gemitus, quum lilora fervere late
Prospiceres arce cv summa, lolumquo videres
Misceri ante ocuios lanlis ciamoribus acquorl
Improbe amor, quid non mortalia pectora cogisl
Ire iterum in lacrimas, iterum tentare precando
Cogilur, et supplex animus submiltcrc amori.
Ne quid inexpertum frustra moritura relinquat.
Anna, vides loto propcrari lilore; circum
Undiquc convellere; vocal iam carbasus aura»,
Son pietosi, c se ponno, io spero ancoro
Che da' venti c da l'onde e da gli scogli
N'avrai degno castigo ; e che più volte
Chiamerai Dido, che lontana ancora
Co’ neri fuochi suoi ti Ha presente :
E tosto che di morte il freddo gelo
t.'anima dal mio corpo airi disgiunta,
Passo non moverai, che l’ombra mia
Non ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
Ricompensa a' tuoi merli, e ne l'inferno
Tosto me ne verri lieta novella.
Qui T suo dire interruppe ; e lui per tema
Confuso e molto a replicarle inteso
Lasciando, con disdegno e con angoscia
Gli si tolse davanti. Incontanente
Le fur l’ancelle intorno ; e sìcrom’era
Egra e dolente, entro al suo ricco albergo
Le dicr sovra le piume agio e riposo.
Enea, quantunque pio, quantunque afflitto,
E d’amore infiammalo, e di desire
Di consolar la dolorosa amante,
Nel suo core ostinossi. E fermo e saldo
D’obbedire a gli dei fatto pensiero.
Colossi al mare, e 1 suoi legni rivide.
Allor furo in un tempo unti e rispinti
E posti in acqua ; e per la fretta remi
Diventarono i rami che dal bosco
Si portavano allor frondosi e roui.
Era a veder da la ciltade al porto
De’ Teucri, de le ciurme, e de le robe
Ch'ai mar si conducean, pieno il sentiero,
Qual è, quando le provvide formiche
De le lor vernarecce vettovaglie
Pensose e procaccevoli si dènno
A depredar di biade un grande acervo,
Che va dal monte ai ripostigli loro
La negra torma, e per angusta e lunga
Semita le campagne attraversando,
Altre al carreggio Intese o lo s'addossano,
0 traendo, o spingendo lo conducono ;
Altre tengon le schiere unite, ed altre
Casligan l'infingardo ; e tutte insieme
Pan clic tutta la via brulica e ferve.
Che cor, misera Dido, che lamenti
Erano allora i tuoi, quando da l'alto
Un tal moto scorgevi, e tanti gridi
Ne sentivi dal mare ? Iniquo Amore,
Che non puoi tu ne' petti de' mortali ?
Elia di nuovo al pianto, a le preghiere,
A sottoporsi a l'amoroso giogo
Da la tua fona è suo mal grado astretta.
Ma per fare ogni schermo, anzi che muoia,
La sorella chiamando :
Anna, le disse,
Tu vedi che s'affrettano e sen vanno.
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DELL* ENEIDE
Puppibus et laeli nautne impostore coronas.
Uunc ego si potili tantum sperare dolorem,
Et perferrc, soror, poterò. Misera e Ime lanieri unum
Exsequerc, Anna, milii (solam nam pcrlidus ilio
Te colere, arcanos cliam libi credere sonsus;
Sola viri molles aditus et tempora noras );
I, soror, alque hosicm supplex affare superbum :
Non ego cum Danais Troianam cxscinderc gcnlcm
Aulide itimi, classcmvc ad Pcrgama misi;
Ncc patris Anchisae cimrcra Mancsve rovelli.
Cur mea dieta negai duras dcmdtcre in aure*?
Quo ruil? Extremum hoc miserae del munus amanti
Exspcclel facilcmquc lugani, vcnlosque ferente*.
Non iam coniugium anliquum, quod prodidii, oro,
Ncc pulchro ut Lalio corcai, regnumque relinquat:
Tcmpus inane pelo, requiem spaliumque furori,
Dum mea me viclam doceat fortuna dolere.
Eitrcmam liane oro veniam; misererò sororis;
Quam milii quum dederis, cumulata sorte remitlam.
Talibus orabat; lalesque miseri ima (Ictus
Ferlque refcrlquc soror. Sed nullis ilio inou lur
Fletibus, aut voccs alias traclabilis audii;
Futa obslant, placidasquc viri deus obslruil aurcs.
Ac vcluli annoso validam quum roborc quercum
Alpini Borcac mine bine nunc flatibus illinc
Eruere inicr se certant; il slridor, et alle
Conslcrnunt tcrram concusso stipile frondes :
Ipsa haeret scopulis, et, quaulum vertice ad auras
Aethcrias, tanlum radice in Tartara tendil:
Ilaud secus assidui* bine alque bine vocibus heros
Tuudilur, et magno persenlit pectore curas:
Mens immola manet: lacrimac volvuntur inanes.
Vedi già loro in su la spiaggia accolli,
Le vele in allo, c le corone in poppa.
Sorella mia, s'avessi un tal dolore
Antiveder potuto, io potrei forse
Anco soffrirlo. Or questo solo affanno
Prendi per la tua misera Crocchia.
Poiché te sola quel crudele ascolta,
E sol di te si Oda, e i lochi c i tempi
Sai d’esser seco, c di trattar con lui ;
Trova questo superbo mio nimico,
E supplichevolmente gli favella.
Digli che Dido io sono, e clic non fui
In Aulide co* Greci a far congiura
Contro a' Troiani, c clic di Troia a' danni
Nè i miei legni mandai, nè le mie genti.
Digli clic nè le ceneri, nè 1* ombre
Nè del suo padre mai, nè d' altri suoi
Non violai. Qual dunque, o mio demerlo,
0 sua durezza, fa eh* ei non ascolti
Il mio dire, e me fugga, c sè precipiti ?
Chiedigli per mercè de T amor mio,
Per salvezza di lui, per la mia vita,
Che indugi il suo partir tanto che ’l mare
Sia più sicuro, e più propizii i venti.
Nè più del maritaggio io lo richieggio,
Ch* ha già tradito, nè vo' più che manchi
Del suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un picciol tempo, d'ogni obbligo sciolto
lo gli dimando, c tanto o di quiete,
0 d'intervallo al mio cieco furore,
Clic in parte il duol disacerbando, impari
A men dolermi. Questo è 'I dono estremo
Che da lui per tuo mezzo agogna e brama
Questa tua miserabile sorella ;
E se tu lo m' impetri, altro che morte
Forza non avrà mai eli* io me n’ obli).
Queste c tali altre cose ella piangendo
Dicca con Anna, ed Anna al Frigio duce
Disse, ridisse, e riportò più volte
Or da l' una, or da V altro, e tutte invano ;
Chè nè pianti, nè preci, nè querele
Punto lo muovon più. Gli ostano i Fati,
E solo in ciò gli ha Dio chiuse l' orecchie
Benché dolce e trattabile e benigno
Fusse nel resto. Come annosa e valida
Quercia che sia ne I* Alpi esposta a Borea,
S’ or da Y uno, or da V altro de' suoi turbini
È combattuta, si scontorce e tituba,
Stridono i rami e ’l suol di frondi spargesi,
E ’l tronco al monte infìsso immolo e solido
Se ne sla sempre; c quanto sorge a r aura
Con la sua cima, tanto in giù stendendosi
Se ne va con le barbe inflno a gl’ inferi ;
Cosi da preci, e da querele assidue
Battuto duolsi il gran Troiano ed angesi,
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LIBRO QUARTO
83
Tuoi vero mieli x falis exlcrrila Dillo
Morteli) orai; lacdcl codi convola luorì.
Quo magia inceptum poragal, luoemque relinqual,
Vidil, turicromis quum dona imponercl aria,
( Horrcndum diclu ) lalices nigrescere sacros,
Fusaquc in obsccnum se vertere vina cruorem.
Hoc visum nulli, non ipsi oliala sorori.
Praelerea fuit in leclis de marmore templum
Coniugi* anliqui, miro quod honoro colebai,
Velloribus niveis el fesla fronde rcvinclum.
Hinc exaudiri voces et verba vocantis
Visa viri, noi quum lerras obsoura tenerci;
Solaque culminibus ferali Carmine bubo
Saepc queri, et longas in flclum ducere voces.
Mullaqoe praelerea vatum praedicla piorura
Terribili monitu horrificant. Agii ipse furenlem
In somnis ferus Aeneas; semperque relinqui
Sola sibi, semper longam incomilata yidclur
Ire viam, et Tyrios deserta quaererc terra:
Eumcnidum veluti demens videi agmina Penthi'iis,
Et solem geminum, et duplices se ostendere Tltebas;
Aut Agamemnonius scenis agilalus Oresles,
Armatam facibus malrem el serpenlibtts atri*
Quum fugit, ullriccsquc sedcnl in limine Dirac.
Ergo ubi concepii furias, evicla dolore,
Decrcvitque mori, tempns sccum ipsa medumque
Eiigit, et, moestam diclis aggressa sororem,
Consilium vullu tegit, ac spem fronte serenai:
Inveiti, germana, viam, gratarc sorori,
Quae milti reddat euro, vcl eo me solval amanlem.
Oceani finent iuxla solemque cadenlem
Ullimus Aclhiopum locus est, ubi maiimtts Alias
Avem humero lorquet, stelli* ardenlibus aplum.
Hinc milti Massylae genti* monstrala sacerdos,
Ilesperidum templi cuslos, epulasque draconi
Quae dabal, et sacros servabal in arbore ramos,
Spargens Immilla meda soporiferumque papaver.
Ila oc se carminibus prnmitlit solverc mentes,
Quas veli!, est aliis duras intmillere curas;
E con la mente In sé raccolta e rigida
Gilla indento per lei sospiri e lagrime.
La sfortunata Dido, poiché tronca
Si vide ogni speranza, spaventata
Dal suo fato, e di sè schiva e del sole,
Disiò di morire; e gran portenti
Di ciò presagio, e fretta anco le fero.
Ella, mentre a gli altari incensi c doni
OHria devota ( orribil cosa a dire ! ),
Vide davanti sè con gli occhi suoi
Parsi lurido e negro ogni liquore,
E 'I puro vin cangiarsi in tetro sangue :
E T vide, e 'I tacque, e 'tifino a la sorella
Lo tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
Avca di marmo un bel delubro cretto,
E dedicato al suo marito antico.
Questo con mollo studio, e moli' onore
Fu mai sempre da lei di bianchi velli,
E di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci notturne voci udir te parvo
Del suo caro Siclico che la chiamasse;
E nel suo letto un solitario gufo
Molte fiate con lugubri accenti
Fe' di pianto una lunga querimonia.
Oltre a ciò, da P antiche profezie,
Da pronostiei orrendi e spaventosi
De la vicina morte era ammonita.
Vcdcsi Enea tutte le notti avanti
Con fera imago, che turbala c mesta
La tenea sempre. Le parca da lutti
Restare abbandonata, c per un lungo
F. deserto cammino andar solinga
De' suoi Tirii cercando. In colai guisa
Le schiere de l’ Eumcnidi vedea
Pénleo forsennato, e doppio il Solo
E doppia Tebe. In colai guisa Oreste
Per le scene imperversa, e furioso
Vede, fuggendo, la sua madre armala
Di serpenti e di Taci, e n su le porte
Le Furie ullrici.
Or poi che la meschina
Fu da tanto furor, da tanto affanno
Oppressa c vinta, e di morir disposta,
Divisò fra sè stessa il tempo e 'I modo;
Ed Anna, si com' era afflitta e mesta,
A sè chiamando, il suo fiero consiglio
Celò nel core, c nel sereno volto
Spiegò gioia c speranza: Anna, dicendo,
Rallègrati con me, che al On trovato
Ho com' io debba o racquistar quell' empio,
0 ritormi da lui. Nel lito estremo
De P Oceén, là dove il Sol si corca,
De l’ Etiopia a l'ultimo confino,
E presso a dove Atlante il elei sostiene,
Giace un paese, ond' ora è qui venuta
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8 *
DELL’ ENEIDE
Sislcrc aquam fluviis, cl vertere sidera retro ;
Noclumosquc cicl Mancs ; mugire videbis
Sub pedibus terram, cl descendcre monlibus omos.
Testar, cara, dcos, et te, germana, luumquo
Dulcc caput, magicas invilam accingicr arles.
Tu secreta pyram ledo interiore sub auras
Erìge; et arma viri, limiamo quae Dia reliquit
Impili», ciuviasque omnes, lectumquc iugalem,
Quo perii, superimponas. Abolere nefandi
Cuncla viri monumenta iubel monslralquc saccrdos.
llaec elfata siici; pai lor simul occupai ora.
Non lameu Anna novis precidere funera sacris
Gcrmanam credit, nec tantos mente furorcs
Concipil, aul graviora timel, quam morte Sycbaei.
Ergo iussa parai.
Al regina, pyra penetrali in sede sub auras
Erecla ingenti laedis alque ilice seda,
Intendilque locum serti», et fronde coronai
Funerea; super exuvias, cnsemque relictum,
Effigiemque loro locai, haud ignara futuri.
Slanl arac circum, et crine» effusa saccrdos
Ter centum tonat ore deos. Erobumque, Chaosqtie,
Tergeminamque Ilecaten, Irta virginia ora Dianae.
Sparscrat et latices simulalos fonti» Averni;
Falcibus et messae ad lunam quacruntur aènis
Pubenlcs herbae, nigri cum lacle veneni;
Quaeritur et nascenlis equi de fronte revulsus
Et mairi praereplus amor.
Ipsa mola manibusque piis altana iurta ,
Unum cinta pedem vinclis, in veste recincla,
Testalur moritura deos, et conscia tali
Sidera; tum, si quod non aequo foedere amante»
Curae numen habet iuslumque memorque, precalur.
Una sacerdotessa incantatrice
Che, Messila di gente, è stata poi
Del tempio de l' Esperidi ministra,
E del drago nudrice, c de le pianto
Del pomo d' oro guardiana un tempo.
Questa, d' umido mele e d' obbliosi
Papaveri composto un suo miscuglio,
Promette con parole e con mallo
Altri scior da l’ amore, aliti legare,
Com' a lei piace, distornare I fiumi,
Ritrar le stelle, e convocar per fona
Le notturne fanlasme. Udrai la terra
Mugghiar sotto a" tuoi piè. Vedrai da’ monti
Calar gli orni c le querce. Io per gli dei,
Per te, per la tua vita a me si rara,
Ti giuro, suora mìa, clic, mal mio grado,
M' adduco a questi magici incantesimi
Ma gran fona mi spinge. Or va’ , sorella;
Scegli per entro a le mie stame un luogo
Il più remoto c solo, a l' aura esposto.
Ivi ergi uno gran pira, e vi conduci
L’ armi che a la mia camera sospese
Lasciò quel disleale, e quelle spoglie
Tulle e quel letto, ov’ io, lassa I perii;
In somma ogni suo arnese; chè la maga
Cosi m’ impone, e vuol eh’ ogni memoria,
Ogni segno di lui si spenga e pera.
Cosi dello, si tacque, e di pallore
Tutla si tinse. Non però a" avvide
Anna, die sotto a’ nuovi sacriflcii
Si celasse di lei morto si fera;
Chè si fero concetto non lo venne,
E non temè che peggio le avvenisse
Che in morte di Siclieo. Tosto fé’ dunque
Quel di’ imposto le fu.
Falla la pira,
E d’ ilici e di tede aride c scisse
Altamente composta, la regina
D' atre ghirlande c di funeste frondi
Ornar la fece intorno; indi le spoglie
E la spada c 1* effigie de l’ amatile
Sopra a giacer vi pose, ben secura
Di ciò che n’ avverrebbe. Eran d’ intorno
Gli altari eretti: era tra lor la maga
Scapigliata e discinta; e con un tuono
Di voce formidabile invocava
Trecento deità, V Èrebo, il Cao,
Beale con tre forme, e con Ire facce
La vergine Diana. Area già sparse
Le Onte acque d’ Averno, e i suffumigi
Fatti de le nocive erbe novelle
Clic per punti di luna, e con la falce
D’ incantalo metallo eran segale.
Si fe’ venir la maliosa carne
Che de la fronte al tenero puledro
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unno QUARTO
8 .»
Noi crat, el ptacidum carpebant Tessa soporem
Corpora pct lerras, silvaeque et saeva quierant
A equora, quum medio volvuntur sidera lapsu,
Quum tace! omnis ager, pccudes, piclaeque volucres,
Quaeque lacus late liquidos, quacque aspi ra dutnis
Rara tcnenl, sonino posilac sub noclc silenti.
[ Lenibanl curas, et corda oblila laborum. ]
At non infelia animi Phocnissa, ncque unquam
Solvilur in somnos, oculisic aut pectore noclem
Accipit. Ingeminant curac, rursusque resurgens
Saevil amor, magnoque irarum llucluat aestu.
Sic adeo insisti!, secumque ila corde voluta!:
En, quid ago? rursusne procos irrisa priores
Eipcriar, Nomadumquc petam connubio supplex,
Quos ego silfi lolics iam dedignala maritos?
Iliacas igitur classes alquc ultima TcucrAm
lussa sequar? quiane ausilio iuvat ante levatos,
Aut bene apud memores veleria stai gratia facti ?
Quis me aulem ( Tac velie ) sinel? ralibusve superbis
Invisam accipicl? Ncscis, lieti perdila I needurn
Laomcdonleae sentis penuria genlis?
Quid tum ? sola Tuga naulas comilabor ovanles ?
An Tvriis omnique manu stipala meorum
Infcrar, el quos Sidonia rii urbe retclli,
Rursus again pelago, et ventis dare vela iubebo ?
Quin morcre, ut merita es, ferroque averle dolorcm. j
Tu, lacritnls cvicla meis, tu prima furentem
His, germana, malia onerar, alque obiicis bosli.
Non liciti! Risiami eipcrlcm sinc crimine vilain
Dcgerc, more fcrae, lales nec tangere curas I
Non servata fides, ciucri promissa Sycbaco I
ViaaiLio voi. etneo.
Con l' amor de la madre si divelle.
Essa stessa regina il farro c T sale
Con le man pie sovr' a gli allori impone,
E d' un piè scalca, e di tuli' altro sciolta.
Solo actinia a morir, per testimoni
Chiama li dei. Protestasi a le stelle
Del suo falò consorti : e s' alcun nume
Mira a gli afflitti c sfortunati amanti,
Questo prega e scongiura clic ragione
E ricordo ne tenga, c ne gli caglia.
Era la notte; e già di mezzo il corso
Cadcan le stelle; onde la terra c T mare,
Le selve, i monti e le campagne (ulte,
E tutti gli animali, i bruti, i pesci,
E i volanti e i serpenti, e ciò clic vive
Avea da ciò che la lor vita afTanna
Tregua, silenzio, obblio, sonno e riposo.
Ma non Dido infelice, a cui la notte
Nè gli occhi grava, nè T pensiero alleggia;
Anzi maggior col tramontar del sole
In lei risorge l’amorosa cura :
E non mcn che d’ amor, d’ ira avvampando
Cosi fra sè farnetica e favella :
E che farò cosi delusa poi ?
Chi più mi seguirà de' primi amanti ?
Proferirommi per consorte io slessa
D’ un Zingaro, d’ un Moro, o d’ un Arabo,
Quando n' Ito vilipesi e rifiutati
Tanli e lai, tante volle ? Andrò co’ Teucri
In su l’ armata ? Mi farò soggetta,
Di regina eh' io sono, c serva a loro ?
SI certo, che gran prò fin qui riporlo
De le mie loro usate cortesie;
E grado me n’ avranno, c grazia poi.
Ma ciò dato ch'io voglia, chi permeile
Ch' io l' eseguisca ? Chi cosi schernita
Volenlicr mi raccoglie ? Alti sfortunata
Dido 1 eh' ancor non vedi a che sci giunta,
E le frode non sai di questa iniqua
Schiatta di Laomedonle. E poi che fia
Per questo ? Deggio sola in compagnia
Di marinari andar femmina errante ?
0 condur meco i mici Ecnicii ludi
Con altra armala ? c trarli un’ altra volta
D' un' altra pairia iu mare in preda a’ venti
Senz* alcun prò, senza cagione alcuna;
Quando anco appena di Sidòn gli trassi
Per ritorti da man d’ empio tiranno ?
Ah ! muor piò (osto, come degnamente
Hai meritalo; c pon col ferro fine
Al luo grave dolore. Ah, mia sorella I
Tu sci prima cagion di tanto male:
Tu, «iota dal mio pianto, in quest' angoscia
M’ hai posta, e data ad un nemico in preda :
Citò dovea vita solilaria c fera
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DELL* ENEIDE
8ti
Tanlo3 illa suo rumpebal pectore qucslus.
Acneas celsa in puppi, iam cerlus cundi,
Carpebat somnos, rebus iam rilc parali*.
Huic se forma dei, vullu redeuntis eodem,
Obtulit in somnis, rursusque ita visa moncre est.
Omnia Mercurio similis, vocemque coloremquc
Et crine* flavos, cl membra decora iuventae :
Naie dea, polcs hoc sub casu ducere somnos ?
Nec, quac te circum fileni deinde pcricula, cernis
Demcns, nec Zcphyros audis spirare sccundos ?
Illa dolos dirumque nefas in peclorc versar,
Certa mori, varioque irarurn (lucluat acslu
Non fugis lune praeceps, dum praecipilare potestà* ?
Iam mare turbari trabibus, saevasque videbis
Colluccre faces, iam fervere litora flammis,
Si le bis ailigeril tcrris Aurora moranlcm.
Eia age, rumpe moras. Vorium el mutabile semper
Femina. Sic fatus noeti se immiscuil alrae.
Tu ni vero Acneas, subitis exterrilus umbris,
Compii e sonino corpus, sociosquc fatigai :
Praecipitcs vigilale, viri, et considite transtris;
Solvitc vela citi. Deus, aclherc missus ab alto,
Festinare fugam, tortosque incidere funes,
Ecce itcrum stimnlat. Sequimur te, sancle deorum,
Quisquis cs, impcrioquc itcrum paremus ovantes
Adsis o, placidusque iuves, cl sidera coelo
Destra feras. Dixit; vnginnque eripit ensem
Fulminrum, tlricloque ferii rcliuacula ferro.
Idem omnes siinul ardor habet; rapiuntquc ruuntque,
Litora descruere; laici sub classibus aequor;
Armivi torquenl spumas, et caciula vernini.
El iam prima novo spargebat lumine terras
Titlioni croceum linquens Aurora cubile.
Regina e speculis ut primum albescere lucem
Vidi!, et acqualis rlassem procedere velis,
Litoraquc et vacuos sensi! sine remige porius,
Terque qunlcrque manu pectus percussa decorum,
Flaventesque nh scissa comas: Proli Iupiter I ibil
Hic, ait, et noslris illuseril advena regnis?
Non arma expedieol, tolaque ex urbe sequentur,
Diripienlque ratea alii navalibus? Ile,
Ferie citi flnmmas; date vela, impellile remos.
Menar più tosto, che commetter fallo
Si dannoso c si grave, e romper fede
Al cencr di Sìchco.
Questi lamenti
l'scian del petto a V affannata Dido,
Quando già di partir fermo c parato
Enea, per riposar pria che sciogliesse,
S' era a dormir sopra la poppa agiato.
Ed ecco un* altra volla in sogno avanti
Del medesmo celeste messaggero
Gli appar l’ imago, con quel volto stesso,
Con quel color, coti quella chioma d’oro
Con che lo vide pria giovane e bello;
E da la slessa voce udir gli parve:
Tu corri, Enea, si gran fortuna, e dormi ?
Non senti qual li spira aura seconda ?
Dido cose nefande ordisce ed osa,
Certa già di morire, e d’ ira accesa
A dire imprese è vòlta; e tu non fuggi
Mentre fuggir li lece? A mano a mano
Di legni travagliar vedrassi il mare ,
Di fochi il lito, e di furor le genti
Incontra a te, se tu qui 'I giorno aspetti.
Via di qua tosto : dà le vele a* venti.
Femmina è cosa mobil per natura,
E per disdegno impetuosa c fera.
E qui tacendo entrò nel buio, e sparve.
Enea, preso da subito spavento,
Deslossi, e fé’ destar la gente tutta ;
Via compagni, dicendo; a i banchi, a i remi,
Ch’or d’altro uopo ne fa che di riposo.
Fate vela, sciogliete, chè di nuovo
Precetto ne si fa dal cielo, c fretla.
Ecco, qual tu ti sia, messo celeste,
Che il tuo detto seguiamo; e tu benigno
N’aita, e ’l ciclo e ’l mar ne rendi amico.
Ciò detto. Il ferro strinse, e fulminando
Del suo legno la gomena recise.
Cosi fér gli altri, e col medesmo ardore
Tutti insieme sciogliendo, traversando,
E spingendosi in alto, in un momento
Lasciaro il lito, c 'I mar, da i legni ascoso,
Si fé* per tanti remi, c tante vele
Spumoso c bianco.
Era vermiglio e rancio
Fallo già de la notte il bruno ammanto,
Lasciando di Tilón l’Aurora il letto,
Quando d* un’ alla loggia la regina
Tulio scoprendo, poi ch a piene vele,
Vide le Frigie navi irne a dilungo,
E vóti i liti, e senza ciurma il porlo;
Contro sè fallo ingiuriosa e fera,
Il delicato petto c l’aurec chiome
Si percuolè, si lacerò più volle;
E'ncontra al ciel rivolta: Ah, Giove, disse,
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LI RUO QUARTO
87
Quid loquor? aul ubi suoi? quac menlem insania mutai?
lnfeliz Dido I nunc te facta impia tangunt ?
Tum decuit, quumsceptradabas. — Un dritrafldesque,
Quem sccum patrios aiunl portare Penales,
Qucm subiissc humeris conferì Li rn aelote parentem 1
Non potui abreptum divellere corpus, et undis
Spargere ? non socios, non ipsum absumerc ferro
Ascanium, patriisque epulandum poncre monsis ? —
Veruni auccps puguae fueral fortuna. — Fuisset :
Quem melui moritura ? Faces in castra tulissem,
Imptesscmquc foros flammis, natumque palremquc
Cum genere euliniem, memet super ipsa dedisscm.
Sol, qui lerrarum flammis opera omnia lustrai,
Tuquc liarum interpres curarum et conscia lumi,
Nocturnisque liticale triviis ululala per urbes.
Et Uirae ullrices, et di morieulis Elissae,
Accipite baec, merilumque malis advertile numen,
Et noslras addile preces. Si tangere portus
Infamimi) caput et terris adnare neccsse est,
Et sic fata lovis poscunt, bic lerminus barre! :
At bello audacia populi veiatus et armis,
Finibus ciiorris, compietti avulsus tuli,
Auiilium iniplorct, videatque indigna suorum
Funera; nee, quum se sub leges pacis iniquac
Tradiderit, regno aul optata luce fruatur,
Sed cada! ante diem, mediaque inliumalus arena,
tiare precor; banc vocem cxlremam cum sanguine
fundo.
Tum vos, o Tyrii, stirpem et genus omne fulurum
E.xcrccte odiis, clncrique liaec minile nostro
Munera. Nullus amor populis, ncc fortiera sunto.
Esoriare aliquis nostris ex ossibus ullor,
Qui face Uardanios Terroque sequsrc colonos,
Nunc, olim. quocunquc dabunl se tempore vires.
Lilora liloribus contraria, fluclibus undns
Imprecor, arma armis; pugnent ipsique nepoles.
Ilare ait, et parlcs enimum versabat in omnes,
Invisam quaerens qua rii primum abrumperc luccm.
Tum brevilcr Barcen nulricem affata Sjchaei;
Namquc suam patria antiqua cinis alcr habebat:
Annam cara milii nutrii bue siste sororem;
Die, corpus properet fluviali sporgere Ijmpha,
Et pccudcs sccum et monstrata piacula ducal;
Sic venial; tuque ipsa pia lege tempora villa.
Sacra lovi Slygio, quae lite incepta paravi,
Perflcrrc est animus, flncmque imponere curis,
Dardaniiquc roguni capilis pernotterò flammae.
Sic ait. Illa gradum studio celebrabat anili.
Al trepida et coeptis immanibui edera Dido,
Sanguincam volvens aciem, maculisquc Ircmcntcs
Intcrfusa genas, et pallida morte futura,
Interiora domus irrumpii limino, et allos
Couscciidi! furibundo rogos, cnsetnquc reclutili
Itardanium, non hos quaesilum Humus in usus.
Ilio, poslquam liiaeas vesles noliimquc cubile
Dunque pur se n'andrà? Dunque son io
Falla d'un foresticr ludibrio e scherno
Nel regno mio? Nè Ha chi prenda Farmi?
Nè chi lui segua, nè i suoi legni incenda?
Via loslo a le lor navi, a Farmi, al foco,
Alano a le vele, a' remi; olire nel mare.
Clic parlo? 0 dove sono? E clic furore
È il tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
Misera, li persegue. Allor fu d'uopo
Ciò ebe tu di', quando di le signore,
E del luo regno il fcsli. — Ecco la destra,
Ecco la fede sua. Questi è quel pio
Clic seco adduce i suoi pairii Penali ,
E 7 vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non polea farlo prendere e sbranarlo?
E giltarlo nel mare? ancidcr lui
Con tutti i suoi? dilaniare il figlio,
E darlo in cibo al padre? — Oh! perigliosa
Fura siala l'impreso. — E di periglio
La si fosse, e di morte; in ogni guisa
Morir dovendo, a clic temere indarno?
Arsi avrei gli steccali, incesi i legni,
Ucciso il padre, il Aglio, il seme tulio
Di questa genie, e me spenta con loro.
Sole, a cui de'mortali ogni opra è conia;
Giuno, de le mie cure, e de'miei falli
Pronuba consapevole c mezzana;
Ecale, che ne' Invìi orribilmente
Sei di nelle invocala; ultrici Furie,
Spiriti inferni, c dii de F infelice
Dido, cli'a morte è giunta, il mio non degno
Caso rìconosccle, c insieme udite
Queste dolenti mie parole estreme.
Se forza, se destino, se decreto
È di Giove c del ciclo, c Asso e saldo
È pur che questo iniquo in porto arrivi,
E terra acquisii; almcn da Aera genie
Sia combattuto, e de'suoi Ani in bando,
Da suo Aglio divelto implori aiuto,
E perir veggìa i suoi di morte indegna.
Nè leggi che riceva, o pace iniqua
Che accedi, anco gli giovi; nè del regno,
Nè della vita lungamente goda;
Ma caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
Giaccia insepolto. Questi pricglii estremi
Col mio sangue consacro. E voi, miei Tiril ,
Co i discesi da voi tenete seco
E co' posteri suoi guerra mai eempre.
Questi doni al mio cenere mandate,
Morta ch'io sia. Nè mai tra queste genti
Amor nasca, nè pace; anzi alcun sorga
De Fossa mie, clic di min morie prenda
Alla vernicila, e la Dardania genie
Con le Damme c col ferro assalga e spenga
Ora, in futuro c sempre; csian le fune
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DELL’ ENEIDE
Conspcxil, paullum lacrintis cl mente morata,
InculiuiU|ue loro, dUitquc notissima verba;
Dulccs ciuviac, dum fata deusque sinebant,
Accipite liane animato, nteque bis et sottile curia.
Vili, et, quem dedrrat cursum fortuna, peregi;
Et nunc maglia mei sub lorras ibil mago.
Urlicm praeclaram statili; mea moenia vidi;
L'ila virum, pocnas inimico a fratre recepì;
Feti*, heu niminm feliv, si ltlora tantum
Nunquam Dardaniac letigisscnt nostra carinoci
Diti!, et, os impressa loro: Morirmur multaci
Scd nioriamur! ait. Sic, sic iuvat ire sub umbras.
Ilaurial lume oculis ignem crudelis ab allo
Dardanus, et noslrac secum fcrat omnia morlis.
Divorai; alque Ulani media inter talia ferro
Collapsam adspiciunl contile», cnscmquc cruore
Spumantem, sparsasque manus. Il clamor ad alta
Atrio; concussam baecliatur fama per urbcm;
Lamenlis, gemiluque, et femineo ululali!
Tecla fremunl; resonol magnis plangoribus aclher;
Non aliler quam si immissis ruat lioslibus omnis
Cartti3go, aul antiqua Tyros; flammacque furentes
Culmina perque Itominum volvantur perque dcorum.
Audiil evonimis, Ircpidoquc eilrrrila cursu,
Dnguibus ora soror foedans cl peclora pugnis.
Per medios ruit, ac mnrientem nomine clamai:
lloc illud, germana, futi? me fraude petebas?
Hoc rogtts iste inibì, hoc ignesaraque paralumi?
Quid primum deserta querar? Comilcmne sororem
Sprot isti moriens? Eadcm me ad fata vocasses:
Idem ambas ferro dolor, alque eadcm bora lulissel.
His etiam slru.tì omnibus, palriosquc vocavi
Voce deos, sic te ul posila, crudelis, abessem?
Evslinvti me Icque, soror, populumque, patresque
Sidonios, urbemque tuam. Date, vulnera lymphis
Abluam, et cilrcmus si quis super Italitus errai,
Ore legato. Sic fata gradua evaserat altos,
Semianimemquc sinu germanam amplexa fotebat
Cttm gcmilu, alque alros siccabal veste cruores.
Illa, gratcs oculos conala allollere, rursus
Deficit; infiium stridii sub pectore vulnus.
Terscsc altollcns cubiloque adnixa levavil;
Ter revoluta loro est, oculisque erranlibus allo
Quaesivil coelo luccio, ingcmuitquc reperla.
Tura Inno omnipotens, longum miserala dolorcm
DilUcilesquc obitus, Irim demisit Olympo,
Quac luctantcni animarn neiosquo resulterei artus.
Nani, quia nec fato, merita ncc morte pcribal,
Sed misera ante diem, sttbiloque accensa furore,
fiondimi Ali datolo Proscrpina vertice crinem
Abstuleral, Slygioque caput damnaverat Orco.
Ergo Iris croceis per cnelum roscida pennis,
Mille trahens varios adverso sole colotes,
Devolat, et sttpra caput adstilit: llunc ego Diti
Sacrum iussa fero, teque isto corpore solvo.
A quest'animo eguali: i liti a i liti
Conlrarii eternamente, Ponile a l'onda,
E l’armi incontro a l’armi , e i nostri a i loro
In ogni tempo. E ciò detto, imprecando,
Schiva di più veder l’elcrea luce,
AITrcItò di morire. E, Uarcc in prima
Vistasi intorno, una nutrice antica
Del suo Sictico (citò la sua propria iu Tiro
Era cenere già): Cara nutrice,
Le disse, va’ , mi chiama Anna mia suora,
E le di' clic solleciti, e che l'onda
Del fiume e l'oslie e i suffumigi adduca,
E ciò cb'è d'uopo (come pria le dissi)
A prepararmi; chè finire intendo
Il sacrificio clic a Plutone inferno
Solennemente ho di già far impreso.
Per (ine imporre a' mici gravi martiri,
E dar foco a la pira, ov'è l’imago
Di quell'empio Troiano. A lai precetto
Mossa la vccchicrclla, a suo potere
Lentamente affreltossi ad csegnirlo.
Dido nel suo pensiero immane e fiero
Fieramente ostinala, in alto prima
Di paventosa, poi di sangue infetta
Le torve luci, di pallore il volto,
E tutta di color di morte aspersa,
Se n'entrò furiosa ove secreto
Era il suo rogo a Paura apparecchiato.
Sovra vi salse; c la Dardania spada
Ch'ebbe da lui non a tal uso in dono,
Distrinsc; c rimirando i Frigi arnesi
E 'I noto letto, poich’ in sè raccolta
Lngrimando c pensando alquanto stette,
Sovra vi a’ inchinò col ferro al petto,
E mandò Tuor qiiest’ullime parole :
Spoglie, mentre al ciel piacque, amate e care,
A voi rcnd'io quest'anima dolente.
Voi l'accogliete: c voi di questa angoscia
Mi liberale. Ecco io son giunta al fine
De la mia vita, c di mia sorte il corso
Ho già rompilo. Or la mia grande imago
N'andrà sotterra: c qui di me che lascio?
Fondata ho pur questa mia nobil terra;
Viste ho pur le mie mura; ho vendicato
Il mio consorte: ho castigato il fiero
Mio nimico fratello. Ah che felice,
Felice assai morrei, so a questa spiaggia
Giunte non fosscr mai vele Troiane!
E qui su ’l letto abbandonossi, c'I volto
Vi tenne impresso; indi soggiunse: Adunque
Morrò sema vendetta? Ehi che si muoia,
Comunque sia. Cosi, cosi mi giova
Girne tra l 'ombre infeme; c poich' il crudo ,
Mentre meco era, il inio foco non vide,
Vcggalo di lontano, e 'I tristo augurio
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LIBRO QUARTO
Sic gii, el delira crinem secai; omnis et una
Dilapsus calor, alt; ite in venlos vita rccessil.
De la mia morte almcn seco ne porli.
Arca ciò dello, quando Io ministre
La vidcr sopra al ferro il pedo infissa,
, Col ferro e con le man di sangue intrise
Spumante e caldo. In pianti, in ululati
Di donne in un momento si converse
La reggia tutta, e 'nsino al ciel n’ andaro
Voci alle e fioche, e suon di man con elle,
N'andò per la città grido c tumulto,
Come se presa da’ nemici a forra
Fosse Tiro; o Cartago arsa c distrutta.
Anna, tosto eh 1 udillo, il volto e 'I petto
Battessi e lacerassi ; e fra la gente
Verso la moribonda sua sorella,
Stridendo, e il nome suo gridando, corse ;
E per questo, dicca, suora, son io
Da te cosi tradita ? Io l' ho per questo
La pira e l' are e 'I foco apparecchiato ?
Deserta me ! Di che dorrommi in prima ?
Perchè, morir dovendo, uua tua suora
Per compagna rifiuti ? E perchè tcco
( Lassa ! ) non m' invitasti ? Ch' un dolore ,
Un ferro, un'ora stessa ambe n' avrebbe
Tolte d' affanno. Oimèl con le mie mani
T ho posto il rogo. Oimè ! con la mia voce
Ho gli dei de la patria a ciò chiamali.
Tutto, folle I ho fati’ io, perchè tu muoia,
Pcrch’ io nel tuo morir teco non sia.
Con le, me, questo popol, questa terra
E 'I Sldonio senato hai, suora, estinto.
Or mi date che il corpo ornai componga,
Che lavi la ferita, clic raccolga
Con le mie labbra il suo spirito estremo,
Se piò spirto le resta. E, ciò dicendo,
Già de la pira era salila in cima.
Ivi lei che spirava in seno accolta ,
La sanguinosa piaga, lagrimando.
Con le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella talor le gravi luci alzando
La mira appena, che di nuovo a fona
Morte le chiude; c la ferita intanto
Sangue e fiato spargendo anela c stride,
Tre volte sopra il cubito risorse ;
Tre volte cadde, ed a la terza giacque :
E gli occhi vólti al ciel, quasi cercando
Veder la luce, poiché vista I’ ebbe,
Ne sospirò. De l' affannosa morte
Fatta Giuno pietosa, Iri dal ciclo
Mandò, che 'I groppo discioglicssc (osto
Clio la lenca, malgrado anco di morte,
Col suo mortai si strettamente avvinta ;
Ch’ anzi tempo morendo, c non dal fato,
Ma dal furore ancisa, non le avea
Proscrpiua divello anco il fatale
Suo dorato capello, nè dannata
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DELL* ENEIDE
Era ancor la sua lesta a l’ Orco inferno.
Ratto spiegò la rugiadosa dea
Le sue penne dorate: e' incontra al Sole
Di quei tariti suoi lucidi colori
Lunga striscia traendo, indi sospesa
Sopra al capo le stette, e d' oro un (ilo
Ne svelse, e disse : lo qui dai cicl mandala
Questo a Pioto consacro, e le disciolgo
Da le tue membra. Ciò dicendo, sparve.
Ed ella, in aura il suo spirto converso,
Restò senta calore e senta vita.
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LIBRO OLINTO
Intere;! medium Aencas inm classe Icncbal
Ccrtus iter, fluclusquc alros aquilone secabal,
Moenia respicicns, quac iam infelicis Elissae
Colluccnt flummis. Quac lanlnm accendcril ignem,
Caussa laici; duri magno sed amore dolores
Pollulo, nolumque, furcns quid l'emina possit,
Triste per augurium Teucrorum peclora ducunt.
Ut pelagus tenucre rales, nec iam amplins olla
Occurril tellus, maria undique. et undique eoelum;
Olii cacrulcus supra raput adslilil imber,
Noctcm hicmemque ferens; et inhorruit unda Icnebris.
lpse gubernalor puppi Palinurus ab alla :
lieu I quianam tanti cimentiti aclhera nimbi ?
Quidvc, paler Neplunc, paras ? Sic deinde loculus
Colligere arma iubcl. talidisqtic incombere remis,
Obliqualque sinus in venturo, ac (alia falur :
Magnanime Aenca, non. si ntihi Iupiler auctnr
Spondeal, boc sperem Italiani conlingcrc coelo.
Mutati Iransvcrsa fremunt et vespcre ab atro
Consurgunt centi, alque in nubcm engilur aèr.
Nec nos obnili contra, nec tendere tantum
SuDIcimus. Superai quoniam Fortuna, sequamur,
Quoque cacai, vcrlamus iter. Nec lilora longe
Fida reor fraterna Erycis, porlusquc Sicanos,
Si modo rite ntemor servata remelior astra.
Tum pius Aencas: equidem sic posccre venlos
Iamdudum et frustra cerno le tendere contra.
Flectc viam velia. An sii milii gralior ulta,
Quocc magis fessas optem deraillere naves,
Quam quac Dardanium tellus milti servai Aceslcn,
Et patris Anchisac gremio complcctilur ossa?
Ilacc ubi dieta, pelunl portus, et vela sccundi
Intendimi Zephyri ; fcrlur cita gurgitc classis,
Et tandem lacli nolac advertuntur arcnac.
Intanto Enea, spinto dal vento in allo,
Veleggiava a dilungo ; e pur con gli ocelli,
Da la fona d' amor rivolto indietro,
Rimirava a Carlago. Ardca la pira
Già d' Elissa infelice : e le sue fiamma
Raggiavan di lontan gran luce intorno.
La cagion non sapea : ma la temenza
Lo rimordea del violato amore.
E 'I saper quel che puote e quel che ardisce
Femmina furiosa ; e T tristo augurio
Del loco, che lugubre era c funesto
Lo lenea con lo stuol de' Teucri tulli
Disanimato c mesto. Eran di vista
Già de la terra usciti, e ciclo ed acqua
Apparian solamente d’ ogn' intorno,
Allor eli' un denso e procelloso nembo
Si fé' lor sopra ; onde tempesta c nollc
Sorse repente, e Paiinuro stesso
Da l' alla poppa il cicl mirando : Oh I disse,
Che lia con tante intorno accolte nubi ?
E clic pensi e clic fai, padre Nettuno ?
Indi comanda: Via compagni, armiamei.
Opriamo i remi, accomodinm le vele,
Tcgniamo al vento avverso obliquo il seno.
E rivolto ad Enea : Con questo cielo,
Signor, diss’ egli, ornai più non m' affido
Prender Dalia, ancor che Giove stesso
Mei promettesse, ed ei nocchier no fosse.
Vedi il vento mutalo, vedi il maro
Di vèr ponente, che s' annera e gonfia ;
Vedi nel cicl qual ne s‘ accampa stuolo
Di folle nubi. Traversia di cerio
N" assalirà si che nè girle incontro,
Nè durar la potremmo. Or poi di' a forza
Cosi ne spinge, noi per nostro scampo
Assecondiamo ; che già presso i porti
Ne son de la Sicilia e T fido ospizio
D' Ericc tuo fratello, se abbastanza
De l' arie mi rammento e de le stelle.
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Ai
DELL’ ENEIDE
Disposo Enea : Ben conoso.' io che duro
E M contrasto de’ venti; e 'I nostro è vano.
Volgi le vele. E qual più graia altrove,
0 più comoda riva, o più sicura
Aver mai ponno le mie stanche navi,
Di quella che ne serba il caro Acosle,
E P ossa accoglie del buon padre mio ?
Cosi vAlti a levante, e preso in poppa
11 vento c 'I flutto, a tutta vela il golfo
Correndo, fur subitamente a proda
De P amica riviera.
At procul eicelso miratus vertice monlis Avea ili cima
Adventum sociasquc rales, occurrit Accalca, Vista d’ un monte II cacciatore Accslc
llorridus in iaculis et pelle Libyslidis ursae, Venir la Frigia armata. Onde in un tempo
Troia Crimiso roncrplum (lumino maler Fu con essi a la riva ; e rìncontrolli
Quem gciiuit. Vcterum non immemor ille paronimo,
Gratatur reduccs, et gaia ladus agresti
Excipil, ac fessos opibus solatur amicis.
Posterà quum primo stellas Oriente fugarci
Clara dies, socios in coetum lilore ab Omni
Advocat Acneas, lumulique ci aggcrc fatur :
Dardanidae magni, genus allo a sanguine divùm,
Annuus ciactis complctur mensibus orbis,
E* quo reliquias divinique ossa parenlis
Condidimns terra, moestasque sacravimus aras.
lamquc dies, ni fallor, adest, quem scinger neerbum,
Scraper onoraluin, sic di voluistis, habebo.
Dune ego Gaclulis ogerem si Sjrlibus cisul,
Argolicovc mori deprensus, et urbe Mycenae,
Annua iota lamcn solemncsque ordine pompas
Eiscqucrer, slrueremquo suis allaria donis.
Nunc nitro ad cincres ipsius et ossa parenlis,
Haud e(|uidcm sino mente reor, sine numine divùm
Adsumus, et porlus deisti intramus amicos.
Ergo agite, et laclum cuncli celebremus honorem ;
Poscamus venlos; alque hacc me sacra quolannis
Urbe veli! posila lemplis sibi ferrc dicalis.
Bina boum vobis Troia gcncralus Acesles
Hat numero capila in nnves; adhibelc Pcnales
Et palrios epulis et quos colil hospes Accstes.
Praelcrea, si nona diem mortalibus almum
Aurora exlulcril, radiisque relexerit orbem,
Prima cilae Tcucris ponam cerlamina classis ;
Quique pedum cursu vaici, et qui, viribus sudai,
Aul iaculo incedi! melior levibusque sagitlis,
Seu crudo Udii pugnam commiltcrc ceslu,
Cuncti adsinl, mcrilacque cispcctcnt pracmia palmac.
•Ire faveto omnes, et tempora cingile ramis.
Allegramente, si com’ era incollo
Di dardi armato c d' irta pelle cinto
Di Libie' orso, umano insieme e rono,
De la Troiana Egcsta e di Crimiso
Fiume onorato Aglio. Ei de gli antichi
Suoi parenti inombrando, con gioioso
Volto, se ben con rustico apparecchio,
Gl' invila, li riceve c li consola.
Era de l'altro dì l' Aurora e T Solo
Gii fuor de l' onde allor che 'I Frigio duce
Convocati i suoi tutti, allo in un greppo
Posto in meno di lor cosi lor disse :
Generosi c magnanimi Troiani,
Degna prole di Bardano e del ciclo,
Questa è l'amica terra, ove oggi è l’anno
Ch’ a le sante ossa del mio padre Ancliisc
Demmo requie c sepolcro, c i mesti altari
Gli consecrammo.Oggi 4(s'io non m'inganno)
Quel sempre acerbo ed onoralo giorno,
Citi onorato ed acerbo mi fla sempre
(Poiché s) piacque a Dio) quantunque, ovun-
Qucsto csiglio infelice mi trasporti ; fque
Pongami ne l' arene c ne te secche
De la Gelulia ; spingami agli scogli
Del mar di Grecia ; ne la Grecia stessa
Mi chiugga, e dentro al cerchio di Micene;
Ch’ io l' arò sempre per solenne, c voti
Farògli ogni anno e sacriflcii c ludi.
Or poiché da' celesti, oltre ogni avviso
Nostro, tra'nostri siamo in provo addotti
Per onorar le sue ceneri sante,
Onoriamle, adoriamle, e dal suo nume
Imploriamo devoti amici i venti,
E slabil seggio, ove gli s‘ erga un tempio
In cui sian quest’ esequie c questi onori
Binnovcllati eternamente ogni anno.
Due pingui buoi per ciascun nostro legno
Vi profferisce il buon Troiano Accslc.
Voi d’ Acosle c di Troia i patrii numi
Ne convitate ; ed io, quando I' Aurora
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LIBRO QUINTO
93
Sic fatus, velai materna lempora myrto.
Hoc Ilelymus farli, hoc aevi malurus Acestes,
Hoc pucr A scani us, sequilur quos celerà pubes.
Die c concilio multis cum minibus ibat
Ad lumulom, magna medius comitantc catena.
Ilic duo rito mero libans carclicsia Baccho
Fundillmmi, duo lacte novo, duo sanguine sacro,
Purpureosque iacil flore*, ac talia fallir :
Salve, sancte parens, itcrum; salvelc recepii
N'equidquam cineres, animaeque umbracque paternae
Non licuit (Ines Ilalos falaliaquc arva,
Ncc tecum Àusonium, quicunque est, quaerere Tybrim
Divorai liaec, adytis quum lubricus anguis ab imis
Seplom ingens gyros, septena volumina traxif,
Amplexus placido lumulum, lupsusque per aras,
Caeruleac cui terga noiae, maculosus et auro
Squamam incendebal fulgor : ceti nubibus arcus
Mille iacil varios, adterso sole, colores.
Obstupuit visu Arneas : ille agmine longo
Tandem inter palcras et levia pocula serpens,
Libavitquc dopes, rursusque innozius imo
Successit tumulo, et depastn ollaria liquit.
Hoc magis inceplos genitori instaurai honores,
Inccrtus, Geniumnc loci famulumne parontis
Esse pulci : caedit biuas de more bidentes,
Totque sucs, tolidemque nigrantes terga iuvcncos,
Vinaquc fundebat paleris, animamque vocabat
Anchisac magni Manesquc Acheronte remissos.
Noe non et socii, quac cinque est copia, lacti
Dona rerunt, oncrant aras, mactantque iuvcncos;
Ordine aéna locant alii, fusique per herbain
Subiiciunl veribus prunas, el viscera torrenl.
VlBGIllO tot. emeo.
Tranquillo c quoto il nono giorno adduca,
A’ solenni spettacoli v'invito
Di navi, di pedoni c di cavalli,
Al corso, a la palestra, al cesio, a V arco.
Ognun vi si prepari, ognun ne speri
Degna del suo valor mercede e palma.
E voi datevi assenso, c tutti insieme
V* inghirlandale.
E, ciò dicendo, il primo
Del suo mirto materno il crin si cinse.
Eliino lo segui, seguillo Accstc,
Un di veni’ anni e V altro di maturi ;
Poscia il fanciullo lido ; e dietro a loro
IV ogni età gli altri tutti. Enea, disceso
Dal parlamento, in mezzo a quante intorno
Avca schiere di genti, umile e mesto
Al sepolcro d' Anchise apprcscntossi :
E con rito solenne in terra sparte
Due gran coppe di vino c due di latte
E due di sangue, di purpurei fiori
Vi nevigò disopra un nembo, c disse :
A voi sant’ ossa, a voi ceneri amale
E famose c felici, anima ed ombra
Del padre mio, torno di nuovo indarno
Per onorarvi ; poiché Italia e ’l Tcbro
( Se pur Tebro è per noi ) ne si conlende
Or quel ch'io posso, con devoto alTcllo
V adoro, c* nchino come cosa santa.
Mentre così direa, di sotto al cavo
De P allo avello un gran lubrico serpe
Uscì placidamente ; e selle volte
Con sette giri al tumulo s' avvolse,
Indi, strisciando infra gli altari e i vasi,
I.e vivande lambendo, in dolce guisa,
Con le cerutee sue squamose terga
Sen glo divincolando, e, quasi un’ Iri
A Sole avverso, scintillò d’ inlorno
Mille vari color di luce e d" oro.
Stupissi Enea di colai vista ; c V angue
Di lungo trailo infra le mense e P are,
Ond' era uscito, al fin si ricondusse.
Rinnoveliò gl' incominciati onori
Il Frigio duce, del serpente incerto.
Se del loco era il Genio, o pur del padre
Sergente o messo. E com* era uso antico,
Cinque pecore elette e cinque porci,
Con cinque di morello il tergo aspersi
Grassi giovenchi anzi a In tomba decise,
Nuove tazze versando, c nuovamente
Fin d’ Acheronte richiamando il nome
E I* anima d' Anchise. Indi i compagni,
Ciascun secondo la sua possa offrendo,
Lieti rolmàr di doni i santi altari :
Altri di lor le vittime immolare,
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DELL' ENEIDE
91
Exspedala dies adorai, nonnniquc serena
Aurora m Pliacllionlis equi iam luce vchebanl;
Famaque lìnilimos et clari nomcn Aceslae
Escicrat. Laelo complrranl litora coelu,
Visori Aeneadas, pars et cenare parali.
Nuncra principio anic oculos circoquc locanlur
In medio, sacri tripode», \irWcsquc enronae,
Ei palrnae, prelì una vicloribus, armnquc, et ostro
Pei fusai* veste» , argenti aurique talenta ;
Et tuba commissos medio canit aggcrc ludos.
Prima parcs incuoi graiibus certamina remis
Quatluor ex omni delectae classe carinac.
Vclocem Mneslheus ag ; t acri remigo Prislin,
Mo\ Ilolus Mneslheus, genus a quo nomine Mcmml;
Ingentemque Gya» ingenti mole Chimacram,
Urbis opus, triplici pubes quam bardana versu
Impellunl, terno consurguiil ordine remi ;
Scrgeslusquc. domus lenel a quo Sergia nomcn,
Centauro iuvchilur magna; Scyllaquc Cloanlhus
Cacrulea, genus unde libi, Romane Cluenli.
Est procul in pelago saium spumanlia contra
Litora, quod tumidi» submersum lunditur olim
Fluclibus, biberni condurli ubi sidera Cori ;
Tranquillo siici, immolaque atlollitur unda
Campus, et apricis slatio gratissima mergis.
Ilio viridem Aencas frondenti ei ilice mclam
Consliluit signum tiauiis paler, unde reverli
Scirenl : cl longos ubi circumflcclerc cursus
Tum loca sorte Icgunl : ipsique in puppibus auro
Duclorcs longc cflulgcnt ostroque decori ;
Celerà populea velalur fronde iuventus,
Nudalosquc bumcros oleo perfusa nilcscil :
Coiisidunt Iranstris, intentaque bracino remis :
Intenti exspeclant signum, cxsultantiaque hauril
Corda pavor pulsans, laudumque arreda cupido.
Inde, ubi dara dedit sonitum tuba, fìnibus omnes,
flaud mora, prosiluerc suis : fcrit aclhcra clamor
Naulicus; ndduclis spumanl frela versa lacertis ;
Inflndunl pai iter suicos, totumque dehiscìt
Convulsum remis roslrisquc Iridcnlibus ncquor.
Non (ani praecipitcs biiugo cerlaminc cnmpum
Corripucre ruuntquc effusi carcere currus ;
I Altri cibi uc fòro ; c lutti insieme
Sul verde prato a convitar si diero.
Era già *1 nono destinato giorno
Sereno c lieto a P Oriente apparso,
E già la vaga fama c *1 chiaro nome
Avca d’ Accslc convocali intorno
I virili tulli, c pieni erano i liti
Di genie, cui (raca parte vaghezza
Di vedere i Troiani, c parte ordire
Di provarsi con loro. In prima esposti
Con pompa riguardevole c solenne
Furo in mezzo del circo armi indorate,
Purpuree vesti, tripodi c corone,
E piò guise d* arnesi c di monete
D’ argento c d’ oro, e palme ed altri premii
Di vincitori. Indi sonora tromba
D* alto diè segno a i desiali ludi,
E dal mar comi ridossi. Avcan di tulio
La Teucra armato quattro legni scelli
Più di remi c di remigi guarniti,
E di tulli più destri. Un fu la Pistri,
E Muesleo la reggea; Mnesleo clic poi
L' Italo fu nomalo, e diede il nome
A la stirpe de 1 Menimi. La Chimera
Fu I* altro, a cui preposto era il gran Già,
: Un gran vascello che a tre palchi avca
Disposti i remi ; c » remiganti tulli
Eran Troiani c giovani c robusti.
Fu ’l gran Centauro il terzo ; e di qiicsl’ era
Sergeslo il capo, clic a la Sergia prole
i Diede principio. L’ ultimo la Scilla
i Guidala da Cloanlo, onde i Cluenli
Trasser nome e legnaggio.
E lungo incontra
A la spumosa riva un basso scoglio
Clic, da’ Rulli percosso, è lalor tulio
Inondato e sommerso. Il verno i venti
Vi lendon sopra un nubiloso velo
Clic ricopre le stelle, c quando è il tempo
Tranquillo, ha ne l' asciutto una pianura
1 Cir è di marini uccelli aprica stanza.
Qui d' un eleo frondoso il segno pose
II padre Enea, (in dove il corso avanti
Stender pria si dovesse, e poi dar volta.
Indi, sorlili i luoghi, al suo ciascuno
Si pose in fila. I capitani in poppo,
Addobbali di bisso c d' ostro c il* oro,
Risplcndcan di lontano : e gli altri lutti,
D* una livrea di pioppo incoronali,
Stavano con le terga ignudi ed unti,
SI che Ira Polio c 'I sol lumiere c specchi
Parean da lungo. E giù ne* bandii assisi,
Tese a* remi le braccia, al suoli Por cecilie,
Aspe ttavano it legno. I cori Dilanio
Palpitando movea disio d’onore,
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LIBRO QUINTO
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jS'cc sic immissis aurigac undonlia loia
Concusscre fughi, proniquc in vcrbcra pendoni.
Tum plausu fremiluque viròtn studiisqtic ravcnlum
Consonai omnc nemus, vocemquc inclusa volulant
l.ilora; pulsali collcs clamore rcsullaul.
EITugil ante alios, primisquc elabitur undis
Turbam inlcr frcmilumquc Gjas; queni deinde Cloonthus
Consequilur, mclior rcrnis; sed pondero piuus
Tarda tencl. Posi hos acque discrimine Prislis
Cenlaurusquc locum lendunl superare priorem.
Et nunc Prislis habel, mine victam pruderli ingcns
f.cniaurus; none una ambae iunclisquc feruntur
Fronlibus, et longa sulcant vada salsa carina.
Iainque propinquubant scopulo, mclarnquc lenebant :
Quum princeps medioque Gyas in gurgile vielor
Rectorem navis coni pellai voce Menodcn :
Quo tanlum milii dexler abis ? bue dirige gressum,
Lilus ama, et laevas stringai, sine, palmula cautcs;
Àllu m alii leticanti Dixit. Sed cacca Mcnocles
Saxa limens, proram pclagi dclorquct ad uudas.
Quo diversus abis ? itcrura: pclc saxa, Menoclc,
Cum clamore Gyas rcvocabal, et ecce Cloanlhum
ltespicil inslanlem (ergo, et propiora (eneniem.
Illc inlcr navemque Gyae scopulosquc sonanlcs
Radil iter laevum interior, subiloque priorem
Praelcril, cl melis tencl aequora luta rcliclis.
Tum vero cxarsil iuveni dolor ossibus ingcns;
Nec lacrimis carucrc genac: segnemque Mcnocleti,
Oblitus decorisquc sui sociòmquc saluti*.
In mare praccipitem puppi deiurbal ab alla;
Ipse gubernaclo rector subii, ipse magisler :
llortaturque viros, clavumque ad litora lorquet.
Al gravis, ut fundo vii tandem redditus imo est,
lam senior, madidaque fluens in veste, Mcnocles
Summa petit scopuli, siccaquc in rupe resedit.
llluin et labcntcm Teucri et risero natanlcm ;
Et salsos ridoni revomenlem pectore fluctus.
Hic lacla extremis spcs est acccnsa duobus,
Sergesto Mneslheique, Gyan superare moranlem.
Sergestus capii ante locum, scopuloquc propinqua! :
Nec tota (amen illc prior praeeunte carina ;
Parie prior; partim rostro premit acmula Prislis.
At media socios inccdens nave per ipsos
Ilortatur Mncsteus : Nunc, nunc insurgile rcrnis,
Heclorci soeii, Troiae quos sorte suprema
Delcgi cnmiles; nunc illas promite vires,
Nunc animos, quibus in Gaetulis syrtibus usi,
lonioque mari, Malcacque sequaeibus undis.
Non iam prima peto Mneslhcus, ncque vincere certo ;
Quamquam o ! — sed supercnt, quibus hoc, Neptunc,
dedisti ;
Eilrcmos pudcl redi isso ; hoc vincile, cives,
Et proliibcle nefas. Olii certaminc summo ,
Procumbunl : vasti* Iremit ictibus aerea puppis,
Sublrahilurquc solurn. Tum creber anhelilus arlus
E timor di vergogna. Avca la tromba
Squillato appena, clic in un tempo i remi
Si tuffòr tulli, c tulli i legni insieme
Si spiccar da le mosse. I gridi al cielo
N' andar de’ marinari. Il mar di schiuma
S* asperse intorno : c *n quadro solchi eguali
Fu con mollo stridor da’ rostri aperto
E da’ remi stracciato. Impeto pari
Non fòr nel circo mai bighe e quadrighe
Da le carceri uscendo, allor eh’ a sciolte
Kd ondeggianti redini gli aurighi
A. volanti deslrier sferzali le terga.
Le grida, il plauso, il fremilo c le voci.
In favore or di questi ed or di quelli.
Tra i curvi liti avvolte, e da le selve
E da’ colli riprese c ripercosse,
Facean l’ aria intronar lino a le stelle.
Nel primo uscire, il primo avauli a tulli
Si vide Già, mentre la gente freme;
E dopo lui Cloonto, clic de’ remi
.Migliore assai, per la gravezza indietro \
Riinanea del suo legno. Indi del pari,
0 di poco infra loro avean contesa
Il Centauro c la Prisli; c quando questa,
Quando quella ero avanti, c quando entrambi
Or le fronti avean giunte ed or le code.
Eran del sasso già presso a In mela,
% E Già buon tratto vincitore avanti
N’andava allor ch’ei se ne vide in alto
Da la ripa piò lungo; onde rivolto
Al suo nocchiero: E dove, disse, andrai
Mende ? Atlienti al lito c radi il sasso:
Vadano gli altri in alto. Ei tuttavia
D‘ urtar temendo, in pelago si mise.
E Già di nuovo: In qua, Mende: al sasso,
Al sasso: a la sinistra, a la sinistra,
Dicco gridando; e vólto indietro vide
di’ avca Cloanto addosso. Era Gloanto
Già tra lo scoglio c la Chimera entrato;
E via radendo la sinistra riva.
Tenne giro si breve e sì propinquo.
Che lui tosto e la meta anco varcando
Si vide avanti il mare ampio c sicuro.
Grand’ ira, gran dolore c gran vergogna
Ne scnll ’l fiero giovane; e piangendo
Di stizza, c non mirando il suo decoro,
Nè che Mende del suo legno seco
Fosse guida e salute, in mezzo il prese,
E da la poppa in mar lungo avvcnlollo.
Poscia, ei nocchiero e capitano insieme,
Diè di piglio al timone, e rincorando
1 suoi compagni, al sasso lo rivolse.
Mencio, che di veste era gravato,
E via più d’ anni, inGno a I* imo fondo
Ricevè ’l tuffo; e risorgendo appena
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DELL' ENEIDE
Aridaquc ora quali! ; sudor fluii undiquc rivis. I
Attuili ipsc tiris optatimi casus honorem.
Namquc furcns animi, dum proram ad saia suburgel
Interior, spalioquc subii Scrgcstus iniquo,
Infclix saiis in procurreutibus haesit.
Concussac cautes : et acuto in murice remi
Obliivi crepuerc, illisaque prora pcpendil.
Consurgunt nautae, et magno clamore moranlur,
Ferralasquc Irudcs el acuta cuspide cnulos
Evpediunt, fraclosque legunl in gurgitc remos.
At laclus Mnistheus, succcssuquc acriur ipso,
Agminc remurum celeri, vcnli-que vocalis,
Prona petit maria, et pelago decurrit aperto.
Oualis spelonca subilo commola columba,
Cui domus et dutres latebroso in pumicc nidi,
Ferlur in aria volans, plousumque eiterrila pennis
Dal ledo ingenlem, mos aere lapsa quieto
Radii iter liquidum, cclcres ncque commovct nlas :
Sic Mnesthcus, sic ipsa fuga secai ultima Prislis
Acquerà, sic Uhm ferì impctus ipsc volanlcm.
El primuni in scopulo luclaulcin dcseril allo
Sergcslum brevibusque vadis, frustraque loranlem
Ausilia, et frartis discenlem currere remis*
Inde Gyan ipsamque ingenti mole Cliimaeram
Consequilur; cedil, quoniam spollaia magislro est. !
Solus iamque ipso superesl in (Ine Cloanlhns,
Quem petit, et summis adniius viribus urgel.
Tum sero ingemmai clamor, cunelique sequeotem
Insti ganl studiis, resona Iquc fragoribus acllicr.
Ili, proprium decus el partum, indignantur, honorem !
Ni lencant; tilamqtie volunl prò laude pacisci.
Ilos successila alil; possunt, quia posse videnlur.
El furs acqualis cepisscnl proemia roslris :
Ni, palmas pomo Icndcns ulrasque, Cloanlhns
Vudissetquc prcccs, divosque in vola vocasset:
Di, quibus Impcrium csl pclagi, quorum aequora curro,
Vobis laclus ego hoc candcmem in lilore laurum
Consliluam ante aras, voti reus, eilaqne salsos
Porriciam in fluclus, el lina liquenlia fundam.
Dilli, cumque imi sub fluclìbus audiitomnis
Nerei'dum Pliorcique chorus; Panopeaquo virgo
El palcr ipsc manu magne Portunus eunlem
Impubi, tlla nolo cilius volucrique sagilla
Ad lerram fugil et portu se condidit allo.
Tum salus Anchisa, cunctis ci more vocalis,
Viclorem magna praeconis voce Cloamhiim
Dechrat, viridique advelal tempora lauro.
Muncraque in nares ternos optare iuvencos,
Vinaquc, el argenti magnimi dal forre lalenlum.
Ipsis praecipuos dudoribiis addii honores :
Viclori chhmydem auralam, quam plurima circum
Purpura Maeandro duplici lleliboea cucurril
intcslusquc pucr frondosa regius Ida
Veloccs iaculo cervos cursuqiic fallgat
Acer, anbclanli siroilis, quem praepcs ab Ida
Itampicossi a lo scoglio, c si coni' era
Molle e guazzoso, de la rupe in cima
Qual bagnalo maslino al sol si scosse.
Mise tulla la genie al suo cadere :
Risc al notare: e più rise anco allora
Che a’ fluiti vomitar gli vide il mare.
Mncstoo intanto e Scrgeslo, clic del pari
Erano addietro, parimente accesi
Su l'indugio di Già preser baldanza.
Sergesio invér lo scoglio uvea 'I vantaggio
Del primo loco: ma non (ulto ancora
Era il suo legno avanti, clic la Pristi
Premea col rostro del Centauro il fianco.
E Morsico confortando I suoi compagni
E 'n su c 'il giù per la corsia gridando,
Via fratelli, dicea, via degni alunni
I)’ Etlorc invitto, via compagni eletti
Al grand’ uopo di Troia. Ora ù mcsliero
Ile* remi, de le forze c del coraggio.
Che a le Sirli, a Cariddi, a la Malta
Mostraste già. Non più vincer contendo,
Che pur dovrei, se pur Mncsleo son io.
Vinca cui ciò da le, Nelluno, 6 dato.
Ma eh' ultimi arriviamo, ab no, fratelli,
Qnesla vergogna; e ciò vincasi almeno
Clic di lauto rossor tinti non siamo.
A colai dir lutti insorgendo, a gara
Stescr le braccia, ed inarcare i dorsi,
E fér per avanzarsi estremo sforzo.
Tremava a i colpi il ben ferralo legno :
Foggia di sollo il mare: ansando i remi
Aprian le asciutte boccile; e spesso i fianchi
Ballendo, a gronde di sudor colavano.
Diè lor fortuna il desialo onore;
Chè, mentre furioso olire si spinge
Scrgeslo, c con la prora arditamente
Rade la ripa, ebbe il meschino intoppo,
Urlando de lo scoglio in una roccia
Che nel mar si sporgea. Scheggiassi il sasso,
Fiaccirsi i remi, si scosceso il roslro;
E d' un lato pendente e scossa tulla
Tremò la nave, e scompigliossi e stette.
I remiganti attoniti, con gridi,
Con ferrale asic, con (ridenti c pali
Slavan spingendo e pnnlellando il legno,
E ripescando i remi. In tanto allegro,
E del successo coraggioso e baldo
Mncstco rado s avanza, c vince il sasso;
E via vogando ed invocando i venti
Fendo a la china ed a F aperto il mare.
Qual d' una grolla, oV aggia i dolci figli
E 'I caro nido, spavenlala in prima
Da.subilo schiamazzo esce rombando,
Ed arrostando una colomba a l' aura,
Glie poi giunta nC campi a l’ acr queto
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LIBRO QUINTO
!»7
Sublimem pedibus rapuil Iovij armìgcr uncis;
Longacvi palmas nequidquam ad sidcra Icndunl
Cuslodes; sacvilque canum latralus in auras.
Al, qui deinde iocum Icnuil virtule sccundum,
Lcvibus buie burnii couscrlam auroque triliccm
Loricam, quani Demoleo detraxerat ipsc
V'iclor apud rapidum Simoenla sub Ilio allo,
Donai baberc Tiro, dccus et lutameli in armis.
\ix illam famuli Phegeus Sagarisque ferebant
Jlulliplicein, conniii buroeris; indulus al olim
Dcmoleos cursu palanles Troas agebal.
Tertia dona facil geminos cs aere Icbclas;
Cynibiaquc argento perfccla, alque aspera signis.
Iamquc adco donali omnes, opibusque superbi,
Puniceis ibanl cvincli tempora lacniis:
Quum saevo e scopulo multa vix arte revulsus,
Amissis remis, alque ordine debilis uno,
Irrisam sino bonore ralem Sergeslus agebat,
Qualis sarp» viae deprcnsus in aggere serpens.
Aerea quem obliquum rota transiil, aut gravis iclu
Scminecem liquit saio lacerumque viator,
Nequidquam longos fugiens dal corporc tortus;
Parte fero.v, ardensque ocuiis, et sibila colla
Arduus atlollens: pars vuincrc clauda rctenlat
Nixantem nodis, seque in sua membra plicantcm:
Tali remigio navis se larda movebat;
Vela facil tamen, et velis subii ostia plenis.
Sergestum Aeneas promisso munere donai,
Servatam ob navoni laetus sociosquc reductos.
Olii serva dalur, opcrum haud ignara Hinervac,
Crossa genus, Plioloè, geminique sub ubere nati.
Quetamenlc per via dritta c sicura
Sen va con P ali immobili e veloci;
Così la Pristi pria travolta e vaga
Venia da seno; indi affilala e stretta
Passò prima Scrgcsto che nel sasso,
Come da vischio rattenuto augello
E spennacchiato, i suoi spezzali remi
Dibattendo, chicdea soccorso in vano.
Poscia spingendo, la Chimera aggiunse
E trapassolla, chè la sua gran mole
E ’l perduto nocchier la fea più lorda.
Sol restava Cloanto: e verso lui
Affilandosi, al fin quasi del corso
Con ogni sforzo il segue, e già P incalza.
Lcvossi al ciclo un’ altra volta il grido
Del favor che Iacea la gente tutta
Perchè i secondi divenisser primi.
Quelli caccia lo sdegno e la vergogna
Di non tener il conseguito onore;
Chè la gloria antepongono a la vita :
Questi il successo inanima e la speme
Di ciò poter; poich* altrui par che possano.
I S’ eran già presso, e pareggiati I rostri
Del pari i premii ovrian forse ottenuti;
Se non eh’ ambe le mani al cielo alzando,
Cotal fece a gli dei Cloanto un voto:
Santi numi del pelago ch’io corro,
Se T corso agevolate al legno mio,
Nel medesimo lito un bianco toro
Lieto consacrerovvi, c de l’ opime
Sue viscere, c di viti limpido c puro
L’ arena spargerovii e I" onde salse.
Furon da P imo fondo i preghi uditi
Del buon Cloanto da la schiera tutta
De le Ninfe di Néreo e di Forco,
E da la Panopéa vergine intana :
E 7 gran padre Portunuo di sua mano
Gli spinse il legno; onde qual vento, o strale
Lanciossi a terra, e si scagliò nel porlo.
Il padre Enea (com’è costume) avanti
Convocati a sè tutti, a suon di tromba
Dichiarò vincilor Cloanto il primo,
E le tempie di lauro incoronògli.
Poscia a ciascuna de le navi in douo
Diè tre grossi giovenchi, e Ire grand’ urne
Di prezioso vino, c di contanti
Un gran talento. Ornò di maggior doni
I primi condottieri. Al vincitore
Presentò di broccato un ricco arnese
Che d’ ostro a’ groppi sopra l’ oro avea
Doppio un lavoro di ricamo e d’ ago.
Nel mezzo entro al frondoso bosco Idèo
Un rcal giovinetto era lcssulo,
Che anelo e fiero con un dardo in mano
Scguia per la foresta i cervi in caccia ;
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DELL’ ENEIDE
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i
!
I
Hoc pius Acncas misso cerlaminc leiulil
Gramincum in campuin, quem collibus undiqne cui vis
Cingcbanl silvac; mediaquc in valle llicalri
Circus crai, quo se multis cum millibus hcros
E poco indi lontano un' altra volta
Era il medesmo da l’ ucccl di Giove
Rapilo in allo ; e i suoi vecchi custodì
E lidi cani lo miravan sotto.
Quegli indarno le mani al ciclo alzando
E questi il muso, ed abbaiando a l'aura.
A P alilo poi, che per valore il primo
Fu per sorte secondo, in premio diede
Per ornamento e per difesa in arme
Una lorica che d’antica maglia,
E di lucente e rinterrato acciaro,
Di massiccio oro avea le fibbie e gli orli.
Questa di Simoenla in su la riva
Sotto V alto Ilio, e di sua propria mano
Tolse al vinto Dcmólco. Era si grave,
Che da Fegeo e da Sògari, due Torli
E robusti sergenti, Ivi condotta
Era stata a gran pena ; e pur in dosso
L’ avea Demóleo il di che combattendo
Mise in quella riviera i Teucri in volta.
I terzi doni due gran nappi foro
Di forbito metallo, e due gran coppe
Di puro argento figurale intorno
Con mirabile intaglio. E giù donali,
E de’ lor doni alteri e festeggiami
Se ne gian tutti di purpuree bende
Le tempie avvinti, e di lentischio adorni ;
Quando ceco da lo scoglio con grand' arte
E con molla fatica appena svelto
Sergesto, col suo legno infranto e monco,
E tarpalo de’ remi in vèr la terra
Se ne venia disonorato e mesto.
Coin’ angue suol, eli* o sia da mola oppresso
Tra la ripa e 'I sentiero, o sia di sasso
Dal vtator percosso o di randello,
Procacciando fuggir, con lunghe spire
S’ arrosta indarno, e inalberalo e fiero
Dal mezzo in suso arde ne gli occhi e fischia;
E, d' altra parte, dilombato e lardo
Dcbilmcnle guizzando, in sè medesmo
Si ripiega, s’ attorce e si raggroppa :
Così co’ remi la fiaccala nave
Se ne già lenta, e con le vele a volo,
Ch' a piene vele al fine in porlo aggiunse.
Ed a Sergesto anco i suoi doni assegna
II padre Enea, di ricovrar contento
Il suo buon legno e i suoi fidi compagni.
E furo i doni una Cretese ancella,
Fóloc di nome, e di tclaro e d' ago
Maestra esperta e da Minerva instrulta,
Giovine e bella, e con due figli al petto.
Questo primo spettacolo compilo.
Enea per gli altri una pianura elegge
Clic di Icalro in guisa d' ogn’ intorno
Un selve e colli, ed un gran circo avanti.
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Ut! ItO QUINTO
IMI
Conscssu medium lulit, czstrucloque rescdil.
llic, qui ferie velini rapido conlcnderccursu,
Imitai pretds animo*, el proemio ponil.
Undique conveniunt Teucri mislique Siami;
Nisus cl Euryalus primi,
Eurjolns Torma insigni* viridique iutcnla,
Nisus amore pio pueri; <pios deinde seculus
llcgiu* egregia Priami de stirpe Lliores;
llune Salius simili el Patron: quorum alter Acarttan,
Alter ab Arcadio Tegcaeae songuinc genlis;
Timi duo Trinacrii iuvenes, Holymus Panopesque,
Assueli siivi*, comite* senioris Accstae;
Multi praeterca, quos fama obscura recondit.
Aeneas quibus in mediis sic deinde loculus:
Accipilc bacc animi*, laelosque advorllle mente*.
Nomo ej hoc numero milii non donalus abibil.
Gnosin bina dabo levato lucida Terrò
Spinila, raelatamque argento Terre bipennem.
Omnibus lite erit unus honos. tres proemio primi
Aceipienl. tlaiaque caput neelenlur oliva:
Primus eqiium phalcris insignem victor Imbolo;
Alter Amnioniam pharetrnm plenamque sagittis
TlireVciia, lato quam circumplectilur auro
Baltcus, el lereli subneclil fibula gemma:
Teriius Argolica bac galea conlentus abito.
Dace ubi dieta, locum capiunt, signoque repente
Corripiunl spatia audito, limcnque rclinquunt,
EITusi nimbo simile*, simul ullima signant.
Primus abil, longeque ante omnia corpora Nisus
Emical, cl venlis et Tulminis ocior ali*.
Proiimus buie, longo sed prosimus intervallo,
Insequitur Salius; spalio post deinde relieto
Teriius Euryalus,
Euryalumquc llelymus sequitur: quo deinde sub ipso
Ecce volai calccmque tcril iam calce Diorcs,
Inciimbcns bumcro; spalla cl si plura stipenditi,
Transeat elapsus prior, ambiguumve relinqual.
lamque fere spatio diremo, fessique, sub ipsam
Finem adventabant; levi quum sanguine Nisus
Labium infcliv; cacsis ut Torte iuvencis
Fusus liuinum viridesque super inadcTeccrat berbas.
llic iuvenis iam victor ovans vestigia presso
llaud tenui! titubala solo; sed pronus in ipso
Concidii immundoque limo sacroquc cruore.
Non lamen Euryali, non ilio oblitus amorum;
Nam sesc oppostili Solio per lubrica surgens;
Ilio. aulem spissa iacuil rerolulus arena,
Emical Euryalus, el munere victor amici
Prima lenel, plausuquc Tolal Tremiluque secundo.
Post llelymus subii, el Dune tenia palma Diorcs.
llic totum caroae consessum ingenlis, et ora
Prima patroni, magni* Sahus clamoribiis implct,
Ereplumquc dolo reddi sibi pnscil honorem.
Tulalur Tavor Euryalum, lacrimaeque decorar,
Grotior el pulrliro tenirns in Torpore virtus.
Ove in un palco alteramente esimilo
Tra molli inila collocassi in mezzo.
Qui prima al corso i corridori invita
Con preziosi premii, c i prendi espone :
E de’ Teucri e de’ Sicoli mostrarsi
I più famosi. Apprescntossi in prima
Eurialo con Niso. liti giovinetto
Ili singoiar bellezza Eurialo era ;
E Niso un di lui Odo c casto amante.
Dopo questi Dioro. Era costui
Del legnaggio di Priamo un rampollo.
Giovine generoso ; c Salio c Palro
Vennero appresso : d’ Atamani» I’ uno,
D' Arcadio l' altro e del Tegéo paese :
E due Siciliani Eliino c Pànope,
Ambedue cacciatori, ambi seguaci
Del vecchio Aceste ; c con questi altri assai
D’ oscura nominanza. A cui nel mezzo
Stando il gran padre Enea, cosi ragiona :
Nissun da me di questa schiera eletta
Andrà senza mici doni, c parimcnlc
Una coppia di dardi avrà ciascuno
Di rilucente acciaro, cd una d' oro
E d'argento commesso a l'arabesca
Non più risia bipenne. I principali
Tre vincitori i primi pregi airanno,
E San tulli d' oliva incoronali.
E T primiero de’ Ire d' un buon destriero
Sarà provvisto ben guarnito c bello.
L' altro avrà d’ un' Amazzone un turcasso
Picn di Trac e saette, un arco d' osso,
Ed un bel cinto, a cui sono ambi appesi,
Cli'han di gemme il fermaglio c d'ùr la Ubbia.
II terzo d’ un'Argolica celala
Se ne vada contento ; e sarà questa.
Ciù dello ; c presi i luoghi, e ’l segno dato,
S' avventàr da la sbarra : c quasi un nembo
L' un da l' altro dispersi, insieme tulli
Volàr, mirando al line. Il primo aranti
Si traggo Niso, c di gran lunga avanti ;
Ch£ va di vento c di saetta in guisa.
Prossimo a lui, ma prossimo d' un trailo
Molto lontano, è Salio. A Salio, Eurialo ;
Eurialo ha di poco Elimo addietro ;
Ad Elimo Dioro appresso tanto
Che già sopra gli anela e già l' incalza ;
E se T corso durava, anco l' crebbe
0 prevenuto o pareggiato almeno.
Eran presso a la mela, cd cran lassi.
Quando ne l' erba, pria di sangue intrisa
De gli uccisi giovenchi, il più fermando
Sinistramente c sdrucciolando, a terra
Cadde Niso infelice, e T volto impresse
Nel sacro loto, sì clic gramo c sozzo
Nc sursc poi. Ma del suo amore intanto
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«00
Adiuval, cl magna proclamai voce Diorcs,
Qui subiil palmac, frustraquc ad proemia vcnil
li Ili ma, si primi Salio rcddunlur honorcs.
Tum paler Acncas, Vestra, inquii, numera vobis
Certa mancnl, pucri, cl palmam mosci ordine nomo:
Me liceat casus miserari iusontis amici.
Sic fatus, tergiim Gaeluli immane leonis
Dal Salio, villis onerosum atque unguibus aureis.
die Nisus: Si tanta, inquii, sunt proemia viclis,
Et le lapsorum ornerei: quae inunera Niso
Digna dabis ? primam merui qui laude coronam,
Ni me, quae et Salium, fortuna inimica tulisset.
Et simul bis diclis facicm ostenlabal, cl udo
Turpia membra limo. Risii paler oplimus olii,
El rlipeum eflerri iussil, Didvmaonis arles,
Nepluni sacro Danais de poste rcfìxum.
Hoc iuvenem egregium pracslauti munerc donai.
Posi, ubi confecti cursus, el dona pcrcgil:
Nunc, si cui virtus animusque in pectore pracscns,
Adsit, et evinclis aliollal bracbia palmis.
Sic ail, et geminum pugnar proponit honorem:
Viclori velalum auro villisque iuvcncum;
Ensetn alque insignem galeam, solatia vieto.
Ncc mora; continuo vastis cum viribus offerì
Ora Darcs, magnoque viròm se murmurc lollit;
Solus qui Paridem solilus contendere contra;
Idcmquc ad lumulum, quo maximus occubat Ilcclor,
Victorcm Bulen immani corporc, qui se
Bcbrycia veniens Amyci de gente ferebal,
Pcrculil, el fulva moribundum cxtendil arena.
ENEIDE
Non obblìossi ; chè sorgendo, intoppo
Si fece a Salio ; onde con esso avvolto
Stramazzò ne l'arena ; c mentre ei giacque,
Eurialo del danno e del favore
S'avanzò de l’amico, c de le grida,
Con che gli dicr le genli animo c forza :
Ond’ ei fu T primo, ed Elimo il secondo ;
Rioro il (erto. E tal fin ebbe il corso.
Ma di rumor se n’ empie e di tenzone
Il circo lutto ; c Salio anzi al cospetto
De’ giudici e de’ padri or si protesta,
Or detesta, or esclama; c del tradito
Suo valor si rammarca, e ragion chiede.
In difesa d' Eurialo, a rincontro,
È *1 favor della gente, c quel decoro
Suo dolce lagrimarc, c quell' invitta
Forza eh* ha la virtù con beltà mista.
Grida Dioro aneli’ egli, e lui sovviene
E sè stesso difende, poicli* il terzo
Esser non può quando sia Salio il primo.
Enea così decise: Aggiate voi,
Generosi garzoni, i pregi vostri:
E nulla in ciò de l'ordine si muti:
Ch'io supplirò con degna ammenda al caso,
Ond'ha fortuna indegnamente afllillo
L’amico mio. Ciò detto, una gran pelle
Presenta a Salio d’un leon Gelùlo,
Ch'ha il tergo irlo di velli e l’unghic d’oro.
E qui Niso: 0 signor, disse, di tanto
Guiderdonate i perditori, c tale
Di chi cade pietà vi pi eude; ed io
Di pietà non son degno nè di pregio,
lo che son di fortuna a Salio eguale,
E di valore a tulli gli altri avanti?
E ciò dicendo, sanguinoso il volto
E livido moslrossi c lordo lutto.
Risc il buon padre Enea; poscia un pregialo
E degno scudo, ch'a le porte appeso
Era già di Nettuno, ed ei riscosso
L’avca da’Grcci, con mirabil arte
Dal saggio Didimàone construtto,
Venir tosto si fece, c Niso armonne.
Finiti i corsi e dispensati i doni,
Or, disse Enea, qual sia che vaglia cd osi
Di forza e d'ardimento, al cèsto invito.
Chiunque accetta, col suo braccio in alto
Si mostri accinto. E, ciò dicendo , in mezzo
Propon due pregi: al vincitore un toro
Di bende il tergo adorno e d’ór le corna:
Un elmo cd un cimiero ed una spada
Per conforto del vinto. Incontanente
Uscio Darete poderoso in campo,
E con gran plauso si mostrò del volgo.
Era Darete un clic di forze estreme
Fu solo ardilo a star con Pari a fronte,
DELL*
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•unito
Talis prima Parca caput allum in prodi» tollit,
Oslcndilque humcros latos, altcrnaque iaclat
Brachi» prolcmlens, et (erborai iclibus aura».
Quacritur buie alius; ncc quisquam ei agininc taniu
Audet adire virum, man'busque induccre ceslus.
Ergo alacri*, cunctosque putans eccedere palma,
Aeneae stetit ante pedes, ncc plura moralus;
Tum lacca taurum cornu iene!, atque ita falur:
Nate dea, si nemo audet se credere pugnar,
Quae finis standi ? quo me decet usque teneri ?
Ducere dona iube. Cuncti simili ore fremebant
Dardanidae, reddique tiro promissa iubebant.
■tic gravi* Enlcllum dictis castigai Acestes,
Proximus ut (iridante (oro consederat licrbae:
Entello, lieroum quondam Tortissime frustra,
Tantalio latn patiens nullo cerlaminc (olii
Dona sines ? Ubi nunc nobis deus illc magister
Nequidquam memoratus Eryx ? ubi fama per omnem
Trinacriam, et spolia illa tuia pendentia tcclis ?
Illc sub baco: Non laudis amor, ncc gloria cessi!
Pulsa melu: sed onim gelido* tardante senecla
Sanguis hebet, Trigentque elTclae in corporc vires.
Si mihi, quae quondam fucrat, quaque improbus iste
Exsullat fidens, si nunc Torel illa iuventas:
llaud equidem prelio inductus pulchroquc imeneo
Venisscm; ncc dona moror. Sic deinde locutus
In medium gemino* immani pondero ccstus
Proiecit, quibus accr E rei in proelia suetns
Ferro manum, duroque intendere brachi» tergo.
Obslupuerc animi: tantorum ingenlia septem
Terga boum pluinbo insulo fcrroque rigebant.
Ante omnes slupel ipse Dares, longequc recusal;
Magnanimusque Anchisiadcs et pondus et ipsa
lluc illue tinclorum immensa columina versai.
Tum senior tales reTerebat pectore voces:
Quid, si quis ceslus ipsius et llerculis arma
Vidisset, tristemque hoc ipso in lilorc pugnam?
llacc germanus Eryx quondam luus arma gcrcbal.
Sanguine ccrnis adirne Tractoque infecla ccrebro.
His magnum Alcidcn conira stetit; bis ego suelus,
Dum mclior vires sanguis dabat, acmula needum
Temporibus geminis cancbat sparsa sencctus.
Sed, si nostra Dares hacc Trolus arma recusal,
Idque pio sedei Aeneae, proba! auctor Acestes,
Aequemus pugnas. Erycis libi terga remino;
Solve melus; et tu Troianos cxue ceslus.
Haec fatus, dupliccm ex liumeris reiecil amictum.
Et magnos membrorum arlus, magna ossa laccrlosquc
Exuit, atque ingcns media consislit arena.
Tum salii* Anchisa ceslus pater exlulit acquos,
Et paribus palma* amborum innexuit armis.
Constiti! in digilos exlemplo arrcctus uterque,
Bracbiaque ad superas inlerrìtns cxlnlit aura*.
Abduxerc retro longc capila ardua ab irlu;
Immiscenlque manus manibus, puguamque laecssunt,
Virgilio rat. muco.
QUINTO IDI
E che a la tomba del ramoso Ellorrc
In su l'arena il gran Butc distese:
E Tu Buie un atleta, ami un colosso
Di corpo immane, che in Bebrizia nato ,
D'Amico si cantava esser disceso.
Per tal da tutti avuto e tal comparso
In su la lizza, altero ed orgoglioso
Squassò la testa: e i grondi omeri ignudo
Le muscolose braccia c T corpo tutto
Brandi più volle, e menò colpi a l'aura.
Ccrcossi un pari a lui, nò Tu tra tanti
Chi rispondesse, o che di cèsto armalo
S'apprcsentasse. Ond'ci lieto e sicuro,
Come d'ogni temoli libero fosse,
Al loro avvicitiossi, c il destro corno
Con la sinistra sua gli prese, e disse:
Signor, poiché non è chi meco ardisca
Di star a prova, a ette più bado? e quanto
Badar più deggio? Or di' che T pregio è mio
Perch'io meco l'adduca. A ciò fremendo
Assentirono i Teucri; e giù co'gridi
De l'onor lo faccan degno e del dono;
Quando verso d'Entcllo il vecchio Accste,
Si com'egli era in un cespuglio a canto.
Si volse, e rampognando: Ah, disse. Entello,
Tu serpur fra gli eroi dc’nostri (empi,
Il più nolo e il più forte; c come soffri
Ch'un si gradilo pregio or ti si tolga
Senza contesa? Aduuquc i stalo in vono
Fin qui da noi rammemoralo e colto
Erice, in ciò nostro maestro edio?
Oc' è lo fama tua clic ancor si spande
Per la Trinacria tutta? Ove son tante
Appese a i palchi tue famose spoglie?
Dispose Entello: Ni desio d'onore,
N'è vaghezza di gloria unqua, signore,
Mi lasciàr mai, nò mai viltà mi prese;
Ma l'incarco de gli anni, il freddo sangue,
E la scemata mia destrezza c forza
Mi ritraggono addietro. Io quando avessi
0 men quei giorni, o non mcn quel vigore,
Onde costui di sé tanto presume.
Già per diletto mio seco alle mani
Sarei venuto, c non dal premio indotto,
Chò premio non ne chero. 0 pur qui sono,
Disse, c sorgendo, due gran césti c gravi
Gillò nel campo, e quelli stessi, ond’era
Solilo a le sue pugne Erice armarsi.
Stupir lutti a quell'armi; che di sette
Dorsi di sette buoi, di grave piombo
E di rigido Terrò eran conserte.
Stupì Darete in prima, e ricusollc
A viso aperto, onde d'Anchisc il figlio
Le prese avanti, c i lor volumi c 'I pondo
Slava mirando, quando il vecchio Entello
U
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102
DELL* ENEIDE
lite pedum melior molu, fretusque iurenta,
Hic membris et mole vnlens: sed larda Iremenli
Gcnua labanl: vaslos qualil aeger anhelilus artus.
Multa viri nequidquam inter se vulnera iaclanl,
Mulla cavo lateri ingeminant, et pectore vastos
Dani sonilus: erralque aurea et tempora circum
Crebra manus, duro crepitio! sub vulnere malae.
* Stai gravis Enlellus, nisuque immotus codem
Corpore tela modo atquc oculis vigilantìbus exit.
Ilio, velul celsam oppugnai qui molibus urbem
Aut montana sedei circum castella sub armis,
None hos, nunc illos aditus, omnemque pererrat
Arte locum, et vari» adsultibus irritus urget.
Ostendit dexlram insurgens Enlcltus, et alte
Extulit: ille ictum venientem a vertice veloi
Praevidil, celerique elapsus corpore cessiti
Entellus vires in ventum effluii!; et ultro,
Ipse gravis grnvilerque, ad terram pondere vasto
Conoidi: ut quondam cava concidii aut Erymantho,
Aut Ida in magna, radicibus eruta pinus.
Consurgunt sludiis Teucri et Trinacria pubes;
Il clamor coelo, primusque accurril Acestes,
Aequacvumque ab humo miscrans alloliil amieum
Al, non tardalus casu ncque lerritus, heros
Acrior ad pugnam redi!, oc vim suscitai ira;
Tum pudor inccndit vires et conscia virtus;
Praeciplemque Parco ardens agii acquore loto,
Nunc dexlra ingeminans ictus, nunc ille sinistra.
Nec mora, nec rcquics. Quam mulla grandine nimbi
Culminibus crepitanti sic densis iclibus heros
Crcber ulraque manu pulsai versatque Parola.
Tum pater Acneas procedere longius iros,
Et saevire animis Eulellum haud passus accrbis;
Sed flnem imposuil pugnae, fessumque Darela
Eripuit, mulcens diclis, ac lalia futuri
Infelix, quao tanta animum demenlia ccpit ?
Non vires alias conversaquc numina 6enlis ?
Cede deol Dixitquc, et proelia voce diremit.
Ast illuni fidi aequales, gcnua aegra trahentem,
lactantemque utroque caput, crassumque cruorcm
Ore ciectanlcm, mixtosquc in sanguine denles,
Ducunl ad naves; galeamque ensemque vocali
Accipiunt: palmam Entello taurumque rclinquunl.
Hic viclor, superans animis, tauroque superbus:
Nate dea, vosque liacc, inquii, cognosoite, Teucri,
Et milii quac fuerint iuvenali in corpore vires,
Et qua servetis revocalum a morte Darela.
Dixit, et adversi contra stctil ora iuvenci,
Qui donum adstabat pugnae; durosque reducla
Libravi! dcxlra media inter cornua cestus
Arduus. cflìaotoque illisi! in os a cerebro.
Slernilur, exanimisque tremens procumbit fiumi bos.
Ille super lalcs eflundit pectore voces:
Mane libi, Eryx, meliurcm animam prò morte Parclis
Persolvo; hic viclor ceslus artemque repono.
Cosi soggiunse: Or che dirla costui
Se visto avesse i césti e Tarmi stesse
D’Èrcole invitto; e l'infelice pugna,
Onde in su questo lito Ericc cadde?
P’Erice tuo fratello eran questuarmi.
Vedi che sono ancor di sangue infette
E d’umane cervella. Il grande Alcide
Con queste Ericc assalsc: c con quest'io
M'esercitai, mentre le forze e gli anni
Eran più verdi, e non canuti i crini.
Ma poscia che Darete or le rifiuta,
Se piace a te, se mol consente Accstc
Per cui son qui, di ciò. Troiano ardilo,
Non vo’chc ti sgomenti. Io mi rimetto,
E cedo a queste, c tu cedi a le tue.
Combattiam con allr’armi, c siam del pari.
Così detto, spogliossi: e sì com’era
De le braccia, de gli omeri c del collo
E di lutto le membra c d'ossa immane,
Quasi un pilastro in su l’arena stelle.
Allor Enea fece due cèsti addurre
D'ugual peso e grandezza; ed egualmente
Ne furo armati. In prima in su le punte
De’piè l’un contra l’altro si levaro:
Brandir le braccia; riliràrsi in dietro
Con le teste alte: in guardia si posaro
Or questi or quelli; al fine ambi ristretti
Mischiàr le man', cd a ferir si diero.
Era giovine l’uno, agile c destro
In su le gambe; era membruto c vasto
L’altro, ma fiacco in su'ginocclii c lento,
E per lentezza (il fiato ansio scolendo
Le gravi membra e TaCTannala lena)
Palpitando n’andava. In molle guise
In vnn pria si tenlaro, e molle volle
S'awìsér, s’accennaro c s'invesliro.
A le piene percosse un suon s’udta
Dc’cavi (lancili, un rintonar di petti,
lln crosciar di mascelle orrendo e fiero.
Cadean le pugna a nembi, c vèr le lempie
Miravan la più parie; c s’eran vóte,
Bombi facean per l’aria c fischi c vento.
Slava Entello fondato, e quasi immolo
Poco de la persona, assai de gli occhi
Si valca per suo schermo. A cui Darete
Girava intorno, qual chi ròcca oppugna,
Quantunque indarno, che per ogni via
Con ogni arte la stringe c la combatte.
Alzò la destra Entello, ed in un colpo
Tutto s’abbandonò contra Darete;
Ed ei, che lo previde, accorto e presto
Con un sotto schivollo; onde ne l’aura
Percosse a vóto, e dal suo pondo stesso
E da T impeto tratto a terra cadde.
Tal un allo, ramoso, antico pino
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LIBRO OLINTO
103
Prolenus Acncas celeri cenare sagilla
Invitai, qui forte velini, et praemia poni!;
Ingenlique manu malum de nave Scresli
Erigii; cl volucrcm traicelo in fune columbam,
Carco de' gravi suoi pomi si svelle
I)' un cavo greppo, e con la sua riiina
D' Ida una parte, o d’ Erimanto ingombra.
Allor gridò, gioì, temè la gente,
Siccom' cran de' Sicoli e de' Teucri
Gli animi e i voli a i due compagni affetti
Le grida al elei ne giro. Acesle il primo
Corse per sollevare il vecchio amico ;
Ma nò dal caso ritardalo Kutello,
Nò da tema sorpreso, in un baleno
Risurse c più spedito e più feroce ;
Citò T ira, c la vergogna e la memoria
Del passato valor forza gli accrebbe.
Tornò sopra a Darete, e per lo campo
Tulio a forza di colpi orrendi e spessi
Lo mise in volta, or con la destra in alto,
Or con la manca, senza posa mai
Dargli, nò spazio di fuggirlo almeno.
Non con si folla grandine percuote
Oscuro nembo de' villaggi i tetti,
Come con infiniti colpi e fieri
Sopra Darete riversossi Entello.
Allor il padre Enea, l' un ritogliendo
Da maggior ita e f altro da stanchezza
E da periglio, entrò nel mezzo ; e prima
Fermato Entello, a consolar Darete
Si rivolse dicendo : e che follia
Ti spinge a ciò ? Non vedi a cui contrasti ?
Non senti e le sue forze c i numi avversi f
Cedi a Dio, cedi : e, cosi detto, impose
Fine a T assalto. I suoi fidi compagni
Cosi com' era afflitto, infranto e lasso,
Col capo spenzolato, e con la bocca,
Che sangue insieme vomitava e denti.
Lo porlaro a le navi ; e fu lor dato
L'elmo, il cimiero c la promessa spada.
Rimase al vincitor la palma c 'I toro.
Di che lieto c superbo : 0 de la dea,
Disse, famoso figlio, e voi Troiani,
Quinci vedete qual ne’ miei verd' anni
Fu la mia possa, e da qual morte aggiale
Liberalo Darete. E, ciò dicendo,
Recossi anzi al giovenco, e 'I duro cèsto
Gli vibrò fra le corna. Al fiero colpo
S‘ aperse il teschio; si schiaeciaron l’ ossa,
Schizzò 'I cervello; e T bue tremante e chino
Si scosse, barcollò, morto cadò.
Ed ci soggiunse : Erice, a le quest' alma
Più degna di morire offrisco in vece
Di quella di Darete ; e vincitore
Qui 'I còsto appendo, e qui l’ arte ripongo.
Immantinente Enea l'altra contesa
Propon dell' arco, c i suoi prendi dichiara.
Ma l' albero condur pria de la nave
Fa di Scrgcslo, c ne l' arena il pianta :
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104
LELL’ ENEIDE
Quo tendoni fcrrum, malo suspcndil ab allo.
Contenere viri, dcicclomque aerea sortem
Accepii galea; el primus clamore secondo
Hyrtacidac aule omnes exit locus Hippocoonlls;
Qucm modo novali Mnestheus certamine viclor
Conscquitur, viridi Mnestheus evinclus oliva;
Terlius Eurytion, luus, o clarissime, fralcr,
Pandare, qui quondam, iussus contundere foedus,
In medio* teloni lorsisli primus Achivos;
Exlrcmus galeaque ima subsidit Accstes,
Ausus cl ipse manu iuvenum lenlarc laborcm.
Tum vulidis flcxos incurvanl viribus arcus
Pro se quisque viri, et depromunt tela pharetris.
Primaque per eoelum nervo striderne sagiita
llyrladdae iuvenis volucres diverberat anras;
Et venit, adversique inflgilur arbore mali.
Intremuil malus, timuitquc ex ter ri la pennis
Ale*, et ingenti sonuerunt omnia plauso.
Post ocer Mnestheus adducto constilit arco,
Alla pclcns, parilerquc oculos telumque telcndìl:
Asl ipsam miserandus avem conlingerc ferro
Non valuil; nodo» et vincola linea rupil,
Quis inoexa pedoni malo pendebat ab allo:
Ilio Nolos atquc alro volans in nubila fugil.
Tum rapidus, iamdudum arcu contenta paralo
Tela lenona, fralrcm Eurytion in vola vocavil,
Ioni vacuo laelnm coelo speculatus; et alis
Plaudentem nigra flgit sub nube columbam.
Decidi! cxanimis, vitamque relinquil in aslris
Aelhcriis, fìxamque refert delapsa sagillam.
Amissa solus palma superabat Acesles:
Qui tamen aérias teloni contendil in auras,
Ostentali* arlemque pater arcumquc sonanlcm.
llic oculis subilum obiicitur magnoque fulurum
Augurio monslrum; docuil post exitus ingcns;
Seraque Icrriflci cecinerunt omina vates.
Namque volans liquidis in nubibus arsii arundo,
Signa' ilqtic \iam flammis, lenuesquc recessi!
Consumta in venlos: coclo ceu saepe rcGxa
Transcurrunt crinemque volantia sidera ducunt*
Allonilis haescrc animi*, Supcrosquc precali
Trina crii Teucriquc viri. Noe maximus omcn
A bruii! Aeneos; sed laclum amplcxus Accslcn
Aluncribtis cumulai magnis, ac lalia fallir :
Sumc pater; nam tc voluti rcx magnus OJympi
Talibus auspiciis nxsorlem ducere honorem.
Ipsius Ancliisac longacvi hoc munus habebis,
Cralera impressum sigiti*: qucm Thracius olim
Anrhisae genitori in magno munerc Cisscus
Terre sui dederat monumenlum et pignus amori*.
Sic falli* cingil v iridanti tempora lauro;
Et primum ante omnes viclorem appellai Acestcn.
Nee bonus Eurytion praelalo invidi! Iionori;
Quamvis solus avem coclo deiecit ab alto.
Proximus ingrcdilur doni*, qui vincula rupil;
Suvvi una fune, c ne la fune appende
Una viva colomba, e per bersaglio
La poti de le saette c de gli arcieri.
| Tèrsi i più chiari avanti, e i nomi loro
I Del fondo si cavàr d’ un elmo a sorte.
Uscio primiero Ippocoonle, il figlio
D* Irlaco generoso, a cui con lieto
Grido la gente appiause. A Ini secondo
Fu Mneslco, che pur dianzi il pregio ottenne
Del navsl corso : c Mneslco, si com’era
Di verde olivo incoronalo, apparve.
Apparve Eurizio il terzo ; ed era questi
Minor, ma ben di tc degno fratello,
Pandaro glorioso, che de’ Teucri
Rompesti i patti, c saettasti in mezzo
A T oste Greca il gran campione Argivo.
Ultimo si restò de I' elmo in fondo
Il vecchio Accstc, che sì vecchio anch’ egli
Ardi di porsi a giovenil contrasto.
Tesero gli archi, c trasser le quadretta
Da le faretre. A tutti gli altri avanti
D' Irlaco il figlio a saettare accinto
Col suon del nervo c del pennuto strale
1/ aura percosse, e si dritto fcndella
Clic T albero investi. Trcmonne il legno,
Spavenlossi l’augello; e d’ alte grida
Risuonò il campo c la riviera Inda.
Mneslco vien dopo, c pon la mira, e scocca:
E ’l misero fra’ piè colpisce appunto
In su la corda, e ne recide il nodo.
Libera la colomba a volo alzossi,
E per lo cicl veloce a fuggir diessi.
Eurizio allor, eh* avea giù l’ arco teso
E la cocca in sul nervo, al suo fratello
Votassi, c trasse; c nc lo nubi stesse
( SI come lieta se ne giva e sciolta )
La ferì si che con lo strale a terra
Cadde trafitta, c lasciò l’alma in cielo.
Sol vi reslava Acesle, a cui la palma
Era giù tolta; ond* ci scoccò ne I’ allo
Lo strale a vólo, e la destrezza c l’ arte
| Mostrò nel gesto c nel sonar de P arco.
Quinci subitamente un mostro apparve
Di meraviglia c di portento orrendo,
Come si vide, c come interpretato
Fu poi da formidabili indovini.
Chè la saetta in su le nubi accesa
Quanto volò, tanto di fiamma un solco
Si trasse dietro, infin eh’ ella nel foco
E ’l foco in aura dileguossi c sparve.
Tal sovente dal cicl divella cade
Notturna stella, c trascorrendo lascia
Dopo sè lungo c luminoso il crine.
A questo augurio attoniti i Si cani
E i Teucri tulli, umilementc a terra
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LIBRO QUINTO
«05
Evlrcmus, volturi qui (hit arundinc malum.
Al pater Acneas, nondum cerlaminc misso,
Custode!» ad sesc comltemquc impubi; luti
Epytiden voeal, cl fidam sic latur ad aurem:
Vado, ago, et Aseanio, si iam puerde paralum
Agmen (label situiti, cursusque inslruxil «quorum,
Duca! avo turmas, cl sesc oslcndal in armis,
Die, ail. Ipse omnem longo decedere cirro
Infusum popuium, el campos iubet esse palenles.
Incedimi pueri, parilerque ante ora parcnlum
Frctialis lucenl in equis: quos omuis cuntes
Trinacriae mirala fremii Troiaeque iuvenlus.
Omnibus in morem lonsa coma pressa corona;
Cornea bina ferunl praefixo hastilia ferro;
Pars leves Numero pharclras; il pectore sumtno
Flcxilis oblorli per collum circulus auri.
Trcs equilum numero lurmac, Icrnique vaganlur
Duclores; pueri bis seni quemque seculi
Agminc parlilo fulgent, paribusque magislris.
Una acies iuvenum, duiil quam parvus ovanlcm
Nomcn avi referens Priamus, tua clara, Polito,
Progeuies, auctura llalos: quem Tliracius albis
Porla! cquus bicolor maculi;; vestigio primi
Alba pedis, fronlcmquc oslcnlans arduus albam.
Alter Atys, gonus unde Atii duzere Latini;
Parvus Atys. pueroque pucr dileclus luto.
Eilremus, formaque ante omnes pulcher, Iulus
Sidonio est inveelus equo, quem candida Dido
Esse sui dederat monumento!» el pignus amoris.
Celerà Trinacriis pubes senioris Aceslac
Fcrlur equis.
Evcipiunl plauso pavidos, gaudcnlquc luenlcs
Dardanidae; velerumquc agnoscunt ota parenlum.
Poslquam omnem laeli consessuni oculosque suorum
Luslravcrc in equis: signum clamore parali;
| Gitlàrsi, ed a gli dii pace chiederò.
. Solo Enea per sinistro e per infausto
Non l' ebbe; e T vecchio Aceslc, che gioioso
Era di ciò, gioiosamente accolse,
E molli doni apprcsenlogli, e disse:
Prendi, padre, da me questi che scevri
Da gli altri onori a le destina il ciclo
Con questi auspicii, e questa coppa in prima,
Un de' più cari a me paterni arredi,
E caro e prezioso al padre mio,
E per l' intaglio c per la rimembranza
Del buon re Cisso, che fra gli altri doni
Questo in Tracia gli diè pegno e ricordo
De l’ amor suo. Cosi dicendo, il fronte
Gli ornò di verde alloro, e dichiarollo
Vincitor primo. Nè di ciò sentissi
Il buon Eurizio offeso, ancor eli’ ci solo
Fosse de la colomba il feritore.
Di lui fu poscia il guiderdon secondo.
Chi recise la corda ottenne il terzo;
E l’ ultim' ebbe chi conOssc il legno.
Non era ancor questa contesa al One,
Quando in disparte Epitidc chiamando
Un che di luto era custode c guida,
Va' , gli disse a l' orecchio, c fa' che Aseanio
Si spinga avanti, se le schiere in punto
Ha de' fanciulli, c ch'armeggiando onori
La memoria de f avo. Impone intanto
Che la gente s' apparti, c il circo tutto
Quanto è largo si sgombri c quanl’ è lungo.
Già si mettono in via; giù nel cospetto
Vengo» de’ padri i pargoletti eroi
Su frenati deslricr lucenti c vaghi.
Solo a veder gli abbigliamenti c i gesti
Ne sta di Troia e di Sicilia il volgo
Maraviglioso, e ne gioisce c freme.
Parie ha di loro una ghirlanda in lesta,
E sotto accollo e raccorciato il crine;
Parte ha l'arco e T turcasso, c d'oro un fregio
Che da le spalle attraversando il petto
Scn va di serpe attorcigliato in guisa.
Eran tutti in tre schiere; avean tre duci,
E ciascun duce conducea di loro
Tre volle quattro, c 'n tre luoghi sparliti
Faccan pomposa ed ordinata mostra.
L' una do le tre schiere avea per capo
Priamo novello, di Polite il figlio,
E di cui nome avea nipote illustre:
Grand'acquisto d' Italia. Il suo desinerò
Era nato di Tracia, d' un mantello
Vario, balzan d* un piè, stellalo in fronte.
Ali fu l' altro, onde i Latini han dato
Nome a l' Alia famiglia: un fanciul caro
Al garzoncllo luto. luto il terzo,
Sia di bellezza c di valore il primo,
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106
DELL' EMIDE
F.pytides longc dcdil. insonuitque flagello.
Olii discorrere pares, alque agniina terni
Diductis solvcre choris, rursusque vocali
Converlcre vias, iufestaque tela tnlere.
Inde alios ineunt cursus aliosqoe rcciirsus
Advcrsis spatiis, alternisquc orbibus orbes
Impollinili, pugnaeque cicnt simulacra sub armisi
Et nunc terga fuga nudali!, nunc spicula vernini
Infensi, facla parilcr nunc pace fcrunlur.
l'I quondam Creta ferlur Labyrinlhus in alla
Paricllbus lexlum cacsis iter ancipitemquc
Mille viis habuìssc dolum, qua signa sequendi
Fallerei indeprcnsus et irremeabibs errori
Haud alio Teucròm nati vestigia cursu
Impediunt, lexuulque fugas et proelia ludo,
Delphinum siniiles, qui per maria humida nando
Carpathium.Libycumquc secanl, luduntquc per undas.
Dune inorem, hos cursus, atquc bore certamina primus
Ascanius, Longam muris quum cingerei Albam,
Betulit, et priscos docuil celebrare Lalinos,
Quo puer ipse_modo, secum quo Troia pubes.
Albani docucre suos; bine maiima porro
Accepil Homa, et potrium servavi! honorem,
Troiaquc nunc, purri Troianum dicitur agmen.
Ilac celebrata lenus sanclo certamina patri.
Uic primum Fortuna fidem mutata novavit.
bum variis tumulo rererunt solemnia ludis;
Irim de coelo misi! Saturnia Iuno
Iliacam ad classem, venlosquc adspiral eunti,
Multa movens, needum antiquum saturata dulorem.
Ilio, viam celerans per mille coloribus arcum,
.Nulli risa, cito decurrit tramile virgo.
Conspicit ingentem concursum, et I i torà lustrai,
Dcsertosquc videi portus closscmque relietam.
At procul in sola secretae Troadcs acta
Amissum Ancbisen flebant, cunctacque profundum
Pontum adspectabant flentes. Hcu I tot vada fessis,
Et tantum supcrcsse maris I vox omnibus una.
Urbcm oranl; taedel pclagi perferre laborcm.
Cavalcava un corsiero, il qual Sidonio
Era di rana, e da la bella Dido
L' area per un ricordo e per un pegno
De l' amor suo. Gli altri fanciulli lutti
Eran d’ Aceste in su' cavalli essisi.
Con gran letizia, e con gran plauso i Teucri
Gli ricevèr, come che timidetti
Fossero in prima; e le sembiante in toro
Avviserò e 'I valor de' padri stessi.
Poscia che passeggiando al circo iulorno
Giràrsi in lenta c gratlosa mostra.
Si disposero al corso; c mentre accolli
Se ne stavano a ciò schierati in Ala
Da l' un de' capi, Epilide dall' allro
Diè lor col suon de la sua sferta il cenno.
Corsero a tre per tre, pari e disgiunti
I,’ una schiera da I’ altra, c rivolgendo
Tornàr di dardi e di saette armati.
Indi a cacciarsi, a rincontrarsi, a porsi
In varie assise, ad uno ad uno, a molli,
A tutti insieme, a far volle c rivolte,
E giri e mischie in più modi si diero:
Or fuggendo, or seguendo, or come infesti,
Or come amici. In quante guise a tufTa
Si viene in campo; in quante si discorre
Per le molle intricate e cicche strade
Del Labcrinto che si dice in Creta
Esser costrutto; in tante s' eggiraro,
Si confusero insieme, o si spartirò
De’ Teucri i Agli; e tali anco i delfini
Per l' Ionio scherzando, o per I' Egeo
Fan giravolte e scorribande c tresche.
Questi tornéamcnli e queste giostre
Rinnovò poscia Ascanio, allor eh' eresse
Alba la lunga: appresegli i Latini;
Gli manlenncr gli Albani; e d' Alba a Roma
Fur trasportati, e vi son oggi; e come
È I’ uso e come i giuochi derivati
Son da Troiani, hanno or di Troia il nome.
Questi eran Ano a qui del santo vecchio
Celebrati al sepolcro onori c ludi;
Allor che la Fortuna a i Teucri iniida
Un nuovo storpio a gl’ infelici ordlo:
Chè mentre erano in ciò parte occupati,
E tutti intesi, la Saturnia Giuno
Da l’ antico odio spinta, e de’ lor danni
Non ancor sazia, Iri coi venti in prima
Venir si fece; e poiché iostrutla l' ebbe
Di ciò eh' er’ uopo, a la Troiana armala
Le commise che andasse. Ella veloce
Infra i mille suoi lucidi colori
Occulta ed invisibile calossi.
Vide sul lilo una gran gente accolta
Da l'un de'lali; il porto abbandonato
Da l'altro, e vóti e senza guardia i legni.
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UBRO QUINTO
H'7
Ergo inler medias sese haud ignara nocendi
Coniicit, el faciemquc deac vcstomque rcponil;
Fil Beroc, Tmarii coniux longocva Dorycli;
Cui gcnus, el quondam nomcn, natiquc fuissent; 4
Ac sic Dardanidum mediana se malribus inferi :
0 miserae, quas non manus, inquii, Achaica bello
Traxerit ad lelun patriac sub mocnibus l o gens
Infelix, cui le exilio Fortuna resemi?
Septima post Troiae excidium iam verlitur aestas,
Quum frela, quum lerras omnes, tot inhospila sax a,
Sideraquc emensae ferimur; dum per more magnum
Italiani sequimur fugicntem, et volvimur undis.
Ilic Erycis fìnes fraterni, alque hospcs Accsles.
Quid prohibet muros iaccre, el dare civibus urbem ?
0 pall ia, el rapii uequidquam ex hoste Penales;
Nudane iam Troiae dicentur mocnia ? nusquam
Ilectoreos amnes, Xanlhum et Simoénla, videbo?
Quin agile, et mecum infauslas exurite puppes.
Nam mihi Cassandrae per somnum valis imago
Ardenles dare visa faces: Ilic quaerile Troiaio;
Iiic doniti* est, inquii, vobis. Iam (empus agi rcs;
Nec lantis mora prodigiis. En qualuor arac
Nepluno. Deus ipsc faces animumque ministrai.
Haec memorans, prima infensum vi compii ignem,
Sublalaquc procul delira connixa coruscal,
El iacit. Arrcclae mente*, stupefactaque corda
Iliadum. Ilic una c multis, quae maxima natu,
Pyrgo, lol Prismi nalorum regia nulrix:
Non Beroc vobis, non haec RhoeleTa, malres,
Est Dorycli coniux: divini signa dccoris,
Ardenlesquc notale oculos; qui spiritus illi,
Qui vullus, vocisve sonus, voi gressus etmli.
Ipsa egomcl dudum Beroén digrossa reliqui
Acgram, indignantem, tali quod sola carerei
Muncrc, nec merilos Ancbisae inTcrret honorcs.
Haec HTala.
Al malres primo ancipilcs, oculisque malignis,
Ambiguac, spedare rales, miserum inler amorem
Praescnlis lerrac, fatisque vocanlia regna:
Quum dea se paribus per coelum sustulit alis,
Ingcnlemque fuga sccuit sub nubibus arcum.
Tum vero allonitae monslris aclaeque furore
Conclamant, rapiunlque focis pcnctralibus ignem;
Pars spoliant aras, frondem ac virgulta facesquc
Coniiciunt. Furit immissis Vulcanus habenis
Transira per et remos, et pietas abicle puppes.
Nunlius Anchisae ad tumulum cuneosque theatri
Incensas perfori naves Eumelus, et ipsi
Respiciunt alram in nimbo volitare faìillam.
Primus et Ascanius, cursus ut laetus equestres
Ducebat, sic acer equo turbata petivit
Castra; nec exanimes possunt relinere magistri.
Quis furor iste novus ? quo nunc, quo lenditis, inquii,
Heu miserae cives ? Non hostem inimicaquc castra
Argivùm, veslras spes urilis. En, ego vester
Vide poi che da gli uomini in disparte
Slaian le donne d’ilio, il morto Anchise
Piangendo anch’esse; e ne'lor pianti il mare
Mirando: Oli, diccan tulle, ancor di tanto,
E con tanti perigli e tanti affanni
Ne resta a navigarlo, e siam già viole
Da la stanchezza! in ciò desìo mostrando
Di ricelto e di posa, e lema e tedio
Di rimbarcarsi. Ella, clic a nuocer luogo
E tempo vide accomodato e atto,
Deposto de la dea l’abito e ’l volto,
Tra lor si mise, e Beroc si fece:
Una vecchia d'aspetto c d’anni grave,
Clic del Tmario Dotìclo era già moglie,
Di famiglia, di nome e di figliuoli
Matrona illustre, e tal sembrando disse:
0 mcschinclle, a cui per man de’Greci
Non fu sotto Ilio di morir concesso,
Gente infelice, a che strazio , a che scempio
La Fortuna yì serba I Ecco già volge
Il sellini' anno da che Troia cadde,
Che ’l mar, la terra, il del, gli uomini, i sassi
Avete incontro, e pur Lazio seguile
Clic vi fugge d’avanti? Or che vi toglie
Di qui fermarvi? Nonfur questi liti
D’un già frale d’Enea? Non son d’Aceste
Ospite nostro? E perchè qui non s’erge
1 a città che dal cicl ne si destina?
0 patria I o da’ nem ci invan ritolti
Santi numi Penati I Invano adunque
Aspetterem de la novella Troia
Le desiate mura? c non da mai
Che più Xanlo leggiamo o Simoénla?
Su, llglie, mano al foco; e queste infauste
Navi ardete con me; ch’io da Cassandra
Di così far son ammonita in sogno.
Ella con uu’ardenle face in mano
Questa notte ni’apparvc, e m’era avviso
D’csser com'or son vosco, e ch’ella, vòlta
Vèr noi, prendete, ne dicesse, e Troia
Cercale qui; chè qui posar v’è dato.
Or questa è nostra patria, c questo è’1 tempo
Di compir I opra che’! prodigio accenna.
Più non s’indugi. Ecco Nettuno stesso
Con questi quattro a lui sacrali altari
Nc dà l’occasiou, l’animo e ’l foro.
Ciò disse ; cd ella in prima un lizzo ordenle
Rapì da Pare; c'I braccio allo vibrando
Hi più l'accese, e vèr le navi trasse.
Confuse ne restaro c stupefatte
Le donne d’ilio; e Pirgo una di loro,
Ch’era d'anni maggiore, e fu di molti
Figli del gran re Priamo nutrice,
Donne, disse, non è, non è cosici
Nè Troiana, nè Beròe, nè moglie
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108
DELL' ENEIDE
Ascanius. Calcarti arile pcdes proiecil Inancm,
Qua ludo indulus belli simulacra cicbal.
Accelerai simul Attica», siimi) agmina Tcucròm.
Ast illac ditersa nielli per lilora passim
DilTugiunl; silvasquc cl sicubi coucava rurtim
Saia pelunt. Pigcl incepli lucisquc, suosque
Mutarne agnoscuot, eicussaque pectore Iudo est.
Scd non idcirco flammac atquc incendia vires
Indomilas posuere: udo sub robore vitil
Sluppa vomeri» lardum furnum, lenlusquc carinas
Est vapor, et tolo dcsccndit corporo peslis;
Nec vires lieroum inrusaque Rumina prosunl.
Tum pius Aencas humeris abscindere vestem,
Auiilioque vocare deos, el tendere palmas:
lupiler oinnipotcns, si nondum eiosus ad unum
Troianos, si quid pietas antiqua iabores
Hespicit humanos; da flammam evadere classi
Nunc. pater, cl tcnues Tcucròm res eripc leto;
Vel tu, quod supcrcst, intesto fulmine morti,
Si mercor, domine, tuaque hic obrue delira.
Vii hacc edideral, quum effusis imbribus atra
Tempesta» sine more furil, tonitruque trcmiscunl
Ardua terrarum, et campi; ruit aclliere loto
Turbidus imber aqua, densisque nigerrimus austris,
Implcnturque super puppcs; semiusla madescunt
Robora; rcstinctus doncc vapor omnis, et omnes,
Quatuor omissis, servarne a peste carinac.
Fu di Doriclo: i dea. Notale i segni:
Com'arde ne la vista, c quali spira
Ne l'andar, ne la voce c nel sembiante
Celesti onori, lo pur testé mi parto
Da Berne elle di corpo egra languendo
Stassi, c sdegnando che a quest'alto sola
Nosco non intervenga. E qui si tacque.
Le madri paventose e dubbie in prima
Con gli occhi biechi rimiràr le navi,
Sospese le meschine infra l'amore
Di godersi la terra, o la speranza
Clicperdcan dc'rcami, a cui chiamate
Eran dal Fato. Intanto alle in su l'ali
La dea levossi, e tra le opache nubi
Per entro al suo grand'arco ascese, e sparve.
Allor dal mostro spaventate, e spinte
Da cieca furia, s'avienlèr gridando;
E di faci c di fronde c di virgulti
Spogliaro altre gli altari, altre infocaro
1 legni si che in un momento appresi
I banchi, e i remi e l'impeciate poppe
Mundàr fiamme c scintille c fumo al ciclo.
Portò di questo incendio Euinclo avviso
Là 've al sepolcro era la gente accolta,
E do l'incendio stesso un atro nembo
Ne dii fumando e scintillando imbeio.
Ascanio il primo (siccom'cra avanti
Duce del corso) al mar si spinse in guisa
Che i suoi maestri impallidir per tema,
E richiamando lo seguirò in vano.
Giunto che fu; Che furor, disse, i questo?
Dove, dove ne gite? e che tentate.
Misere cittadine? Ahi che non questi
De'Grcci i legni, o gli steccali sono.
Voi di voi stesse le speranze ardete.
Io sono il vostro Ascanio. E qui l’elmetto,
Onde a la giostra era comparso armalo,
Gillossi a piè. Corsevi intanto Enea:
Vi corsero deTcucri e dc'Sicani
Le schiere tutte. Allor per tema sparse
Le donne per lo lito e per le selve
Se ne fuggirò; ed appiattarsi ovunque
Ebber di rupi o di spelonche incontro;
Che pentite del fallo odiàr la luce,
Cangiàr pensieri, e con l'amor dc'suoi
fri del petto disgombrimi e Giuno.
Ma non però l'indomito furore
Cessò del foco; che la secca stoppa,
E l'unta pece, c gli aridi fomenti
L'avcan Un dentro a le giunture appreso:
Onde nel molle, ancor vivo, esalava
Un lento fumo, e penetrava i fondi
SI ch’ogni forza, ogni argomento umano,
E T mare stesso, che da tante genti
Sopra gli si versava, erano in vano.
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LIBRO QUINTO
109
At pater Acneas, cnsu concussus acerbo,
Nunc bue ingentes none illue pectore curas
Mulabat versans, Siculisne residenti arvis,
Oblilus Fatorum, Itslasnc capesseret oras.
Tum senior Nautes, unum Triionia Pallas
Quem docuil, multaque insignem reddidil arte,
llacc responsa dabat, vcl quae portenderel ira
JUagna deùm, vel quae Fatorum posceret ordo.
Isque bis Acneam solalus vocibus infit:
Nate dea, quo Fata Irahunl retrahuulque, sequamur.
Quidquid erìt, superando omnis Fortuna Ferendo est.
Est libi Dardanius divinar stirpis Acesles :
Ilunc cape consiliis socium et coniunge volentcm;
lluic Iradc, omissis supcrant qui navibus, etquos
Pertoesum magni incepti rcrumque tuarum est ;
Longaevosque scnes, et Fessas aequore maires,
Et quidquid lecum invalidum metuensquo perieli est
Delige; et, bis habeanl terris, siue, moenia Fessi ;
Urbem appcllabunl pcrmisso nomine Aceslam.
Talibus inccnsus diclis senioris amici.
Tum vero in curas animum diducilur omnes.
Et Noi atra polum bigia subvccta lenebai ;
Visa debine coclo Facies dclapsa parcntis
Anchisac subito talea elTunderc voces :
Nate, mibi vita quondam, dum vita manebat.
Care magis; nate, lliacis esercite fatis;
Vinci liu vol. calco.
Squarciossi Enea da gli omeri la veste
Ch’avca lugubre, e da’ celesti aita
Chiedendo, al cicl volse le palme, e disse:
Onnipotente Giove, se dcTeucri
Ancor non t'è sema riservo in ira
La gente tutta, se qual sei, pietoso
Miri a gli umani affanni, a tanto incendio
Ritogli, padre, i male addotti legni;
Ritogli a morte queste poche afflitte
Reliquie de’Troiani; o quel che resta
Tu col tuo proprio tèlo, e di tua mano
(Se tale è il merlo mio) Folgora e spegni.
Ciò disse appena, che da torbidi austri,
E da nera tempesta il cielo involto
In disusala pioggia si converse.
Tremerò I campi, si crollare i monti
Al suon de' tuoni: a cataralle aperte
Traboccar da le nubi i nembi e i Homi.
Cosi sotto dal mar, sovra dal ciclo
Le già quasi arse navi in meno accolte
Furon da Tacque: onde le fiamme in prima,
Poscia il vapor s'estinsc; e tutte spente,
Se non se quattro, si saivaro al fine.
Di si Fero accidente Enea turbato.
Molti e gravi pensicr tra sè volgendo.
Slava inFra due, se per suo novo seggio
(Posto il Fato in non cale) ci s'eleggesse
De la Sicilia i campi, o pur di lungo
Cercasse Italia. In ciò Naule, un vecchione,
Ch'era (mercè di Pallade c de gli anni)
Di molla esperienza e di gran senno,
0 Fosse ira di dio, che lo movesse,
0 pur ch'era cosi nel cicl prescritto,
In colai guisa a suo conTorto disse:
Magnanimo signor, comunque il Fato
Ne tragga, o ne ritragga, c che clic sia,
Vincasi col sofliire ogni Fortuna.
Accslc i qui, cb'è del Dardanio seme
E di stirpe celeste un ramo anch'egli.
Prendi lui per compagno al tuo consiglio,
E con lui ti con Federa e t'aduna,
Che in grado prendcrallo; c tu de’luoi
Ciò che t'avanza per gli adusti legni,
O Fastidilo è di si lungo esigilo,
0 che langua o che tema, o che sia manco
Per elale o per sesso, a lui si lasci,
CITÒ pur Troiano; ed ci lor patria assegni,
Che dal nome di lui si nomi Accsta.
S'accese al dello del suo vecchio amico
Il Troiai! duce; e trapassando d'uno
In un altro pensiero, era già notte,
Quando l'imago del suo padre Anchise
Veder gli parve che, dal cicl discesa.
In lai guisa dicesse: 0 figlio, amato
Vie più de la mia vita infin ch'io vissi,
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DELL’ ENEIllE
Imperio lovis bue renio, qui classìbus ignem
Depulit, et coelo landem miscralus ab allo esl.
Consiliis pare, quae nunc pulcherritna Naules
Dal senior : leelos iuvenes, forlissima corda,
Defer in Italiani. Gens dura alquc aspcra cullu
Debellando libi Lalio est. Ditis tamen anta
Infcrnas accede domos, et Averna per alla
Congressus pelo, naie, meos. Non me impia namque.
Tarlara habenl tristesve umbrac; sed amoena piorum i
Concilia Elysinmquc colo. Iluc casla Sibylla
Nigrarum multo pecudum le sanguine ducei.
Tum gcnus omnc tuum, el, quae dentur moenia, disccs.
lamque vale : torqucl medios Noi Numida cursus;
El me saevus equis Oriens afTlrml anhclis.
Diieral, el lenucs fugil. ceti fumus, in auras.
Acneas, Quo deinde ruis ? quo proripis? inquit,
Quem fugis? aul quis le noslris complexibus arcel ?
llacc memorans cinerem et sopilos suscilal ignes ;
Pergameumque Larcm et canae penelralia Veslae
Farre pio el piena supplcs vencralur acerra.
Exlcmplo socios primumque arcessil Aceslen,
El lovis impcrium el cari praecepla parenlis
Edoccl, et quae nunc animo senlenlia constet.
Ilaud mora consiliis, nec lussa recusal Acesles.
Transscribunl urbi malres, populumque volcntem
Deponunt. animos nil magnae laudis cgenlcs.
Ipsi transira nolani, flammisque ambesa reponnnl
Ilo Im ra nniigiis; spiani remosque rudenlcsque,
Evigui numero, sed bello vivida virlns.
Inlerea Aeucas urbern designai aratro,
Sorlilurque domos; hoc llium el haec loca Troiani
Fisse iubet. Gaudcl regno Troianus Acestes,
ludicilquc forum, et patribus dal iura vocatis.
Tum vicina aslris Erycino in vertice sedes
Fuodalur Veneri blaliae, tumuloque saccrdos
Ac lucus late saccr addilur Ancbiseo.
lamque dies epnlala nnvem gens omnis, et aria
F'aclus lionos; placidi straverunl aequora venti,
Crehcr et adspirans cursus vocal Auslcr in alluin.
Eioritur procurva ingens per litora Oclus;
Compievi iulcr se noelemque dicmquc morantur.
Ipsac iam malres, ipsi, quibus aspcra quondam
Visa maris facies, el non lolerabile nomen,
Figlio, clic segno sei de le fortune,
E del falò di Troia, io qui mandato
Son dal gran Giove, che dal ciel pietoso
Ti mirò diami, c i tuoi legni rimise
Da l'orribile incendio. Adirmi al dello
Del vecchio Natile, e ne malia adduci
(SI come ci fedelmente li consiglia)
De la tua gioventù soli i più scelti,
I più sani, i più forti e i più famosi,
Ch’ivi aspra genie c ruvida ? feroce
Domar convieni!. Ma concienti in prima
l’or via d'Avcrno ne l'inferno addurli,
E meco ritrovarli, ov’ora io sono,
F'iglio, non già del Tartaro, o fra l’ombre
De le perdute gemi, ma felice
Tra i felici c Ira’ pii per quegli ameni
Elisii campi mi diporto e godo.
A questi lochi, allor che molto sangue
Arrai di negre pecorelle sparso,
Ti condurrà la vergine Sibilla.
Ivi conio saratti il tuo legnaggio,
E 'I luo seggio fatale: e qui li lascio;
Già clic varcalo è de la none il meno,
E del nimico sol diclro anelando
I veloci dcsiricr venir mi senio.
E, ciò dicendo, allonlauossi, c sparve.
Dove, padre, ne vai, dove l' ascondi?
Dicendo Enea, ctiè fuggi? o chi ti toglie
Da le mie braccia? al già sopito foco
Si trasse, c lo raccese; e incenso c farro
Oflrl devoto a i sacrosanti numi
De l'alma Vesta, e dc'suoi pairii Lari.
Indi i compagni, e pria di lutti Aceste;
De l'imperio di (bove, c de’ricordi
Del caro padre incnnlanenlc avvisa
E T suo parer ne porge. In un momenlo
Si propon, si consulla e s’escguisce.
Aceste non recusa; e son descritti
I nomi de le madri, de gl'infermi,
E de le genti che mestiere, o cura
Avcan più di riposo che di lode.
Essi pochi, ma scelli, e gucrrier tulli
llivolti a risarcir gli adusti legni
Rinnovaron le sarte, i remi, i banchi.
E ciò ch'il foco avea corroso cd arso.
Enea de la cillà le mura tiriamo
Insolca, c i lochi assegna ; e parie Troia,
E parie Ilio ne chiama, e ne n' appella
II buon Troiano Acesle. Ei lieto incarco
Nc prende ; indice il fòro, elegge i padri,
Ode, giudica e manda. Allor in cima
De rEricinio giogo il gran delubro
Surse a Venere Idalia : e i sacerdoti
Gli s'addissero in prima. Allor s' aggiunse
Al tumulo d' Anchisc il sacro bosco.
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LlliltO QUINTO
111
Ire voluti!, omnemque fuga e perferre labore™.
Quos bonus Aeneas dictis solatur amicis,
El consanguineo lacrimans commendai Acestae.
Tres Eryci vilulos, el Tempcslalìbus agnam
Caederc deinde iubet, solvique c« ordine funetn.
Ipse, caput lonsac follia cvinclus olivac,
Slans procul in prora patera™ lencl, evlaque salsos
Porricil in flucliis, ac vina liquenlia fundil.
Prosequilur surgens a puppi vcnlus eunles.
Celiali™ socii feriunt mare, el aequora vcrrunl.
Al Venus inlerea Neptunu™ eiercila curia
Atloqnilur, lalesque cITundil peclore queslus:
lunonis gravis ira nec cvsaturabilc peclus
Cogonl me, Neplunc, preccs descendere in oranes:
Qua™ nec longa dies, pietas nec mitigai ulta;
Nec lovis imperio falisvc Infranta quiescil.
Non media de genie Plirygum evedisse nefandis
Urbcm odiis salis est, nec poenam Irate per omnem:
Kclliquias Troiac, cinerea atquc ossa peremlac
Insequilur. Caussas tanti sciai iila fureria.
Ipse inibì nupcr Libycis tu lestis in undis
Quani molem subito cvcieril. Maria omnia coelo
Miscuil, Acoliis nequidquam frela proccllis,
In regnis hoc ausa tuia.
Per seelus ecce ctiam Troianis matribus aclis
Esussil foede puppcs; et classe subegil
Amissa socios ignolae linquere terree.
Quod superesl, oro, liceat dare luta per undas
Vela libi: liceat Laurenlem attingere Tbybrim,
Si concessa pelo, si dant ca moenia Parcac.
Tum Saturnius liacc domitor maris edidit alti:
|as orane est, Cylherea, meis le Dderc regnis,
Inde genus ducis; racrui quoque. Sacpe furores
Compressi et rabicm lantani coelique marisque.
Area già nove di fatti solenni
Sacrilicii e conviti ; e T mare e i venti
Erari placidi e queti. Austro sovente
Spirando, in alto i lor legni invitava.
Quando un pianto dirotto per lo lilo
Levossi, un condolersi, un abbracciarsi
Cile lutto il di durò, tutta la notte.
Le meschinellc donne, e quegli stessi,
Cui dianzi spaventosa era la faccia,
E T nome intollerabile del mare,
Voglion di nuovo ogni marin disagio
Soffrire, e de I’ csiglio ogni fatica;
Ma li racqucta e li consola Enea
Con dolci modi, e lagrimando al line
Da lor si parte, ed al suo caro Acestc
Quanto più caramente gli accomanda.
Poscia, falla al grand' Erice in sul lito
Di tre giovenchi offerta, e d' un' agnello
A le Tempeste, si rimbarca e scioglie.
Egli slesso altamente in su la proda,
Cinto il capo d' olivo, una gran tazza
In man si reca, e di lenco liquore,
E di viscere sacre il mare asperge.
Sorgea da poppa il vento, e le sals’ onde
Ne gian solcando i remiganti a gara;
Quando del figlio Citcrea gelosa
Nettuno assalse, e seco querelossi
In colai guisa : La grav’ ira o l' odio
Di Giuno insaziabile m’ inchina
Ad ogni priego ; poscia che nè 'I tempo
Nè la pietà, nè Giove, nè T destino
Acquetar non la ponno. E non le basta
D' aver già Troia desolata ed arsa,
Che le reliquie, il nome c l’ ossa e 'I cenere
Ne perseguita ancora. Ella ne sappia,
Ella ne dica la ragiono. Io chiamo
Te per mio teslimon do l' improvvisa
MicidTal tempesta clic pur dianzi
Per mezzo de l'Eolide procelle
Mosse lor conira ( tua mercede ) in vano.
Or ba T iniqua per le mani stesse
De le Teucre matrone i Teucri legni
Dati si bruttamente al foco in preda,
Perchè i meschini arse le navi loro,
Sian di lasciare i lor compagni astretti
Per le terre straniere. Or quel che resta,
E ch'a te chieggio, è clic il tuo regno ornai
Sia lor sicuro, e eh' una volta al line
Tocchin del Tebro e di Laureola I campi,
Se perù quel di' io chieggio è che dal cielo
Al mio figlio si debba, c se quel seggio
Ne dan le Parche c ’l Fato.
A lei de l' onde
Rispose II domatore : Ogni fidanza
Prender puoi, Citerca, ne’ regni mici,
Onde tu pria nascesti. E non son pochi
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112
UELL'ENEIUE
Nec minor in lerris, Xanlhum Simocntaque leslor,
Aencac milii cura lui. Quum Troia Achilles
Esanimata sequens impingerct agmina muris,
Mìllia mulla darei leto, gemercntquc repleli
Amncs, ncc reperire viam atque evolvere posset
In mare se Xanthus; Pclidac lune ego forli
Congressum Aeneam, ncc dia ncc viribus aequis,
Kubc cova rapui: cuperem quum vertere ab imo
Slrucla mcis manibus periurae mocnia Troiac.
Nunc quoque mena eadem pcrslal milii; pelle limorcu
Tutua, quoa oplaa, porlua accedei Averni,
linus crii tanlum, omiasum quem gurgilc quaercl;
llnum prò umilia dabilur caput.
His ubi lacta dcae permutai! pcclora diclìa:
lungi! equoa auro gcnilor, spumanliaquc addi!
Frena feris, manibusque omnes elTundit babenaa.
Cacruleo per summa levi* vola! acquora curru.
Subsidunl undae, tumidumque sub ave tonanti
Slcrnilur aequor aquis; fugiunl vasto aellicrc nimbi.
Tum variac comiluni facies; immania cete,
Et senior dauci ctiorus, Inousquc Palaemon,
Triloncsquc citi, Phorciquc cicrcitus omnia;
l,acva tcnent Tlielis, et Melile, Panopcaquc virgo,
Ncsace, Spioquc, Tlialiaquc Cymodocequc.
Ilic patria Aeneac suspcnsam bianda vicissim
Gaudia pertentant mcntem; iubel ocius omnes
Attuili malos, intendi brachia velia.
L'na omnes fecere pedem; pariterque sinistros,
None detlros solvere sinus; una ardua lorqucnt
Cnrnua dclorqucnlque; ferunl sua (lamina classem
Princcps ante omnes densum Palinurus agebat
Agmen: ad hunc alii cursum contendere iusai.
Iamque fere mediani coeli noi hurnida metam
Conligerat: placida laiaranl membra quiete
Sub remis fusi per dura sedilia nautae:
Quum levis aelheriis dclapsus Somuus ab astris
Aèra dimovit tcnebrosum, et dispulil umbras.
Te, Palinurc, petcns, libi somnia trislia portans
lnsonti; puppique deus consedit in alta,
Phorbanti similis, funditque has oro loquelas :
Iaside Palinure, ferunt ipsa acquora classem ;
Ancor teco i miei merli ; clic più volte
Ho per Enea l’ ira e il furore estinto
E del mare c del cielo. Ed anco in terra
Non ebb’ io ( Xanto e Simoenta il sanno )
De la salute sua cura minore.
Allor eh' Achille a le Troiane schiere
SI parve amaro, che (in sotto al muro
Le cacciò d' Ilio, e tal di lor fe' strage,
Che ne gir gonfl e sanguinosi i fiumi ;
E Xanto de' cadaveri impedito
Sboccò ne’ campi, e deviò dal mare.
Era quel giorno Enea d' Achille a fronte,
Nò dii, nò forze avoa eh' a lui del pari
Stessero incontro, lo fui che nella nube
Allor l' accolsi : io che di man nel trassi
Quando più d' atterrar avea desio
Quelle mura odiose e disleali,
('.he pur de le mie mani cran fattura.
Or ti conforta che vòr lui son io
Qual fui mai sempre, c, come agogni, il porlo
Attingerò sicuramente; e ’l lago
Gli s’aprirò. Sol un convien che péra
Per condor gli altri suoi lieti e sicuri.
Poiché di Citcrea la mente qucla
Ebbe de l' onde il padre, i suoi cavalli
Giunti insieme c frenati, a lente briglie
Sovra de l’ alto suo ceruleo carro
Abbandonossi, c lievemente scorse
Per lo mar tutto. S'adeguaron 1' onde,
Si dileguòr le nubi : ovunque apparve
Tulio sgombrassi, del suo corso al suono,
di' avea di lorbo il cicl, di gonfio il mare.
Cingran Nettuno allor da la man destra
Torme dì pistri c di balene immani.
Ili Glauco il vecchio coro, e d‘ Ino il figlio,
E; i veloci Triioni, e lutto insieme
Lo stuol di Forco. Da sinistra intorno
i Gli era Teli, Melile c Panopéa,
Spio, Niséa, Cimodocc e Talla.
Qui per l’ amara dipartenza afllitlo
Il padre Enea rassercnossi in parte,
E ciò che a navigar facea mestiero
Gioiosamente a' suoi compagni impose.
Tirar l’ antenne, inalberòr le vele.
Sciolsero, ammainòr, cataro, alzaro,
Fòr le marinercscbc lor bisogne
Tutti in un tempo, ed in un tempo insieme
Drizzàr le prore al mar, le poppe al vento.
Innanzi a tutti con più legni in frotta
Già Palinuro il provvido nocchiero,
E gli altri dietro lui di mano in mano.
Era l’ umida notte a mezzo il cerchio
Del ciel salita, e giò languidi e stanchi
Su i duri legni i naviganti agiati
Prendean quiete; quando ecco da P alte
Stelle placido c lieve il Sonno sceso
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LIBRO QUINTO
m
Aoqiialae spiraul aurar; dalur Bora quieti.
Pone caput, Tessosque oculos Turare labori.
Ipse ego paullisper prò le tua menerà inibo.
Cui vii allollcns Palinurus lumina Talur:
Mene salir placidi vultuin fiuclusquc quiclos
Ignorare iubes ? mene buie collidere monslro ?
Aenean credam quid euim, Tallacibus auris
Et coeli lolies deceptus fraude sereni ?
Talia dieta dabal, clavumque afllvus et baercns
Nusquam amitlebat, oculosque sub astra tenebat.
Ecce deus ramum I.elhaco rore madentem,
Vique soporatum Slygia, super utraque quassat
Tempora; ennetantique nalanlia lumina solvit.
Vii primos inopina quies laiaveral artus :
Et super incumbcns, cum puppis parte revulsa,
Cumquc gubernaclo, liquidas proiecit in undas
Praecipitcm ac socios ncquidquam saepe vocantem.
Ipse volans tenues se suslulil alcs ad auras.
Curri! iter tulum non sccius aequore classis,
Promissisquc palris Nepluni interrila fertur.
lamque adeo scopulos Sirrnum adtccla subibat,
OilUciles quondam, niultorumque ossibus albos,
Tum rauca adsiduo longe sole saia sonabanl:
Quum pater amisso fluiiantcm errare magistro
Sensi!, et ipse rateai nocturnis reiit in undis',
Multa gemens, casuque animimi concussus amici:
0 nimium coclo et pelago conO.se sereno,
Nudus in ignota, Palinure, iaccbis arena.
Si fece quanto area d’ acre intorno
> Sereno e quoto ; e te, buon Pallnuro,
Senza tua culpa, insidioso assalsc
Portando a gli ocelli tuoi tenebre eterne.
Ei di Forbanle marinaro esperto
Presa la Torma, come nolo, appresso
In su la poppa gli si pose, e disse :
Tu vedi, Palinuro ; il mar ne porla
Con le stesse onde, e’1 vento ugual ne spira.
Tcmp' ì che piìsi ornai : china la lesta,
E Tura gli ocelli a la Tatica un poco
Poscia di' io son qui teco, c per te veglio.
Cui Palinuro, già gravato il ciglio,
Cosi rispose : Ah tu non credi adunque
Ch* io conosca del mar le perfìd* onde,
E 'I Talso aspetto ? A tale infido mostro
Ch’ io Odi il mio signore c i legni suoi ?
Ch' al Tallacc sereno, ai venti instabili
Presti Tede io, che da lur Tui deluso
Già tante volte ? E, ciò dicendo, avea
Le man Terme al timon, gli occhi a le stelle.
Il Sonno allora di Lctéo liquore,
E di Sligio veleno un ramo asperso
Sovra gli scosse, e l' una tempia e T allra
Gli spruzzò si che gli ocdii ancor rubelli
Gli strinse, gli gravò, gli ehiusc al Pine.
Appena avean le prime gocce inTusa
l.a lor virtù, die T buon nocchier disteso
Ne giacque : e 'I dio col suo mentito corpo
Sopra gli si recò, pinse e sconfisse
Un gheron de la poppa, e lui con esso
E col temon precipitò nel mare.
Nè gli valse a gridar cadendo aita,
Chè l' un qual pesce, c l' altro qual augello,
Questi ne 1' onda, e quei ne U aura sparve.
Nè U armala ne gio però rnen ratta,
Né mcn sicura ; che Nettuno stesso,
Come promesso avea, la resse e spinse.
Era delle Sirene ornai solcsodo
Giunta agli scogli, perigliosi un tempo
A' naviganti ; onde di loschi e d' ossa
D' umana gente si vedeau da lunge
Biancheggiar lutti. Or sol, di canti in vece,
Se n' ode un roco suoli di sassi e d' onde.
Era, dico, qui giunta, allor di' Elica
Al vacillar del suo legno s'accorse,
Cile di guida era scemo e di temone :
Ond' egli slesso infin che T giorno apparve
Se ne pose al governo, e T caso indegno
Del caro amico in tal guisa ne pianse :
Troppo al sereno, e troppo a la bonaccia
Credesti, Palinuro. Or ne l' arena
Dal mar gittato in qualche strano lito
Ignudo e sconosciuto giacerai,
Nè chi l' onori avrai, nè chi li copra.
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LIBRO SESTO
Sic fatur lacrimali* , clossique immilli liabcnas,
Et tandem Euboicis Ciunaruni allabitur oris.
Obvcrlunt pelago proras; tum dente tenaci
Ancora fundabal naves, et litola curvai:
Praetcìunl poppo:; iuvenom manus cmical ardens
Lilus in llespcrium; quaerit pars semina llanunae
Abstrusa in tcnis sitici*; pars densa ferarum
Tecla rapii, silras, inventaque (lumina monstre!.
Al pius Aeneas arces, quibus allus Apollo
Praesidel, horrendaeque procul secreta Sibjllae,
Aiilrum immane, petit, magnani cui metileni auimumque
Oclius inspirai talee, apcrilqiie futura,
ium subeunl Triviac lucos alque aurea teda.
Daedatue, ut fama est, fugicns Mi noia regna,
Pracpelibus pennis aitsus se credere coclo,
Insuclum per iter gelidas enavit ad Arclos,
Chalcidicaque levis tandem super adslilil arce.
Rcddilus bis primuin terris, libi, Pbocbe, sacravi!
Remigium alarum, posuitque immauia tempia.
In foribus Ictum Androgci; tum pendere poenas
Cccropidae iussi ( miserum I ) septena quolannis
Corpora nalorum; stai ductis sorlibus urna;
Centra data mari responde! Gnosia tellus.
Ilic crudelis amor tauri, supposlaque furto
Pasipbae, mislumquc gcnus prolesque biformis
Alinotaurus inest, Vencris monumenta nefandae ;
Ilic labor ilio domus, et inextrieabilis error;
Daedalus, ipse dolos tedi ambagesque rcsolvil.
Cacca regens filo vestigio. Tu quoque magnam
Parlcm opere in tanto, sinerel dolor, Ieare, haberes.
Ilis conalus crai casus efDngerc in auro,
Ris palriae cccidere manus. Qnin protenus omnia
Cosi piangendo disse; e navigando
Di Cuma in vèr l'Euboica riviera
Si spinse a lutto corso, onde ben tosto
Vi furon sopra, e v’ approderò al line.
Volscr le prue, pillar p ancore; e ì legni,
SI come stero un dopo l' altro in Ola,
Di lungo trailo ricovrir la riva.
Lieta la gioventù nel lito Esperio
Gillóssi; ed in un tempo al villo intesi,
Chi qua, chi là si diero a picchiar selci,
A tagliar boschi, a cercar fiumi c fonti.
In Unto Etica verso la ròcca ascese,
Ove in allo sorgea di Febo il tempio,
E là dov' era la spelonca immane
De T orrenda Sibilla, a cui fu dato
Dal gran Delio profeta animo e mente,
D' aprir P occulte c le futuro coso.
Avea di Trivia già varcalo il bosco,
Quando avanti di marmo ornalo c d' oro
Il bel tempio si vide.
È fama antica
Clic Dedalo, di Creta allor fuggendo,
Ch' ebbe ardimento di levarsi a volo
Con più felici c con più destre penne
Clic ’l suo figlio non mosso, il freddo polo
Vide più presso; c per sentir non dato
A 1' uinan seme, a questo monte al fine
Del Calcidico seno il corso volse.
Qui giunto o formo, a te, Febo, de l’ ali
L'ordigno appese, c'I tuo gran (empio eresse
No le cui porle era da I’ un de' lati
I)' A mi rogito la morie, c quella pena
Clic di Cccrope i figli a dar costrinse
Sette lor corpi a I’ empio moslro ogni anno;
Miscrabil tributo 1 c v’ era I' urna.
Onde a sorte eran traili. Eravi Crcla
Da l‘ altro lato, allo dal mar levala,
Cb' avea del lauro istoriala intorno,
E di Paslfe il bestiale amore,
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LIBRO SESTO
113
Perlegercnl oculis, nijam praemissus Achales
Afforet, alquc una Phocbi Triviaeque soccrdos,
Dciphobc Glauci, fatur quae (alia regi;
Non hoc isla sibi lempus spectacula poscil;
Nunc grege de intacto seplcm maclare iuvencos
Pracìiiterit, totidem lectus de more bidentes.
Talibus alTula Aencan (nec sacra moranlur
lussa viri) Teucros vocat alla in (empia sacerdos.
Evcisum Euboicae latus ingcns rupis in antrum,
Quo lati duroni aditus ccnlum, ostia centum;
Unde ruunl lolidem voce?, responso Sibyllae.
Venlum crai ad limen, quum virgo, Poscere fata
Tempus, ail; deus, ecce, deus! Cui (alia Tanti
Ante forcs subito non vultus, non color unus,
Non corotae manscre cornac; sed peclus anhelum,
Et rabic fera corda turacnt; maiorque vidcrj,
Nec mortale sonans; afflala est numine quando
Iam propiorc dei. Cessns in vola prccesquc,
Tros, ail, Acnea? cessas? ncque enim ante dehiscenl
Allonitac magna ora domus. Et (alia fata
Conlicuil. Gclidus Teucri* per dura cucurrit
Ossa tremor, fundilque preces rex pectore ab imo :
Phoebe, graves Troiae semper miserate labores,
Dardana qui Paridis diresti tela mantisquc.
Corpus in Aeacidae; magnas obeuntia tcrras
Tot maria intravi, duce tc. penilusque repostas
Massylòm gentes, praelentaque Syrlibus arva;
Iam tandem lloliac fugienlis pmidimus oras.
Hac Troiana lenus fueril fortuna secuta.
Vos quoque Pergamene iam fas est parccrc genti,
Diquo deacque omnes, quibus obslilit Ilium et ingcns
Gloria Dardaniac. Tuque, o sanclissima vote*,
Praescia venturi, da (non indebita posco
Regna mcis fatis) Litio considere Teucro 9 ,
Errantcsque deos agiiataque nuinina Troiae.
Tum Phocbo et Triviac solido de marmore templum
Insliluam, festosque dies de nomine Phoebi.
Te quoque magna manent regnis penetra li a nostris;
Hic ego namque duas sortes arcanaque fata,
Dieta incae genti, ponam, leclosque sacrabo,
Alma, viros. Foliis tantum ne carmina manda,
E la bestia di lor nato biforme,
Di sì nefando ardor memoria infame.
Eravi 1* intricato labcrinlo ;
Kravi il filo, onde gl’ intrighi suoi
I E le sue cicche vie Dedalo stesso,
Per pietà eh’ ebbe a la regina, aperse ;
E tu, se '1 pianto del tuo padre e ’l duolo
Noi contendea, saresti, Icaro, a parte
Di sì nobil lavoro. Ma due volle
Tentò rilrarli in oro; ed altrettante
Sì 1’ abborrì, che V opera e lo stile
Di man gli cadde. Era con gli altri Enea
Tutto a mirar sospeso, quando Acatc
Tornò, ch’era precorso, c seco addusse
DeTfobe di Glauco, una ministra
Di Diana e d’ Apollo. Ella rivolta
Al Frigio duce : Non è tempo, disse,
CIP a ciò si badi. Or è d’ offrir mesliero
• Selle non domi ancor giovenchi, e sette
Negre pecore delle.
E ciò spedilo
Tosto, come s’ impose, ella nel tempio
Seco i Teucri condusse. È da F un canlo
DeH'Euboica rupe un antro immenso
Che nel monte penetra. Avvi d’ intorno
Cento vie, cento porle ; c cento voci
N* escono insieme nllor che la Sibilla
Le sue risposte intuono. Era a la soglia
Il padre Enea, quando: Ora è ’l tempo, disse
La vergine, di’, di’, chiedi tue sorti ;
Ecco lo dio eh* è già comparso c spira.
Ciò dicendo de l’antro in su la bocca
In più volti cangiossi e in più colori ,
Scompigliossi le chiome , aprissi il petto ,
Le ballò ’l fianco, c ’l cor di rabbia 1’ arse ,
Parve in vista maggior , maggiore il tuono
Fu clic d’ umana voce ; e poiché ’l nume
i Più le fu presso ; A che badi, soggiunse,
Figlio d’Anchise? Se non di’, non s’apre
Questa di Febo attonita cortina.
E qui si tacque. Orror per I' ossa c gelo
Corse allor de’ Troiani ; c’I Teucro duce
lufln da l'imo petto orò dicendo :
Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
Fu propizia c benigna ; onde di Pari
Già reggesti la man, drizzasti il télo
Contro al corpo d* Achille ; io, dal tuo lume
Scorto fin qui, tarilo di more ho corso,
Tante terre ho girate, a tanti rischi
Mi son esposto ; insino a le remote
Mossile genti, insili dentro a le Sirli
Son penetrato ; ed or, per tua mercede,
Di questa fuggitiva Italia il lilo
Ecco ho già tocco, c ci son giunto al fine.
Ah che questo sia il fine e qui rimanga
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ufi
DELL' ENEIDE
Ne turbala volent rapidìs ludibrio \etilis:
Ipsa canas oro. Finem iledit ore 1 ottienili.
At, Phoebi nondum paticns, immanis in antro
Bacchalur va Ics, magnimi si pudore possit
Excussissc deum: tanto magia iltc faligal
Os rabidum, fora corda domans , fìngilquc premendo
Ostia iainquc dotnus patucre ingcntia cenlum
Spontc sua, valisque ferunt responsa per auras:
0 tandem magnis pelagi defuncta perieli*,
(Sud terra graviora manenti) in regna LavinI
Dardanidae vcnienl: mille hanc de pectore curam,
Scd non et venisse volent. Bella, horrida bella.
Et Tlivbrim multo spumanlem sanguine cerno.
Non Simois libi, nec Xanlhus, nec Dorica castra
Defuerinl. Alius Lalio iam parlus Achillea,
Natus etipse dea. Nec Teucri* addila luno
Lsquam aberit; qutim tu supplex in rebus egenis
Quas giudea Italòm aul quas non oraveris urbes I
Caussa mali tanti comuni iterimi hospita Tcucris,
Evlerniquc iterimi Ihalami.
Tu ne cede malia, scd coutra audcnlior ilo,
Qua tua te Fortuna sinel. Via prima salutis,
Quod minime reris, Graia pandetur ab urbe.
Talibus ci adylo didis Cumaca Sibilla
Horrendas cani! ambage*, antroque remugit,
Obseuris vera involvcns; ea frena furenti
L' infortunio di Troia I È tempo ornai,
Dii tutti c dee, cui la Gardenia gente
llnqua fece onta, clic perdono c pace
| Le concediate. E tu, vergine santa
Del futuro presaga, or ne dimostra
Il seggio e ’l regno che ne dònno i Fati
( Se pur ne 'I danno ) ove i Troiani afflitti.
Ore di Troia i travagliati numi,
E i dispersi Penati alberghi e posi ;
Ch'allor di saldo marmo a Trivio, a Febo
Ergerò tempii, e del suo nome I ludi
Consacrerogli, c i di fòsli e solenni.
Ed ancor tu net nostro regno avrai
Sacri luoghi rcposti, ove serbati
Per lumi c specchi a le future gemi
Da venerandi a ciò patrizii clelli
Saranno i dclli e i valicinii tuoi,
i Quel clie prima ti chicggio è che i tuoi carmi
Sodan per la tua lingua, c non che in foglie
Sian da le scrìtti, onde ludibrio poi
Sian di rapidi venti. E più non disse.
Ella gii presa, ma non doma ancora
Dal Febeo nume, per di sotto trarsi
A st gran salma , quasi poltra c fiera
Scapestrala giumenta, per la grotta
Imperversando c mugolando andava.
Ma come più si scotea, più dal gran dio
Era affrettata, e le rabbiose labbia
E P efferato core al suo misterio
Più mansueto e più vinto rendea.
Eran da lor già della grolla aperte
Le cento porte, allor eh' ella gridando
Cosi mandò la sua risposta a l' aura :
Compili son del mar tulli i perìcoli ;
Restai) quei de la terra, che terribili
Saran veracemente e formidabili.
Veiraono i Teucri al regno di Lavino :
Di ciò P amilo. Ma ben tosto d' esservi
Si pentiranno. Guerre, guerre orribili
Sorger no veggio, c pien di sangue il Tevere.
Saravvi un altro .Vanto, un altro Simoi,
Altri Greci, altro Achille, che progenie
Ancor egli è di dea. Giuno implacabile
Allor più ti sarà, che supplichevole
Andrai d’ Italia a qual non (erre, o popoli
D' aila mendicando e di sussidii ?
E flan di tanto mal di nuovo origine
D' esterna moglie esterne sponsalilie.
Ma 'I tao cor non paventi, ami con P animo
Supera le fatiche c gl' infortunii ;
Chè tua salute ancor da (erra Argolica
( Quel che men credi ) avrà lume e principio.
Questi intricati e spaventosi detti
Dal piò reposlo loco alto mugghiando,
La Cumea profetessa empiea lo speco
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unno sesto
117
Conculii, cl slimulos sub peclore verlil Apollo.
Ut primum cesali furor, et rabida ora quierunt,
Incipit Acneas li eros: Non ulta laborum,
0 virgo, nova mi facies inopinave surgil;
Omnia pracccpi, alque animo mecurn ante peregi.
l'num oro. Quando hic inferni ianua regis
Oicilur, et tenebrosa pallia Acheronte refuso:
Ire ad conspcctuin cari genitori» et oro
Contingat; doceas iter, et sacra ostia pandas.
Illum ego per flammas et mille sequentia tela
Eripui his humcris, medioque ex hoslc recepì;
lite, menni comitatus iter, maria omnia mecurn,
Alque oinnes pclagique minas coelique ferebat,
Invalidus, vires ultra sortemque sencctae.
Quin, ut te supplcx petcrem, et tua limino adirem,
Idem orans mandata dabat. Gnitiquc palrisque,
Alma, prccor, misererò, ( poles namque omnia, nec le j
Nequidquam lucis liceale pracfccil Avernis: )
Si potuil Manes arcesscre coniugi» Orpheus,
ThreTcia frelus rii bara fìdibusque canoris;
Si fratrem Pollo* alterna morte redemit,
llquc redilquc viam lolle». Quid Thesea, inagnum
Quid memorem Vlciden ? Et mi genus ab love summo.
Talibus orabai dictls, arasque tcnebal;
Quum sic orsa loqui vates: Sale sanguine divAm,
Tros Anchisiada, fucili» desccnsus Averni; .
Nocles alque dies palei atri ianua Dilis;
Sed revocare gradum superasque evadere ad auras.
Hoc opus, hic labor est. Pauci, quos aequus amavit
lupiter, aut ardens evexit ad aelhera virtus,
Dls geniti potuerc. Tenent media omnia silvae,
Cocylusque sinu lubens circumvenit atro.
Quod si lantus amor menti, si tanta cupido est
Bis Stygios binare lacus, bis tiigra videro
Tartara, et insano iuvat indulgere labori;
Accipc, quac pcragenda prius. Latct arbore opaca
Aureli» et foliis cl lento vimine ramus,
lunonl infcrnac dictus saccr: lume legit ornili*
Virgilio vol. esito.
D’ orribil* tuoni : e come il suo furore
Era da Febo raffrenato o spinto,
0 dal suo raggio avea barbaglio o lume,
Così miste le tenebre col vero
Sciogliea la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché la furia c la rabbiosa bocca
Quctossi, Enea ricominciando disse :
Vergine, a me nulla si mostra ornai
Faccia nè di fatiche nè d’ affanno,
Che mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto ho previsto, lutto ho presentilo,
Che da te m’ è predetto : c tutto io sono
A soffrir preparato. Or sol ti chieggo
( Poscia che qui si dice esser I* mirata
De’ regni inferni, c d" Acheronte il lago )
Che per le quinci nel cospetto io venga
Del mio diletto padre ; e tu la porla,
Tu ’1 sentier me ne mostra, e tu mi guida.
10 lui dal foco c da miti' armi infeste
Trailo ho di mezzo a le nemiche schiere
Su queste spalle ; ed ei scoi la c compagno
Del mio viaggio c del mio esiglio, meco
1 perigli, i disagi c le tempeste
Del mar, del ciclo c de I* età soffrendo,
Vèglio, debole c stanco ha me seguilo ;
Ed egli stesso m’ ha nel sonno imposto
Che a tc ne venga, e per tuo mezzo a lui
Mi riconduca. Abbi pietà, ti priego,
E del padre e del Gglio ; ed ambi insieme
Come puoi (cliè puoi tutto), or nc congiungi;
Gli' Ecate non indarno a queste selve
T ha d’Averno preposta. 11 Tracio Orfeo
( Sola mercè de la sonora cetra )
Scender polevvi, c richiamarne in vita
L’amata donna. Nè potè Polluce
Ritrarre il frale, cd a vicenda seco
Vita e morte cangiando, irvi e redirvi
Tante fiale. Andovvi Teseo; andovvi
11 grande Alcide ; ed ancor io dal cielo
Traggo principio, e son da Giove anch’io.
Così pregando avea le braccia avvinte
Al sacro altare, allor clic la Sibilla
A dir riprese : Enea, germe del cielo,
Lo scender nc I’ Avcrno è cosa agevole ;
Chè notte c dì nc sta l’entrala aperta,
Ma tornar poscia a riveder le stelle,
Qui la fatica e qui V opra consiste.
Questo a pochi è concesso, cd a quei pochi
Gli* a Dio son cari, o per uman valore
Se ne poggiano al ciclo: a questi è dato
Come a celesti. Il loco tutto in mezzo
È da selve intricato, e da negre acque
De l’ internai Cocilo intorno è cinto.
Ma se tanto disio, se tanto amore
T’ invoglia di veder due volle Stigc
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DELL* ENEIDE
118
Lucus, et obscuris claudunt ronvallibus umbrae.
Sed non ante datur telluri* operta subire,
Auricomos quam quis decerp«erit arbore fetus.
Hoc sibi pulchra suum ferri Proserpina mtinus
Insliluil. Primo avulso non deficit aller
Aureus; et simili frondescit virga metallo.
Ergo alte vestiga oculis, et rite repertum
Carpe manu; namque ipsc volens facilisquc sequelur,
Si te fata vocaul: aliter non viribus ullis
Vincere, nec duro potcris convellere ferro.
Praeterea inerì exanimum tibi corpus amici,
( Heu nescis 1 ) lotamque incestai funere classem,
Dum consulta polis, nostroque in limine pende».
Sedibus hunc refer ante suis. et coudc s*-pulcro.
Due nigrns pecudes; ea prima piacula suolo.
Sic demum Iucca Slygios, regna invia vivis,
Adspicies. Diiil, presseque obmutuil ore.
Acneas mocsto defixus lumina vultu
Ingrcditur, linquens antrum; caccosque volutal
Evenlus animo secum. Cui fidus Achates
It comes, et pnribus curi» vesligia ligit.
Multa inter sese vario sermone serebant,
Qucm socium cxanimem vales, quoti corpus humandum
Diceret. Alquc illi Misenum in litore sicco,
Ut venere, vident indigna morte pcremlum;
Misenum Acoliden, quo non praestantior alter
Aere ciere vlros, Marlemque accendere cantu.
Hecloris hic magni fucrat comes, llcclora circum
Et lituo pugnns insignis obibat et basta.
Postquam illuni vita victor spoliavit Achillcs,
Dardanio Aeneac sesc fori issi mus heros
Addiderat socium, non inferiora secutus.
Scd tum, forte cava dum personat aequora concila,
Demcns, et cantu vocal in certamina divos,
Aemulus cxccplum Triton, si credere dignura est,
Inter saxa virnm spumosa immerserat unda.
Ergo omnes magno circum clamore fremebant;
Praeciptie pius Aencas. Tum iussa Sibjllae,
Ilaud mora, festinant flentcs, aramque sepulcri
Congercre arboribus, cocloquc educere certant.
Itur in antiquam silvani, stabula alla ferarum :
Procumbunt piccae; sonai icta sccuribus ilei;
E due volle l’ abisso, c soffrir osi
Un cosi grave affanno, odi che prima
Oprar ronfienti. È ne la selva opaca
Tra valli oscure c dense ombre riposto
E tic l' arbore slesso un lento ramo
Con foglie d' oro, il cui tronco è sacrato
A Giuno interna ; c chi seco divello
Questo non porla, ne* secreti regni
Penetrar di Plutone unqun non potè.
Ciò la bella Proserpina comanda,
Che per suo dono il chiede ; e svelto I* uno
Tosto l’ altro risorge, e parimente
Ha la sua verga c le sue chiome d’ oro.
Entra nel bosco, c con le luci in allo
Lo cerca, il trova, e di tua man lo sterpa ;
Ch* agevolmente sterperassi, quando
Lo ti consenta il Fato. In altra guisa
Nè con man. nè con ferro, nè con altra
Umana forza, mai Ila che si schianti,
0 che si -tronchi. Oltre vii ciò nel lito
( Mentre qui badi e la risposta attendi )
Giace, lasso I d' un tuo, che tu non sai,
Disanimato e non sepolto un corpo,
Che lutti rende i tuoi legni funesli.
A questo procurar seggio e sepolcro
Pria eonvcrrntli. Or per sua purga in prima
Negre pecore adduci, e ’n colai guisa
Vedrai gli Elisi! campi, c i Stigii regni,
Cui vedere a' mortali anzi a la morte
Non è concesso. E qui la bocca chiuse.
Enea gli occhi abbassando, afflitto c mesto
De U antro uscio, tra sè stesso volgendo
1/ oscure profezie. Giva con lui
Il fido Acato, c con lui parimente
Traeo pensieri e passi. Erano entrambi
j Ragionando in pensar di qual amico,
Di qual corpo insepolto ella parlasse,
Clie coprir si dovesse ; allor che giunti
Nel secco filo in su l' arena steso
Veder Miscno indegnamente estinto;
j Miscno il figlio d’Kolo, clic araldo
Era supremo, c col suo fiato solo
Possente a suscitar Marte e Bellona.
Era costui del grand'Ettor compagno,
E de’più segnalati intorno a lui
Combattendo, or la tromba ed or la lancia
Adoperava: e poi clic'l fiero Achille
Ettore ancisc, come ardilo c fido
Seguì l'arme d'Enca: chè non fu punto
Inferiore a lui. Slava sul mare
Sonando il folle con Tritone a gara,
Quando da lui, ch'astio sentitine e sdegno,
( Se creder déssi ) insidiosamente
Tratto giù da lo scoglio, ov’era assiso.
Fu uè Tonde sommerso. Al corpo intorno
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LI UUO SESTO
III)
♦
Fraxiucaequc trabis cuneis cl liscile robur
Scindilur; ndvolvunt ingente* monlibus ornos.
[Sue non Acncas opera inler talia piimus
llorlatur socios paribusque accingiti» armi».
Atque haec ipse suo tristi cum corde volntat,
Adspcclans silvana immensam, et sic voce precatur:
Si nunc se nobis ille aurcus arbore ramus
Oslendal netnorc in tanto ! quando omnia vere
llcu! nimium de te voles, Alisene, Incula est.
Vii ca fatus crai, geminae quuin Torte colurobae
lpsa sub ora viri coulo venere volanles,
Et viridi sedere solo. Tura maximum hcros
Maternas agnoscil aves, laetusque precatur:
Esle duces, o, si qua via csl, cursumquc per auras
Dirigile in lucos, ubi pinguem dives opaca l
Ramus hurnutn. Tuque, o, dubiis ne delicc rebus,
Diva parens. Sic eflalus vestigio pressil,
Observans quae signa feranl, quo tendere pergaut
Fascentes illae tantum prodire volando,
Quantum acie possent oculi servare sequentum.
Inde, ubi venere ad Tauces graveolenti» Averni,
Tollunt se celcrcs; liquidumque per aera lapsae
Sedibus optalis geminae super arbore sidunl.
Discolor unde auri per rumos aura refubil.
Quale sole! sii vis brumali frigore vi sai in
Fronde virerò nova, quod non sua seminai arbos,
Et croceo Telu terctes circuindare truncos:
Talis eral specics auri frondentis opaca
Ilice; sic leni crepitabat bractea vento.
Compii Acneas exlcmplu, avidusque refriugil
Cunclanlcm, et vatis portai sub teda Sibyllac.
Ncc minus intereo Misciium in litorc Teucri
Flcbant, cl cineri ingrato suprema fé re baili.
Principio pinguem taedis et robore sedo
Ingenlcm struxere pyraiu: cui frondibus atris
| Convocali già tulli, amaro pianto
Ed alle strida insieme ne gitlaro;
E più de gli altri Enea. Poscia seguendo
Quel ch’era lor da la Sibilla imposto,
Gli apprestaron Lescquie. Entràr nel bosco ,
Di fere antico albergo; cd elei ed orni
E fratini atterrando, alzar gli altari,
Poser la tomba, fabbricar la pira,
E la spinsero al cielo. Il Frigio duce
Fra le sue schiere di bipeune armato
A par de gli altri, e più di tulli ardente
Di propria mano adoperando, a l'opra
Esodava i compagni; e fra sé slesso
Pensoso, inverso il bosco il guardo inleso,
Cosi pregava: Oli se quel ramo d’oro
Ne si scoprisse in questa selva intanto,
Coinè n'ha la Sibilla, oimè, pur troppo
Di te, Miseno, annunziato il vero!
Ciò disse appena, ed ecco da traverso
Due colombe venir dal cicl volando,
Ch'avanti a lui sul verde si posero.
Conobbe il magno eroe le messaggere
Ile la sua madre, c lieto orando: Oh disse,
Siatemi guide voi, materni augelli,
S’a ciò senticr si trova; ile per l'aura
Drizzando il nostro corso, ov’è de l'ombra
Del prezioso arbusto il bosco opaco.
E lo, madre benigna, in si dubbioso
Passo, del lume tuo ne porgi aita.
E, ciò dello, fcrmossi. Elle pascendo,
Quanto l’occhio scorgea di mano in mano
Giunser ove d'Averno era la bocca:
E 'I tetro alilo suo schivando, in allo
Ratte l’alt spiegaro, e dal ciel puro
Al desiato loco in giù rivolle
Si posàr sopra a la gemella piaula;
ludi tra Trondi e frondi il color d’oro,
Che diverso dal verde usc.ìa raggiando,
Di tremulo splendor l’aura percosse.
Come nc'boschi al brumai tempo suole
Di vischio un cesio in altrui scorza nato
Spiegar verdi le Trondi e gialli i pomi,
E con le sue radici a i non suoi rami
Abbarbicarsi intorno; cosi ’l bronco
Era de l'oro avviticchiato a Felce,
Ond'cra surlo, c così lievi al vento
Crepitando movea l'aurato Toglie.
Tosto che 'I vide Enea di piglio dielli,
E disioso, ancor che duro e valido
Gli sembrasse, a la fin lo svelse, c seco
A l'indovina vergine lo trasse.
.Non s'intermise di Miseno in tanto
Cotidur ('esequie al suo cenere estremo.
E primamente la gran pira estruda,
Di pingui tede e di squarciali roveri
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no
DELL 1 ENEIDE
Intesimi latera, et feralcs ante cupressos
Constiluunl, decorantque super fulgenlibus armis.
Pars cnlidos lalices et aèna mulantia flnrnmis
Expediunt, corpusquc lavant frigcolis et unguunt.
Fil gemitus. Tum membra loro defleln repentini,
Purpureasquc super veste», vclamina noia,
Coniiciunt. Pars ingenti subicrc feretro,
(Triste ministcrium, ) et subiectam more parenlum
Aversi lenuere facem. Congesta cremanlur
Turca dona; dapes, fuso cratere» olivo.
Postqnam collapsi cineres, et fiamma quicvit,
Keliiquias vino et bibulam lavere favillam;
Ossoque leda cado lexit Corynaeus aeno.
Idem ter socios pura circumtulit unda,
Spargeus rore levi et ramo felicis olivac,
Luslravilque viro», dixilquc novissima verbo.
At pius Aeneas ingenti mole scpulrrum
Impouit, suaque arma viro, remumque tuhamque,
Ulonte sub aerio: qui nunc Misenus ab ilio
Dicitur, aelernumque tene! per saecula nomcn.
llis odia properc cxsequitur praeccpta Sibyllae.
Spelunca alta fuil, vastoque immanis hiatu,
Scrupca, tuta lacu nigro nemorumque tenebrisi
Guam super haud ullac poterant impune volantcs
Tendere iter pennis: tali» sese lialitus alris
Faucibus effundens supera ad convexa ferebal :
[ Undc locum Graii dixerunt nomine Aornon. ]
Quatuor hic primum nigrantes terga iuvencos
Constituit, frontique invergit vina saccrdos;
Et, summas carpens media intcr cornua sclas,
Ignibus impouit sacris, libainina prima,
Voce vocans ficcateli, coeloquc Ereboque potentem;
Supponimi alii cultrus, tepidumque cruorem
Suscipiunt pateris. Ipsc atri vcllcris agnam
Aeneas mairi Kumcnidum magnaeque sorori
Elise ferii, stcrilemque libi, Proserpina, vaccam;
Tum Stygio regi nocturnas inrhoal aras,
El solida imponil taurorum visccra flamini».
Pingue oleum super infundens ardentibus cxlis.
Ecce auleni, primi sub lumina solis et ortus,
Sub pedibus mugire solum, et iuga coopta rnoveri
V'alzùr cataste: di funeste frondi,
D’atri cipressi ornar la fronte c i lati,
E piantar nc la cima armi e trofei.
Parte di loro al fuoco, c parte a Tacque,
E parte intorno al freddo corpo intenti.
Chi lo spogliò, chi lo lavò, chi l’unse.
Poiché fu pianto, in una ricca bara
Lo collocaro, e di purpuree vesti
De'suoi piò noli o più graditi arnesi
Gli fcron fregi e mostre e monti intorno.
Altri ( pietoso e lri?to ministero)
Il gran feretro a gli omeri addossàrsi;
Altri, com’è de'più stretti congiunti
Antica usanza, vólti i volli indietro
Tenner le faci, e dicr-foco a la pfra;
E gran copia d'incenso e di liquori,
E di cibi c di vasi ancor con essi,
SI come è l’uso antico, entro gillàrvi.
Poiché cessar le fiamme, c ’n ce no rissi
Il rogo e ’l corpo, le reliquie c Tossa
Furon da Corinéo Ira le faville
Ricerche c scelte, e di vin puro asperse;
Poi di sua mano acconciamente in una
Di dorato metallo urna riposte.
Lo stesso Corinéo tre volte intorno
Con un rampollo di felice olivo
Spruzzando di chiar’onda i suoi compagni,
Li purgò tulli, c*l vale ultimo disse.
Oltre a ciò, fece Enea per suo sepolcro
Ergere un’alta e sontuosa mole,
E Tarmi e’I remo e la sonora tuba
Al monlc appese, clic d’Aerio il nome
Fino allor ebbe, cd or da lui nomato
Miscno è detto, c si dirà mai sempre.
Ciò finito, a finir quel che gT impose
La profetessa, incontanente mosse.
Era un'atra spelonca, la cui bocca
Fin dal baratro aperta, ampia vorago
Facea di rozza c di scheggiosa roccia.
Da negro lago era difesa intorno,
E da selve ricòlta annose e folle,
liscia de la sua borea a l’aura un fialo,
Anzi una peste, a cui volar di sopra
Con la vita a gli uccelli era interdetto;
Onde da ‘Greci poi si disse A verno.
Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
Di negro tergo. In Sibilla in fronte
Riversò (or di vin le lazze intere;
E da ciascun di mezzo le due corna
Di setole maggiori il ciulTo svelto,
Diè per saggio primiero al santo foco,
Ecale ad alla voce in ciò chiamando,
De l’Èrebo c del ciel nume possente.
Parte di lor con le coltella in mano
Le vittime svenando, e parte in vasi
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LIBRO SESTO
121
Silvarum, visaeque canes ululare per umbram, Stava il sangue accogliendo. Egli a la .Notte,
Adventanlc dea. Procul o, procul csle, profani, Che delle Furie è madre, ed a la Terra,
Conclamai vales, totoque absistitc luco; Ch’è sua sorella, con la propria spada
Tuque invade viam, vagiuaque eripe ferrum; Di negro vello un'agna, ed una vacca
Nunc animi» opus. Aenea, nunc pectore firmo. Sterile a te, Proscrpina, percosse.
Tantum elTala, fureus antro se immisi! aperto,
llle duccm haud timidis vadeutem passibus aequat.
Ili, quibus impcriurn est animarum, Umbraequc
silente»,
El Chaos, et Plilegcthon, loca noclc lacentia late,
Sii inihi fas audila loqui; sit numine vostro
Pandere res alla terra et caligine mersas.
Ibant obscuri sola sub nocte per umbram,
Perque domos Ditis vacuas, et mania regna:
Quale per incerisi» lunam sub luce maligna
Est iter in all vis, ubi coelum condidit umbra
Iupilcr, et rebus nox abstulit atra colori-m.
Vcslibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci
Lucius et ullrices posucrc cubili» Curac;
Pallcnlesque liabilanl Morbi, trislisque Scncctus,
El Melus, et malesuada Farocs, ac turpis Egcstas:
Terribilcs visu forraae: Lelumque, I.abosquc;
Tum consanguincus Leti Sopor, et mala mentis
Gaudio, mortiferumque advcrjo in limine Bcllum,
Fcrrciquc Eumcnitlum thalami, et Discordia demens,
Vipcreum crincin vittis innexa crucntis.
In medio rnmos annosaque brachia pandi!
llmus opaca, ingens, quam sedera Somma vulgo
Vana tenere ferunt, foliisque sub omnibus hacrcnt.
lluitaquc praetcrca variamm monslra fcrarum,
Centauri, in foribus stabulali!, Scyllaequc biformes,
Et centumgcminus Briarcus, ac bcllua Lernae
llorrcndum stridens, flammisque armala Chimacra;
Gorgoncs, llarpyiaequc, et forma tricorporis umbrac.
Poscia a limpcrador dc’regni inferni
Notturni altari ergendo, i tauri interi
Sopra le fiamme impose, c di pingue olio
Le bollenti lor viscere cosperse.
Ed ecco a l'apparir col primo sole
Mugghiò la terra, si crollare i monti,
Si sgominar le selve, urlàr le Furie
Al venir de la dea. Via, via profani,
Gridò la profetessa, itene lunga
Dal bosco tutto; e tu meco te n'entra,
E la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
Fa d’anirno c di cor costante e fermo.
Ciò disse; c da furor spinta, con lui,
Ch'adeguava i suoi passi arditamente,
Si mise dentro a le terrete cose.
0 dii, che sopra Palme imperio' avete,
0 tacif Ombre, o Flegetonte, o Cao,
0 ne la notte e nel silenzio eterno
Luoghi sepolti c bui, con pace vostra
Siami di rivelar lecito a'tivi
Quel ch'ho de’ morti udito. Ivan per entro
Le cieche grolle, per gli oscuri e vóti
Regni di Dite; e sol d’errori e d’ombre
Avean rincontri. Come dii per selve
Fa notturno viaggio, allor clic scema
La nuova luna è da le nubi involta,
K la grand'ombra del terrestre globo
Priva di luce c di color le cose.
Nel primo entrar del doloroso regno
Stanno il Pianto, l’Angoscia, c le voraci
Cure, e i pallidi Morbi e *1 duro Affanno
Con la debil Vecchiezza. Evvi la Tema,
Evvi la Fame: una ch’è freno al bene,
L’altra stimolo al male: orrendi tutti
E spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
La Povertà, la Morte, e de la morte
Parente il Sonno. Avvi de’cor non sani
Le non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
De le genti omicida, e de le, Furie
1 ferrati covili, il Furor folle,
L’empia Discordia che di serpi ha *1 crine,
E di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le broccia annose al cielo
Un olmo opaco e grande, ove si dice
Che s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
V’ha la sua vaga Immago e ’l suo fantasma.
Molle, oltre a ciò, vi son di varie fere
Mostruose apparenze. In sii le porte
I biformi Centauri, e le biformi
Due Sciite: Briaroo di cento doppii:
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122
DELL* ENEIDE
Compii liic subila trepido* formuline ferrum
Aeneos; striclamque aciem venientibu» obferl,
Et, ni docla comcs tenue.* sine corpore % itas
Admoneat volitare cava sub imaginc formae,
Irruat, cl fruslra ferro divcrberel umbras.
llinc via, Tartarei quoe ferì Achcronlis ad undas:
Turbidus liic corno vastaque voragine gurg*s
A estuai, atque omnem Cocylo cruciai arenam.
Porlilor lias horremius aquas et ilumina servai
Terribili squalorc Charmi: cui plurima mento
Canilies incitila iaccl; slant lumina damma;
Sordidus ex humcm nodo dependei amictus.
Ipsc ratem conto subigii, velisque ministrai,
El ferruginea subveelat corpora cymha
lam senior; sed cruda deo viridisque seneelus.
lluc omnis turba ad ripas effusa ruebat,
Malrcs atque viri, dcfunctaque corpora vita
Mugnanimùm licroum, pueri innuptaeque puellae,
Imposilique rogis iuvenes ante ora parenlum;
Quam multa in silvia auctumni frigore primo
Lapsa cadimi folta, aul ad (erram gurgilc nb allo
Quam mullac glomeranlur aves, ubi frigidus aunus
Trans ponlum fugai, cl terris immiltil aprici*.
Stabanl oraulcs primi Iransinitlere cursum,
Tcndcbatilquc manus ripac ullcrioris amore;
Navila sed Irislis nunc Itos nunc accipil illos:
Asl alios longc submolos arcct arena.
Àcncas, ( miralus cnim motusque tumulili ),
Die, ait. o virgo, quid vull concursus ad amnem ?
Quidve pclunl animae? vel quo discrimine ripas
Hae tinquunl, illae remis vada livida verrunl ?
Olii sic breviter fata est longaeva sacerdos:
Anchina generate, dcùm certissima proics,
Cocyli stagna alla vides, Slygiamquc poludem,
DI cuius iurarc limoni el fallerò nuracn.
llacr. omnis, quam ccrnis,ìnops inhumalaque turba est;
Portitor ilio Charon; hi, quos veliti unda, sopitili.
Ncc ripas dalur horrcndas cl rauca fluenla
Transporla re prius, quam sedibus ossa quierunt.
Cenlum errarli annos, volilanlque hacc lilora circum.
Tum demum admissi stagna ex optali revisunt.
Conslilit Anchisa salus, et vesligia pressi!,
Multa putans, sorlcmquc animo miseralus iniquam.
Cernii ibi moeslos et mortis honore carenles
Leucaspim cl Lyciac ductorcm classi* Oronlem:
Quos, simul a Troia ventosa per acquora veclos,
Obrttil Auslcr, aqua involvcns navemque virosque.
La Chimera di ire, che con tre bocche
II fuoco avventa: il gran Serpe di Lorna
Con sette tesle; con Ire corpi uriiaui
Erilo e G e rione; e con Medusa
Le Gorgoni sorelle; e Tempie Arpie,
Che son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso Enea da subita paura
Strinse la spada, c la sua punta volse
Incontro a Tombre; e se non ch’ombre c vite
Vóle de’corpi e nude forme c lievi
Conoscer ne le fé* la saggia guida,
Avrebbe impeto fallo, c vanamente
In vane cose ardir mostro e valore.
Quinci prcser la via là ’vc si varca
Il Tartareo Acheronte. Un fiume è questo
Fangoso c turbo, e fa gorgo c vorago,
Che bolle c frange, e col suo negro loto
Si devolve in Codio. È guardiano
E passeggierò a questa riva imposto
Carón demonio spaventoso c sono,
A cui lunga dui mento, incolla ed irta
Pende canuta barba Ha gli occhi accesi
Come di bragia. Ila con un groppo al collo
Appeso un lordo ammanto, c con un palo,
Che gli fa remo, c con la vela regge
I/alTumigalo legno, onde tragitta
Su l'altra riva ognor la gente morta
Vecchio è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
Come dio, vigoroso c verde sempre
A questa riva d’ogn* intorno ognora
D’ognì età, d’ogni sesso c d’ogni grado
A schiere si traean ('anime spente,
E de'figli anco innanzi a'padri estinti.
Non tante foglie ne l'estremo autunno
Per le selve cader, non tanti augelli
Si veggon d'alto mar calarsi a terra,
Quando il freddo gli caccia a i liti aprichi,
Quanti eran questi. I primi avanti orando
Chicdean passaggio, c con le sporte mani
Mostravan il disio de Palla ripa.
Ma il severo nocchiero, or questi or quelli
Scegliendo o rifiutando, una gran parte
Lunge lenea dal porto e da l’arena.
Enea la moltitudine e 'I tumulto
Maravigliando: Ond'è, vergine, disse,
Questo concorso al fiume? c qual disio
Mena quesl’alrae? c qual grazia, o divieto
Fa che queste daa volta, e quelle approdano?
A ciò la profetessa brevemente
Così rispose: Enea, stirpe divina
Veracemente ( chè di ciò n'accerta
Il qui vederli ) , là Cocilo stagna;
Quinci va Sligc, la palude e 'I nume
Per cui di spergiurar fino a gli dei
Del cielo è formidabile c tremendo.
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LIBRO SESTO
123
Eccc gubernalor sese Palinurus agebal:
Qui Libyco nupcr cursu, dum sidera servai,
Exciderat puppi medi» eiTusus in undis.
Hunc ubi vii mulla moestum cognovit in umbra,
Sic prior alloquilur: Quis le, Palinure, deorum
Erìpuil nobis, medioquc sub aequorc mersit ?
Die age. Namque mihi, falla* tiaod ante reperii»,
Hoc uno responso auimum delusil Apollo,
Qui foro te pomo incolumcm, flnesque cane bai
Vcnlurum Ausonios. En haee promissa fldes est ?
file autem: Ncque le Plioebi cortina fcfellil,
Uux Anchisiada, nec me deus aequore mersit.
Namque gubernaclum, multa vi forte revulsum,
Cui datus haerebam custos, cursusque regebam,
Praecipilans trmi.mecum. Maria aspera iurn,
Non ullum prò me lantum cepisse limorem,
Quam tua ne, spoliata armis, escussa magislro,
Delkeret lantis nnvis surgentibus undis.
Tres Notus hibernas immensa per acquora noclcs
Vexil me violenti» aqua; vi* lumine quarto
Prosperi Itoliam summa sublimi* ab unda.
Paullatim adnabam lerrae: iam tuia lencbam,
Ni gens crudeli* madida cum veste gravalum,
Prensanlemquc uncis manibus capila aspcra monlis,
Ferro invasissct, praedamque ignara pillasse!.
Nunc me fluclus habet, vcrsanlquc in lilorc venti.
Quod te per codi iucundum lumen et auras,
Per gcniiorem oro, per spes surgenlis lidi:
Eripe me bis, invicte, malia: aut tu mihi tcrram
Iniice, namque potes, portusque require Velino»;
Aut tu, si qua via est, si quam libi diva creatrix
Ostendil ( ncque enim, credo, sine mimine divani
Flumina tanta paras Slygiamque innarc puludem ),
Da dcxlram misero, et tecum me lolle per undas:
Sedibus ut saltelli placidis in morte quicscam.
Talia fatus eral, coepit quum talia vates:
linde liaec, o Palinure, libi tam dira cupido?
I Questi è Caronte, il suo tristo nocchiero:
| Quella turba che passa, è de’sepolli:
Questa che torna è de’mcschini estinti
Che nè tomba, nè lacrime, nè polve
I Ebber morendo. A lor non è concesso
i Traictlar queste ripe e questo fiume,
; Se pria Tossa non han seggio c covcrchio.
Erran cent'anni vagolando intorno
A questi liti, e il desiato stagno
Visitando sovente, infin ch’ai passo
! Non sono ammessi. Enea di ciò pensando,
; Mosso a pietà de la lor sorte iniqua,
Fcrmossi; cd ecco incontro gli si fanno
Mesti, d’esequie privi e di sepolcro
Leucaspi, e ’l conduttor de’Licii Oronle,
Ambi Troiani, ambi dal vento insieme
Coi Liei! tutti, e con l’intera nave
Nel mar sommersi.
Appresso Palinuro,
Il gran nocchier de la Troiana armata,
Che dianzi nel tornar di Libia, il cielo
E le stelle mirando, in mar fu tratto.
A costui si rivolse; e poiché Tcbbo
Per entro una grand’ombra appena scorto,
(.osi prima gli disse: 0 Palinuro,
E qual fu de gli dei di’ a noi li tolse.
Ed a Tonde ti diede? Or lo mi conta:
Chè deluso da Febo unqua non fui,
Se non se in tc: Febo predisse pure
Che tu nosco del mar sccuro e salvo
Italia attingeresti. Ali dunque un dio,
E dio del vero, in tal guisa ne froda?
Rispose Palinuro: Indilo duce,
Nè Toracol d’Apollo ha le deluso,
Nè l'ira ha me di Dio nel mar sommerso;
Chè ’l temone, ond’io mai non mi divclsi
Per tua salute, ancor per man ritenni
Allor ch'in mar io caddi, lo giuro, Enea,
Per Tonde irale, che di me non lanlo.
Quanto del luo periglio ebbi limorc.
Clic non la nave tua, del mio gotemo
i Spogliala e del suo freno, al mar già gonfio
Restasse in preda. Austro tre notti intere
Con la sua correntia per l’ampio mare
Mi trasse a fona. Il quarto giorno appena
Discoverta l'Italia, a poco a poco
| M’accostava a la (erra; c giunto ornai
Così com’era ancor di veste grave,
E stanco e molle, con ('adunche mani
M’aggrappata a la ripa, c salto fòro;
Se non che ignara e fera genie incontro,
Coin’a preda marina, mi si fece,
E col ferro m’ancise. Or lungo a i fili
Vassene il corpo mio ludibrio a’ venti,
E scherzo ai fiditi. Ed io, signore invitto,
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mai.' ENEIDE
Tu Slyglas inliumatus aqnas amncmque sevcrum
Eumonidum adspicies, ripamvc inìtissus adibì» ?
Desine fata definì flccli sperare prccando,
Sed cape dieta mcmor, duri solatia casus.
Nani tua finitimi longc lalcqnc per urbcs,
l’rodigiis acti coclcslibus, ossa piabunt;
Et staluent lumiilum, et liiniulo solcmnia mittcnl;
Aclcrnumquc locus Palinuri nomcn liabebit.
Ilis dictis curar omolac, pulsusquc parumpcr
Corde dolor tristi: gaudct cognomine terra.
Ergo iter inccplum peragunt, flurioque propinquant,
Novità quos iam inde ut Stygia prosperi ab unita
Per tacitimi ncmut ire, pcdcmquc adrertere ripae,
Sic prior aggredilur dictis, alquc increpat ultro:
Quisquis cs, a rinato* qui nostra ad flumina tcndis,
Fare ago, quid venlas, iam istinc, et comprime gres-
sum.
Lmbrarum hic locus est, Somni Noctisquc soporcc;
Corpora vira nefas Stygia vociare carina.
Noe vero Alciden me sum lactalus ctmlem
Accepissc lacu, ncc Thcsea Piritlioumque:
Dls quamquam geniti alque invidi viribus essenl.
Tartareum ille manu ruslodem in vincla pelivi!,
Ipsius a solio regis, traxitquc trcmcnlcm:
Ili dominam Ditis tlialamo deducerc adoni.
Quac contro brcviter fata est Amphrysia vales:
Nullae tiic insidine tales; absiste moveri;
Nec vim tela lerunt. Lied ingens ianitor antro
Adcmiim lalrans cxsangues terrea! umbrns;
Casta licei patrui servai Proscrpina limen.
Troius Acneas, pietatc insigni» et armis,
Ad gcnilorcm imas Èrebi descendit ad umbras.
Si le nulla romei tantac pietalis imago;
At ramino lume ( aperii ramum, qui vesto lalcbat )
I Per la superna luce, per quell’aura,
Onde si vive, per tuo padre Anchisc,
Per le speranze del tuo figlio lulo,
l' re goti a sovvenirmi; o clic di terra
Mi copra ( come puoi ) cercando il corpo
Per la spiaggia di Velia, o in al Ira guisa;
| S' altra ne ti sovviene, o li si mostra
Da la tua diva madre; chè non senza
Nume divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi la Ina destra, e leco tramali
Olire a quell' acque, perchè morto almeno
Pace trovi e riposo. Arca ciò dello,
Quando cosi la vergine risposo :
Ah Palinuro, c qual dira follia
A ciò t' invoglia ? Non sepolto adunque
L’ acque di Slige, e la severa foce
[ Traictlar de P Eumcnidi presumi ?
Tu di qui trarli a l'altra riva intendi
Senza commiato ? Indarno, indarno speri
i Che per nostro pregar fato si cangi.
Ma con questo f acqueta, e ti conforta
De l' infortunio tuo; chè quelle terre
Vicine al luogo, ove il tuo corpo giace
Da pestilenza e da prodigii astrette
Lo raccorranno, c con solenne rito
Gli faran sacrificii, esequie e tomba;
E da (c per innanzi avrà quel loco
Di Palinuro eternamente il nome.
Lieto d' un tanto onore, c consolato
Da tale annunzio, il travaglialo spirto
Restò contento ed appagato in parte.
Indi cammin seguendo, a la riviera
S' approssimaro; c il passeggicr da lungc.
Poiché senza far motto entro a la selva
Passar gli vide e '«dirizzarsi al vado :
Olà, ferma costi, disse gridando,
Qual che tu sii, eli' al nostro fiume armato
Tcn vai si baldanzoso; e di costinci.
Di' cbi sei, quel che cerchi, c perchè vieni;
Cliè notte solamente c sonno ed ombre
Ilan qui ricetto, e non le genti vive,
Cui di varcare al mio legno non lece.
E s' Ercole c Teséo e Piritoo
Già v’ accellai, scorno e dolore io n' ebbi ;
Chè 1’ un d'essi il Tartareo custode
Incatenovvi, e, di sotto anco al seggio
Del proprio re, tremante l' aura il trasse :
E gli altri infin del maritate albergo
Rapir di Dite la regina osaro.
Nulla di queste insidie, gli rispose
La profetessa, a macchinar si viene.
Stanne sicuro; e quest’ arme a difesa
Si portan solamente, c non ad onta.
Spaventi il Can trifauce a suo diletto
Le palli))’ ombre; eternamente latri
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LIBRO SESTO
125
Agnoscas. Tumida ex ira tum corda residunt.
Nec ptura liis. Ille admiraos venerabile donum
F.ilalis virgae, lungo posi tempore visura,
Caerulcam adterlil puppim, ripaeque propinquat.
Inde alias animas, quac per iuga lunga sedebant,
Dclurbal, laxalque foro*: simul accipil alveo
Ingenlem Àenean. Gemuil sub pondere cymba
Sulilis, ac multam accepil rimosa paludcm.
Tandem trans fluvium incolumis valemque virumque
Informi limo glaucaque exponit in ulva.
Ccrberus baco ingens latratu regna trifauci
Personat, adverso recubans immanis in antro.
Cui vales, horrcrc videns iam colla colubris,
Mellc soporatam et medicatis frugibus offam
Obiicit. lite fame rabida trio gultura pandens
Corripit obiectam, atque immania terga resolvit
Fusus homi, totoque ingcns extenditur antro.
Occupai Aencas aditum custode sepullo,
Evaditque celer riponi irremeabili» undac.
Continuo auditae voces, vagitus et ingens,
Infantumque animac flentcs in limine primo :
Quos dulcis vitac cxsortcs, et ab ubere roptos,
Abstulil atra dies, et funere mersil acerbo,
llos iuxta falso damnati crimine morti*.
Nec vero hoc sine sorte dalae, sine iudice, sedes.
Quaesitor Minos urnam movet; ille silentum
Conciliumquc vocat, viUsque et crimina discit.
Proxima deinde tcnent mocsli loca, qui sibi lclum
Virgilio vol. i-sicn.
Ne T antro suo : col suo marito e zio
Si stia casta Proserpina mai sempre,
Clic di nulla con cale. Enea Troiano
È questi, di pietà famoso e d‘anni.
Che per disio del padre infino al fondo
l)c T Èrebo discende; c se V esempio
Di tanta carità non ti commovc,
Questo olmeti riconosci. E fuor del seno
D’oro il tronco traendo, altro uon disse.
E rimirando il vcncrabil dono
De la verga fatai, già di gran tempo
Non veduto da lui, 1* orgoglio c Tira
Tosto depose, c la sua negra cimba
A lor rivolse, c ne la ripa slette.
Indi i banchi sgombrando e 'I legno tutto,
L’ anime, che già dentro erano assise,
Con subito scompiglio uscir ne fece,
E T grande Enea v* accolse. Àllor ben d'altro
Pare, clic d’ ombre carco ; e sì com* era
Mal contesto e scommesso, cigolando
Cliinossi al peso, più d’ una lissura
A la palude aperse. Al fin pur salvi
Ne l’ altra ripa, tra le canne c i giunchi
Sul palustre suo limo ambi gli espose.
Giunti che furo, il gran Cerbero udirò
Abbaiar con tre gole, e T buio regno
Intonar tutto; indi in un antro immenso
Sci vidcr pria giacer disteso avanti,
Poi sorger, digrignar, rabido Turai,
Con tre colli arruffarsi, e mille serpi
Squassarsi intorno. Allor la saggia maga,
Tratta di mele e d’ incantate biade
Una tal soporifera mistura.
La gittò dentro le bramose canne.
Egli ingordo, famelico c rabbioso
Tre bocche aprendo, per tre gole al ventre
Trangugiando maudolla, c con sei lumi
Chiusi dal sonno, anzi col corpo tulio
Giacque ne l'antro abbandonato c vinto.
Cerbero addormentalo, occupa Enea
D’ Èrebo il passo, c ratio s* allontana
Dal fiume, cui citi varca unqua non riede.
Sentono al primo entrar voci c vagiti
Di pargoletti infanti, che dal latte
E da le culle acerbamente svelti
Vidcr ne* primi dì 1' ultima sera.
Varcano appresso i condannali e morti
Senza lor colpa, c non senza compenso
Di giudizio e di sorti Ilan quelle genti
Così disposti e divisati i lochi.
Sta Minos ne V entrata, c 1' urna avanti
Tien de' lor nomi, c le lor vite esamina,
E le lor colpe ; e qual è questa o quella,
Tal le dà sito, c le rauna e parte.
Passnn di mano in mano a quei che feri
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DELL’ ENEIDE
12fi
Insonles pcpcrcrc marni, luccmquo pcrosi
Proiecerc animas. Quam vellcnt aclhere in allo
Nunc el paupcricm et duros perferrc laborcs !
Fas obslat, trisliquc palus inamabilis linda
Alligai, et novies Slyi inlcrfusa coèrcet.
Nec procui bine partem fusi nionsiranlur in omnem
Lugcntes campi; sic illos nomine dicunl.
Hic, quos durus amor crudeli tabe peredit,
Secreti celant calles, el mjrrtea circum
Silva legit: curac non ipsa in morie relinquunl.
Ilis Pbaedram Procrinque loda, moesiamque Eri-
phylen,
Crudeli* nati monslranlem vulnera, cernii,
Evadnenque, el Pasipliaèn; bis Laodamia
It comes, el iuvenis quondam, nunc femina, Cacnis,
Hursus et in velcrem falò revoluto figuram.
Inlcr quas Phoenissa recens a vulnero Dido
Errabal silvo in magna: quam Troius hcros,
Ut primum invia steli!, agnovitque per umbras
Obscurarn, qualem primo qui surgcrc mense
Aul videi, aut vidissc pula!, per nubila, lunam,
Demisil lacrimas, dulcique affai us amore est:
InTclix Dido, vcrus milii nunlius ergo
Vcncrat, cxstinctam, fcrroque extrema secutam ?
Funeris beu libi causa fui ? Per sidera iuro,
Per superos, et, si qua Ildes tellure sub ima est,
Invilus, regina, luo de litorc cessi.
Scd me iussa deóm, quac nunc has ire per umbra<,
Per loca senta silu cogunt, noctemque profundam,
Imperite egere suis, nec credere quivi
(lune lanlum libi me disccssu ferre dolorcm.
Sislc gradimi, (eque adspeclu ncsublrahc nostro.
Qucm fugis? Estremimi falò, quod le alloquor, hoc est.
Talibus Aencas ardentem et torva luentem
Lenibat diclis animum, lacrimasque ciebat.
fila solo lixos oculos aversa tenebal;
Nec magi* inccpto vullum sermone movetur,
Quam si dura siici aut stet Marpcsia cautes.
Tandem corripuil scse, olque inimica refugit
In nemus umbriferum: comuni ubi pristinus illi
Respondcl ctiris, aequatque Sychacus amorem.
Nec minus Aencas, casu percussus iniquo,
Proscquitur lacrimans longc, el miseratur cuntem.
Incontro a sè, la luce in odio avendo
E r alme a vile, anzi al prescrillo giorno
Si son da loro indegnamente ancisi.
Ma quanto ora vorrebbono i meschini
Esser di sopra, c povertà vivendo
Soffrire, e de la vita ogni disagio I
Ma I Falò il niega, e nove volle intorno
Stigc odiosa li ristringe c fascia.
Quinci non lunge si distingue un'ampia
Campagna, che del Pianto è nominata ;
Per cui fra chiusi colli e fra solinglie
Selve di mirti, occulte se ne vanno
L'almo, ch'ho fcramenlc orse c consunte
Fiamma d’amor, eh' ancor ne’ morii è vivo.
Qui vider Fedra e Procri ed Erifile
Infida moglie c sfortunata madre.
Di cui fu parricida il proprio Aglio ;
\idrr Laodamia, Pasife, Evadile ;
E Ceneo con esse, che di donna
In uomo, e d'uomo alAn cangiossi in donna.
Era con queste la Fenicia Dido,
Clic di piaga recente il petto aperta
Per la gran selva spaziando andava.
Tosto che le fu presso, Enea la scorse
Per entro a f ombre, qual chi vede o crede
Veder tal volta infra le nubi e 'I chiaro
La nova luna, allor che i primi giorni
Del giovinetto mese appena spunta ;
E di dolcezza intenerito il corc
Dolcemente mirolla, e pianse c disse :
Dunque, Dido infelice, e fu pur vera
Quell’ empia che di te novella udii,
Clic col ferro finisti i giorni tuoi ?
Ah ch'io cagion ne fui ! Ma per le stelle,
Per gli superni dei, per quanta fede
Un qua giù, se pur v 1 ha, donna, ti giuro
Che mal mio grado dal tuo filo sciolsi.
Fato, Fato celeste, imperio espresso
Fu del gran Giove, c quella stessa forza,
Che da T eterea luce a questi orrori
De la profonda notte or mi conduce,
Già da le mi divelse ; e mai creduto
Ciò di me non avrei, che ’l partir mio
Cagion li fosse ond'a morir ne gissi.
Ma ferma il passo, c le mio luci appaga
De la tua vista. Ah perchè fuggi ? c cui ?
Quest' è l' ultima volta, oimè I che 'I Fato
Mi dà di' io li favelli, e tcco io sia.
Cosi dicendo e Iagrimando, intanto
Placar tentava, o raddolcir quell’alma,
Ch’ una sol volta disdegnosa c torva
Lo rimirò ; poscia con gli occhi in terra,
E con gli omeri vòlta, a i detti suoi
Stette qual alpe a I* aura, o scoglio a Tonde,
Al fin mentre dicco, come nimica
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LIBRO SESTO
lì!
Inde datutn molitur iter. lamque aria tenebant
Ellima, quac bello clari secreta frequentane
Ilic illi occurrit Tydeus, bic inclytus armis
Partlienopaeus et Adrasti paltenlis imago;
Bic multum fleti ad superos belloquc caduci
Dardanidae: quos ilic omnes longo ordine ccrncns
Ingemmi , Glaucumquc , Medontaque , Thersilo-
chumquc,
Tres Antenoridas, Cercrique sacrum Polypboclen,
Idacumque, eliam currus, elioni arma teneotem.
Circumstant animae destra laevaque frequentes.
Nec vidisse semel salis est: iuvat usque morarì,
Et conferre gradum, et vcnicndi discere causas.
At Danaùni proccrcs. Agamemnoniacquc phalangcs,
llt fiderò virum, fulgcntiaquc arma per umbras,
Ingenti trepidare metu: pars vertere terga,
Ceu quondam petiere rates; pars (oliere vocem
Etiguam: inccptus clamor truslratur hianlcs.
Atque hic Priamiden lanialum corporc loto
Dciphobum vidi!, lacerum crudeliter ora,
Ora manusque ambas. populataque tempora raptis
Auribus, et Iruncas Inboncsto vulnero narcs.
Vii adeo agnovil pavitanlem et dira tegentem
Supplicia; et nolis compcllat vocibus nitro:
Deiphobe armipotens, genus alto a sanguine Teucri,
Quia tam crudeles optavi! sumere pocnas ?
Cui tantum de te llcuil ? Mihi fama suprema
Nuoto tulil fessuro vasta to caede Pelasgflm
Procubuisse super confusac slragis acerrimi.
Tunc egomet tumulum Ithocteo in litorc inanem
Constitui, et magna Manca ter voce vocavi.
Nomen et arma locum servane Te, amice, ncquivi
Conspicere, et patria decedens ponere terra.
Ad quae Priamides: IN itili o libi, amice, relictum;
Omnia Oeiphobo solvisti et funeris umbris.
Scd me fata mea te seelus esiliale Lacaenac
Bis mersere malia: illa haec monumenta reliquit.
Kamquc, ut supremam falsa inler gaudia noelem
Egerimus, nosti; et nimium meminissc ncccssc est.
Oli si tolse davanti, e ne la selva
Al suo caro Sicliéo, cui fiamma uguale
E par cura acccndea, si ricondusse.
Ni' perù mcn dolente, o mcn pietoso
Itestonne il Teucro duce ; ansi quant’ olire
Potè con gli occhi, e lungo spazio poi
Col pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia tornando al suo fatai viaggio
Giunse là ’ve accampata era in disparte
Gente di ferro e di valore armala.
Qui il gran Tidéo, qui 'I gran figlio di Marte
Parlenopéo, qui del famoso Adrasto
La pallid' ombra incontro gli si fece.
Quinci de' suoi più nobili Troiani
En gran drappello avanti gli comparve.
Pianse a veder quei gloriosi eroi,
Tanto di sopra disiati c pianti,
Come Glauco, Tcrsiloco, Mcdonte,
I tre Agli d' Antenore, il sacrato
A Cerere ministro Polifetc,
E T chiaro Idèo con l' armi anco c col carro.
Fatto gli avean costor chi da man destra,
Chi da sinistra una corona intorno.
Nè d' averlo veduto eran contenti.
Chi ciascun desiava essergli appresso.
Ragionar, passeggiar, far seco indugio,
E spiar come c d’ onde e perchè venne.
Ma de gli Argivi c le falangi e i duci,
Quand’egli apparve, e che tra lor ne l'ombre
I lampi folgorar de Farmi sue,
Ila gran timor furo assaliti ; c parte
Volscr le terga, come già fuggendo
Verso le navi, c parte alzàr le voci
Che per tema sembrar languide e Roche.
Ueifobo, di Priamo il gran liglio,
Vide ancor qui, che crudelmente anciso
In disonesta e miscrabil guisa
Avca le man, gli orecchi, il naso e 'I volto
Lacerato, incischiato c monco tutto.
Per temenza il meschino, c per vergogna
D'esscr veduto, con le tronche braccia
Un si brullo spettacolo celando,
Indarno si Tacca schermo c riparo :
Cliè al fin lo riconobbe, o con F usata
Domestichezza incontro gli si fece,
Cosi dicendo : Poderoso eroe,
Gran germoglio di Teucro, c chi si crudo
Fu mai, chi tanto osò, cui si permise
Che facesse di te strazio si fiero ?
La notte che segui F orribil caso
De la nostra ruina, io di te seppi
Che assalili i nemici, c di lor fatta
Strage, clic memorabile fla sempre,
Tra le caterve de' lor corpi estinti,
Stanco vie più clic vinto, al Dn cadesti;
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DELL' ENEIDE
Quum falalis equus saliti super ardua vcnil I
Pergama, el armatum peditem gravis atlulit alvo:
(Ila, cliorum simulans, evanles orgia circum
Ducebai Plirygias; flaminam media ipsa Icncbat
Ingcntem, el summa Danaos ex aree vocabat.
Tum me, confecluin curis soinnoque gravalum
Infclix liabuit Ulularmi?, pressilquc iacenlcm
Dulcis el alla quies placidacquc simillima morii.
Egregia intcrca coniunx arma omnia teclis
Emovet, el fidum capili subduxerat ensein:
Intra (cria vocal Mcnelaum, el limina pandil;
Scilìcel id rnagoum spcrans Tore munus amanti,
Et famam cxslingui vctcrum sic posse malorum.
Quid moror ? irrumpunt limiamo; comcs addilus una i
llortator scclcrum Aeolides. DI, (alia Graiis
Instaurale I pio si poenas ore refosco.
Sed le qui vivum casus, oge Tare vicissim,
Altulerinl. Pclagine venis erroribus actus,
An monitu divòm ? an quae le Fortuna Caligai,
III tristis sine sole doinos, loca lurbida, adircs ?
llac vice scrroonum roseis Aurora quadrigis
Iam medium aetlicrio cursu Iraicccral axem;
El fors omne datum Iralierent per talia lempus;
Sed romes admonuil, breviterque alTala Sibilla est:
Nox ruit, Acnea; nos fiondo ducimus lioras.
Ilio Incus est, parles ubi se via findii in ambas:
Devierà, quae Dilis magni sub mocnia lendit;
Ila e iter Elysium nobis: al laeva malorum
Exercel poenas, et ad impia Tartara millit.
Dciphobus conira: Ne saevi, magna sacerdos;
Disecdam, explebo numcrum, reddarque lencbris.
1 decus, i, nostrum; melioribus ulerc falis.
Tantum effatus, et in verbo vestigio lorsit.
Ed attor io di Reto in su la riva
A P ombra tua con le mie mani un vólo
Sepolcro eressi, e te gridai tre volte;
E ’l nome c P armi lue riserba ancora
11 loco stesso. Io tc, dolccVignore,
Nè veder, nè coprir di patria terra
Avanti al mio partir mai non potei.
Deifobo rispose : Ogni pietoso
Ogni onoralo officio, Enea mio caro,
Ila l'amor tuo vèr me compilo a pieno.
Ma I 4 empio Tato mio, T empia c malvagia
Argiva donna a tal m’ ha qui condotlo,
E tal di sè lasciò memoria al mondo,
llcn li ricorda ( c ricordar len dei )
Di quell 4 ultima notte che sì lieta
Mostrassi in pria, poi ne si volse in pianto,
Quando il fatai cavallo il salto fece
Sopra le noslre mura, c ’l ventre pieno
D* armale schiere ne volò fin dentro
A T alta ròcca. Allora ella di Bacco
Fingendo il coro, e con le Frigie donne
Scorrendo in tresca, una gran face in inano
Si prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
Io dentro alla mia camera ( infelice I )
Mi ritrovai sol quella notte; c stanco
Di tante che n* avea con tanti afTanni
Vegghiatc avanti, un tal prende» riposo
Che a morte più che a sonno era simile.
Fece la buona moglie ogni arme intorno
Sgombrar di casa, e la mia fida spada
Mi sottrasse dal capo. Indi la porla
Aperse, c Menelao dentro T'accolse,
Cosi sperando un prezioso dono
Fare al marito, c de 4 suoi falli antichi
Riportar venia. Ctie più dico ? Basla
Gir enlràr là V io dormia; e con essi era
Per consultare Ulisse. 0 dii, se giusto
È *1 priego mio, ricompensale voi
Di quest 1 opere i Greci. E tu che vivo
Se' qui, dimmi, a rincontro, il caso oT fato
0 P errore o ’l prccelto de gli dei,
0 qual altra fortuna l* ha condotto,
Ove il sol mai non entra, e buio è sempre.
Così Ira lor parlando e rispondendo,
Avca già *1 sol del suo cerchio diurno
Varcalo il mezzo, o V arria forse inlcro;
Se non che la Sibilla rampognando
Cosi li fc 1 del breve tempo accorti :
Enea, già notte fassi, c noi piangendo
Consumiam P ore. Ecco siam giunti al loco,
Dove la strada in due senticr si parte.
Questo a man dritta a la città ne porta
Del gran Plutone, e quindi a i campi Elisi;
Quest 4 altro a la sinistra a 1* empio abisso
Ne guida, ov 1 hanno i rei supplizio eterno.
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muto SESTO
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Respicil Àcncas subito, et sub rupe sinistra
Mocnia lata videi, triplici circumdala muro
Quac rapido* (lainmis ambii lorrenlibus amnis
Tarlareus Phlcgelhon, torquetquc sonantia saxa.
Porla adversa, ingens, solidoque adamante columnae:
Vis ut nulla virùm, non ipsi ciscindere ferro
Coclicolac valcant. Stat ferrea turris ad auras;
Tisiphoncquc sedens, palla succincla cruenta,
Veslibulum exsomnis servai noctesque diesque.
Itine exaudiri gemitus, et saeva sonare
Verbera: tum strider ferri, traclaeque catcnac.
Constitil Aencas slrepitumquc cxlerritus Iiausil:
Quac seelerum facies ? o virgo, cfTare; quibusvc
l'rgentur poenis ? qui lanlus pianger ad aures ?
Tum vales sic orsa loqui: Dux inelyle Teucrùm,
Nulli fas casto sceleralum insistere limen;
Sed, me quum lucis liceale pracfccit Avcrnis,
Ipsa dedm pocnas docuit, perque omnia duxit.
Gnosius lisce Itliadamanthus babet, durissima regna,
Castigabile audilquc dolos; subigitque fateri,
Quac quis apud supcros, furto laelotus inani,
Oistulit in seram commi so piacula mortem.
Continuo sontcs ullrix accincta flagello
Tisiphonc quatit insultans, lorvosque sinistra
Intentans angue*, vocat agminn saeva sororum.
Tum demum horrisono stridente* cardine sacrae
Panduntur porlac. Cerni*, custodia qualis
Vestibulo sedeal ? facies quae limina scrret ?
Quinquaginla atris immani* hiatibus llydra
Sacvior inlus babet sedem. Tum Tartarus ipsc
Bis patct in praeccps tantum tenditquc sub umbras,
Quantus ad aelhcrium codi suspcctu* Olympum.
Ilic gcnus anliquum Terrac, Titanio pubes,
Fulmine deiccti, fundo volvuntur in imo:
ilic et Aloidas gemino*, immania vidi
Corpora: qui monibus magnimi rescindere coelum
Aggressi, supcrisquc lovcni (Intrudere regni*.
Vidi et crudele* danlcm Saimonca pocnas,
Dum fiamma* lovis et sonitus imilatur OJympi.
Quatuor bic inveelus eqnis, et lampada qnassans,
Per Graiùm populos mediacqne per Elidi* urbcm
Ibat ovans, divùmquc sibi posccbat honorem,
Demcns, qui nimbos et non imitabile fulmen
Aere et cornipcdum pulsu simularci equorum.
Al pater oimilpoten* densa intcr nubile telum
Conlorsit; non ilio face*, ncc fumea laedi*
Lumina; praecipitemque immani turbine adcgil.
Ncc non et Tityon, Terrac omniparcntis alumnum,
Il figlio a ciò di Priamo soggiunse :
Non ti crucciare, o del gran Delio amica,
Ch’or or da voi mi tolgo, c mi ritiro
Ne le tenebre mie. Tu nostro onore
YoUcn felice, già che scorto sei
Da miglior foto; c meglio le n’ avvenga.
Tanto sol disse, c sparve.
Enea si volse
Prima a sinistra, e sotto un’alta rupe
Vide un’ ampia città che tre gironi
Avea di mura, ed un di fiume intorno;
Ed era il fiume il negro Flcgetontc
Ch’ al Tartaro con suono c con rapina
L’ onde seco traca, le fiamme e i sassi.
Vede nel primo incontro una gran porta
Ch’ha la soglia, i pilastri c le colonne
D’ un tal diamante, che le forze umane,
Nè de gli stessi dei, romper non potino.
Quinci si spicca una gran torre in allo
Tutta di ferro. A guardie de l’ entrata
La notte c ’l giorno vigilando assisa
Sta la fiera Tcsifone succinta,
Col braccio ignudo, insanguinala c torva.
Quinci di lai, di pianti c di percosse
E di stridor di ferri c di catene
Colale un suono udissi, che spavento
Enea sentinne; e rattenuti) il passo :
Dimmi, vergine, disse, c che delitti
Son qui puniti ? c che pianti son questi ?
Ed ella : Inclito sire, a nissun lece.
Che buono c giusto sia, di portar oltre
Da quella soglia scellerata il piede.
Ma me di ciò che dentro vi s’ accoglie
Ecatc instrussc allor eli* a i sacri boschi
Mi prepose d’ Averno; c d’ogni pena
E d’ ogni colpa c d' ogni loco appieno,
Quando seco vi fui, notizia diemmi.
Questo è di Radamanto il tristo regno,
Là dov’ egli ode, esamina, condanna
E discopre i peccati che di sopra
Son da le genti o vanamente ascosi
In vita, o non purgati anzi a la morte :
Nè pria di Radamanto esce il precetto.
Che Tesifonc è presta ad eseguirlo.
Ella con 1’ una man la sferza impugna,
Ne l’ altra ha serpi; cd ambe intorno arrosta,
E grida e fere, c de le sue sorelle
Le mostruose ed empie schiere tulle
Al ministcrio de’ tormenti invita.
Apronsi P esecrale orrende porle
Stridendo intanto. Tu, clic quinci vedi
Che faccio è quella clic di fuor le guarda.
Pensa qual a veder sia denlro un* Idra
Ancor più fiera aprir cinquanta ingorde
Rabbiose bocche. Il Tartaro vicn dopo ;
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130
DELL' ENEIDE
Cernere crai, per loia notem cui iugera corpus
Porrigitur; roslroquc immani» vullur obunco
Immortale iccur londens fecundaque poeuis
Visterà, rimalurquc epulis, habitalque sub allo
Pectore, nec fibris requies dalur ulla rcnatis.
Quid memorem Lapilhas, Ixiona Pirilhounique ?
Quos super atra siici iam iam lapsura cadenliquc
Immincl adsimilis: lucenl genialibus allis
Aurea fiderà loris, epulacquc aule ora paralac
Itcgiflco luxu; Furiarum maxima iuxla
Accubal, cl manibus protiibct conlingcro mensas,
Eisurgitque faccm allolleus, alque intonai ore.
Ilio, quibus inrisi fralrcs, dirai vita manebai,
Puisalusvc parens, cl fraus inneia elicmi:
Aul qui diviliis soli incubucre reperii»,
Nec partem posuere suis: quac maxima turba est.
Quiquc ob adultcrium cacsi; quique arma acculi
Impia, nec rcriii dominorum fallcrc dextras,
Inclusi poeuam exspeclanl. Ne quacrc doccri,
Quam poenam, aul quac forma viros forlnnave mcrsil.
Saxum iugens rolvunl alii, radiisvc rolarum
Dislricli pendent. Sedei, aclcrnumque sedebit,
Infclix Tliescus; Phlcgyasquc miscrrimus omnes
Admoncl, cl magna leslalur voce per umbras:
a Discile iusliliain monili, cl non temnere divos. a
Vcndidil lue auro palriam, dominumque polcnlcm
Imposuil, (hit leges prelio alque rcflxit:
Hic llialamum invaili nalac vcliiosquc hymenacos:
Ausi omnes immane nefas, ausoque potili.
Non, inibì si linguae ccnlum siili, oraque cenlum,
Ferrea voi, omnes scclcrum comprendere forma»,
Omnia pocnarum pcrcurrerc nomina possim.
Dna vorago che due volle lanlo
Ila di profondo, quanto in su guardando
È da la (erra al cielo: e qui ne l‘ imo
Suo baratro dal fulmine Irafltli
Son gli antichi Titàni al ciel rubelli.
Qui vidi arabi d’ Aldo gli orrendi Agli,
Che scinder con le mani il cielo osato,
E lor lo sccllro del suo regno a Giove.
Vidivi l' orgoglioso Saimondo
Di sua temerità pagare il fio ;
Chè temerario veramente ed empio
Fu di voler, quale il Tonante in ciclo,
Tonar qua giuso c fulgorare a prova.
Questi su quadro suoi giunti destrieri,
La man di face armalo, alteramente
Per la Grecia scorrendo, e do per mezzo
D' Elide, ov' è di Giove il maggior tempio
Di Giove stesso il nume, de gli dei
S' attribuiva i sacrosanti onori.
Folle, clic con le fiaccole c co* bronzi,
E con lo scalpitar de' suoi ronzoni
I tuoni, i nembi e i folgori imitava
Ch' imitar non si ponno; c ben fu degno
di’ ei provasse per man del Padre eterno
D' altro fulmine il colpo c d’ altro vampo
Che di tede e di fumo, c deguo ancora
Che nel baratro andasse. Eravi Tizio,
Quel de la terra smisurato alunno,
die licn disteso di campagna quanto
Cn giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi ha sopra un famelico avoltorc.
Che con l'adunco rostro ai cor d’intorno
Gli picchia e rode; e perchè sempre il pasca,
Non mai lo scema si, die ’l pasto eterno
Ed eterna non sia la pena sua;
Chè fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
Del suo proprio martir s'avanza e cresce;
E perchè sempre langua, unqua non more.
Di Lapiti a che parlo? d'issioue,
Di Piritdo, e di quegli altri lutti,
Cui sopra al capo un'atra selce pende
Che grave c riiinosa ad ora ad ora
Sembra che caggia? Avvi la mensa d’oro
Con preziosi cibi iu regia guisa
Apparecchiali e proibiti insieme:
Cbè la Fame, infornai furia maggiore.
Gli siede a canto; c com’ più T gusto incende
Di lui, più dal gustarne indietro il traggo,
F. sorge, c la sua face estolle c grida.
Quei che son vissi a i lor fratelli amari;
Quei ch'han battuti i padri; quei che frode
Hanno ordito a’ctienti; ì ricchi avari;
E scarsi a'suoi, di cui la turba è grande ;
Gli uccisi in adulterio; i violenti;
GI'inGdi; i traditori in questo abisso
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unito SESTO
131
linee ubi dieta dedit Phoebi longacva sacerdos:
Sed ìam age, carpe viam, et susccplum perflce rounusl
Accelercmus, ail. Cyclopum edncla caminis
Moenia conspicio, at(|ue adverso fornice portas,
Haec ubi nos praccepla iubent deponcrc dona.
Divorai, et parller, gressi per opaca viarum,
Corripiunl spatium medium, foribusque propinquant.
Occupai Acneas adilum, corpusque recenti
Spargil aqua, ramumque adverso in limine flgit.
His demum eiaclis, perfeelo munere divae,
Devenere locos laelos, et amoena virola
Fortunatorum nemorum, sedesque bealns.
Largior hic campos aether et lumino vestii
Purpureo, solemquc suum, sua sidcra norunt.
Pars in gramineis exetcenl membra palacatris,
Contendunt ludo, et fulva luctantur arena;
Pars pedibus plaudunt choreas, et carmina dicunl.
Pier, non Thrclcius longa cum vesto sacerdos
Obtoquilur numeris septern discrimina vocum;
lamquc cadem digilis, iam pectine pulsai ebumo.
Hic gcnus antiquum Teucri, pulchcrrima proles,
Magnanimi hcroes, nati meiioribus annis,
Iiusque, Assaracusquc, et Troiae Dardanus auclor.
Arma procul currusque virftm miralur inanes.
Stani terra dettine bastae, passimque soluti
Per campos pascuntur equi. Quae gratta enrruum
Armorumque fuit vivis, quae cura nilenlcs
Pascere equos, eadem scqnitur letture rcposlos.
Conspicit, ecce, alios delira laevaque perherbam
Vcscentcs, iactumque choro pacano rancntes,
Uan lutti i lor ridotti e le lor pene.
E che pena e clic forma e che fortuna
Di ciascun sia, non 6 d'uopo ch’io dica:
Ma chi sassi rivolgono, e chi vólti
Son da le ruote, ed altri in altra guisa
Son tormentati. In un pctron condito
Vi siede, e sederavvi eternamente,
Teseo infelice; e Flcgia infelicissimo
Va Ira l'ombrc gridando ad alta voce:
Imparate da me voi che mirate
l,a pena mia. Non violate il giusto.
Riverite gli dei. Tra questi tali
È citi vendè la patria; chi la pose
Al giogo dc'tiranni; chi per prezzo
Fece leggi e disfece; chi da stupro
È di figlia macchiato, o di sirocchia ;
Tutti che brulle ed empie scellcrante
Hanno osato o commesso; e cento lingue,
E cento bocche, e voci anco di ferro,
Non bastcrian per divisare i nomi
E le forme de’vizi c de le pene
Ch’entro vi sono.
Poi che la Sibilla
Ebbe ciò detto: Via, soggiunse, attendi
A l’impreso viaggio, e studia il passo;
Chè già le mura da'Ciclopi ostruite
Mi veggio avanti, c sotto quel grand'arco
La sacra porta che ’l tuo dono aspetta.
Cosi mossi ambiduc, lo spazio lutto,
Ch’era nel mezzo, per sentiero opaco
Tosto varcando, anzi a la porta furo.
Incontanente Enea l'intrala occupa;
Di viva acqua si spruzza: e T sacro ramo
A la regina de l'inferno afllggc.
Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni,
A Camene verdure, a le gioiose
Contrade dc’felici c de’beali
Giunsero al line. È questa una campagna
Con un aer piò largo, c con la terra
Che di un lume di porpora è vestita.
Ed ha ’l suo sole c le sue stelle anch’ella.
Qui se ne slan le fortunate genti,
Parte in su'prati e parte in su l’arena
Scorrendo, folleggiando, c vari giuochi
Di piacevol contesa esercitando.
Parte in musiche, in feste, in balli, in suoni
Se ne van diportando, ed han con essi
Il Tracio Orfeo ch’in lungo abito c sacro
Or con le dila, ed or col plettro eburno,
Sette nervi diversi iusicme uniti,
Tragge dal muto legno umani accenti.
Qui di Teucro l'antica c bella razza
Facca soggiorno; quei fumosi croi
Che in quei tempi migliori al mondo furo
Ilo, Assaraco, Dardano, quei primi
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DELL* ENEIDE
Inlcr odoratimi lauri ncmus: linde superne
Plurimus Eridani per silvani volvilur amnis.
Ilic manus, ob patrinm pugnando vulnera passi,
Quique sacerdote» casti, dum vita manebai,
Quique pii vatcs, et Phoebo digita loculi,
Inventa’* aul qui vilam excoluerc per arlcs,
Quique sui memores alios fccere merendo.
Omnibus bis nivea cinguutur tempora villa.
Quos circumrusos sic est airala Sibylla;
Musaeum ante omnes: medium nani plurima turba
(lune habel, atquc humeris cxslanlcm suspicil altis:
Dicile, felice» anima e, tuque, oplime vale»:
Quae regio Ancbisen, quis liabet locus ? Illius ergo
Yenimus, et magno» Èrebi tranavimus aranes.
Atque buie responsum paucis ita rcddidil heros:
Nulli certa domus; luci» liabitamus opaci»,
Itiparumque loro» et praia rcccntia rivi»
Incolimus. Sed vos, si ferì ila corde voluntas.
Hoc superale iugum; et facili iam tramite sislam.
Dixit, et ante tulit grcssum, camposque uilentes
Drsuper ostentai; dehiuc summa cacumina linquunl.
Àt pater Anchises penilus convallc virenti
Indusas anima», supcrumque ad lumen iluras,
Luslrabal studio recolens, omnemque suorum
Forte reccnsebat numerum, carosque nepoles,
Falaquc, fortunasque virtìm, moresque, manusque.
Isque ubi tendentem adversum per gramina vidit
Aenean, alacris palmas utrasque tetendit;
EfTusacquc gcnis lacrimae; et vox excidil ore:
Venisti tandem, tuaque eispectala parenti
Vicit iter durum pietas ? dalur ora lueri,
Nate, tua; et nolos audlre et reddere voces ?
Sic cquidem duccbam animo rebarque fulurum,
De la gran Troia fondatori e regi.
Vcggon da lungo le vane arme c i carri
A lor dintorno, c Paste in terra fisse,
E gli sciolti deslrier per la campagna
Vagar pascendo; chè 'I diletto antico
E de Farmi c dc’rarri e de'cavalli
Oli segue anco sotterra. Indi altri altrove
Scorgono, clic da destra c da sinistra
Convivando e cantando, sopra l’erba
Si stanno assisi, ed lian di lauri intorno
Un odorato bosco, onde il Po sorge
Sopra la terra, e spazioso inonda.
E questi eran color che combattendo
Non fur di sangue a la lor patria ovari;
E quei clic sacerdoti erano in vita
Castamente vissuti, c quei veraci,
E que* pii ch’han di qua parlalo o scritto
Cose degne di Febo, e gl’ inventori
De Farti, ond’è gentile il mondo e bello;
E quei che, ben oprando, han tra’ mortali
Fallo di fama c di memoria acquisto;
Cui tulli, in segno di celeste onore,
Candida benda il fronte orna c colora.
A questi, ch’n la vergine Sibilla
Fér cerchio intorno, cd a Museo tra loro,
Che da gli omeri in su gli altri avanzava,
Dissocila: Alme felici, e tu buon vate,
Ditene in qual contrada e ’n qual magione
Qui tra voi si riposa il grande Anchisc,
Chè lui cerchiamo, sol per lui varcati
D’Èrebo i fiumi c le caverne «verno.
A cui Museo così breve rispose:
Nullo è di noi che in alcun luogo alloggi
Come in suo proprio, e tutti o per le sacre
Opache selve, c per Camene rive
Dc’cliiari fiumi, o per gli erbosi prati
Tra rivi e fonti i nostri alberghi averne.
Ma se di ciò vi Cile, itene meco
Sovr’a quel giogo, e quindi agevolmente
Il senlier ne vedrete. In ciò si mosse
Come lor guida, e sopea al colle asceso
Mostrò lor d'alto i luminosi campi,
Additò 1 calle, ed inviolli al piano.
Era per avventura in una valle
Anchise, elle da poggi era ricinta,
E di verde coverta. Ivi in disparte
De'sitoi nipoti avea l'animo accollo
Ch’alia vita di sopra eran chiamate,
E facendo di lor rassegna e mostra
Gli annoverava, esaminava i falli,
Le fortune, il valor di mano in mano,
Gli ordini e i tempi loro. Enea comparve
Sul campo intanto; a cui tosto che 'I vide
Lieto Anchisc avventossi, c con le braccia
In alto d'accogliema: 0 Aglio, disse
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Tempora dinumerans; nec me mea cura fcfellit.
Ouas ego le terras cl quanta per aequora vecluin
Accipio I quanlis iaclatum, nate, pcriclis !
Quam metui, ne quid Libyae libi regna nocerenl !
lite aulcin: Tua me, genilor, tua tristi» imago,
Saepius occurrens, haec limina temlerc adcgil.
Stani sale Tyrrhcno classcs. Do iungere dczlram,
Da, genilor; teque amplesu ne subtrahe nostro.
Sic memorans largo flctu simul ora rigabat.
Ter conalus ibi collo dare brachia tir, uni:
Ter frustra comprensa manus elTugit imago,
Par levibus venti», volucriquc simillima sonino.
Interna videi Acneas in valle reducla
Scclusum nemus, et virgulto snnanlia silvis,
Lelhacumque, domos placidas qui praenalat, amnem.
Hunc circum innumcrae gcnles populique volabant,
Ac, veluli in pratis, ubi apes nestaie serena
Floribus insidunl varils, «candida circum
Lilia fundunlur, strepi! omnis murmure campus.
Ilorrescil visu subito, caussasquc requirit
Inscius Aencas, quae sìnl ea (lumina porro,
Quive viri tanto compiermi ogminc ripas.
Tum pater .Incluse»: Animac, qnibus altera fato
Corpora debentur, Lcthaei ad fluminis undam
Secoros laliccs et longa oblivia potaui.
lias cquidem memorare tibi alque estendere coram
lampridem, batic prolcm cupio enumerare meorum:
Quo magis Italia mecum laetcre rcperla. —
0 pater, anne atiquas ad coctum bine ire putandum est
Sublimcs animas, itcrumque in tarda rcvcrli
Corpora ? Quae lucis miseri» lam dira cupido ?
Dicano cquidem, nec le suspcnsum, nate, tenebo;
Suscipit Ancliiscs, atquc ordine siugula pandi!.
Vischio vol. eaico
LIBRO SESTO 133
Dolcemente piangendo, io pur li veggio,
Pur sei venuto, ha pur la tua pleiade
Superati i disagi c la durezza
Di si strano viaggio. Ecco m'è dato
Di veder, tiglio, il tuo bramalo aspetto,
E sentirli c parlarti. Io di ciò punto
Non era in forse, c sol pensava al quando.
Contando i giorni. Oli dopo quanti aOanni,
Dopo quanti perigli, c quanti storpi!
E di mare c di terra io li riveggio!
E quanto ebbi timor che di Cartago
A'enisse al corso tuo sinistro intoppo !
Ed egli a lui: La sconsolala immago,
Clic m'è, padre, di le sovente apparsa,
Per te, per te veder qua giù m'ha tratto;
E di sopra Un qui salvo a la riva
Del mar Tirreno il mio navilc è sorto.
Or daminf, padre mio, dammi ch'io giunga
La mia con la tua destra, e grazia fammi
Che di vederti e di parlarti io goda.
Mentre cosi dicca, di largo pianto
Rigava il volto, e distcndca le palme;
E tre volte abbracciandolo, altrettante
( Come vento stringesse, o fumo, o sogno)
Se ne tornò con le man véle al petto.
Intanto Enea per entro a la grati valle
Vide scevra da ('altre una foresta,
1 cui rami sonar da lungo udiva.
A piè di questa era di Lete il rio
Cli'ai dilettosi e fortunati campi
Corre davanti, e piene avea le ripe
Di genti innumerabili, ch'intorno
A caterve aitando ivano in guisa
Clic fan le pecchie a'chiari giorni estivi,
Quando di fiore in fior, di giglio in giglio
Si van posando, c per Papriche piagge
Dolcemente ronzando. Etica, che nulla
Di ciò sapea, di subito stupore
Pu sovraggiunto, o la cagion spiando:
0, disse, padre, che riviera è quella?
E che gente, c che mischia, c che bisbiglio?
Lenirne, gli rispose, a cui dovuti
Sono altri corpi, a questo Duine accolte
Reou dimenticanze e lunghi obblii
De l'altra vita; e questi io desiava
Che tu vedessi, e che da me n'udissi
I nomi c i gesti, onde contezza appieno
Del nostro sangue, e piena gioia avessi
De l'acquisto d'Italia. 0 padre, adunque.
Soggiunse Enea, creder si dee che Palme,
Clic son qui scorcile e libere e felici,
Cerchin di nuovo a la terrena salma,
Di nuovo a la prigion tornar de'corpi?
E qual, misere loro! empio desire
Del lume di lassù tanto le invoglia?
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DEM/ ENEIDE
Figlio, risposo Anclnsc, acciò sospeso
l*iù non vacilli in questa dubbio, ascolta
( E in tal guisa per ordine gli narra ):
Principio coelum ac tcrras, camposque liqucnles,
Luccnlcinque globum Lunae, Tilaniaquc astra,
Spiritus inlus alit, lolamquc infusa per arlus
Mcns agitai molcin, et magno se corpore misccl.
Inde hominuin pccudumque gcnus, vitaeque volantino,
Et quae marmoreo ferì monstra sub acquorc poulus.
Igncus est ollis vigor et coeleslis origo
Scminibus, quantum non noxia corpora tardant
Tcrrenique hebetanl artus moribundaque membra.
Hinc metuunt, cupiuntquc; dolenl, guudcnlquc; neque
auras
Dispiciunt, clausae lenebris et carcere cacco.
Quin et supremo quum luminc vita rcliquit,
Non tamen omnc mal u in miseris, ncc fundilus omnes
Corporcac execdunl pcsles; penitusque nccesse est
Multa diu concreta modis inolcscere miris.
Ergo cxerccntur poenis, veterumque malorum
Supplicia expendunt. Aline pnndunlur inancs
Suspcnsac ad ventos; aliis sub gurgite vasto
Infcctum eluidtr scelus, ani cxuritur igni.
Quisquc suos palimur Manes; exinde per amplimi
Mittimur Elysium, et pauci Inda arva lenemus:
Donec longa dics, per re do lemporis orbe,
Concrctam cxemil labcm, purumque rcliquit
Aelhcrium scnsum, olquc aurai simpliris ignem.
llas omnes, uhi mille rolam volverc per annos,
Lclhaeum ad fluvium deus evocai agminc magno:
Scilicct immemores supera ut convexa revisant
tiursus, et incipianl in corpora velie rcverli.
Dixerat Anchiscs: natumque unaque Sibyllam
Convenlus trabit in medios, turbamque sonantem:
Et tumulum capit, unde omnes longo ordine possit
Advcrsos legere, et venientum discerc vultus.
Nunc age, Dardaniam prolcm quac deinde sequatur
Primieramente il del, la terra e’1 mare,
1/aer, la luna, il sol, quanto è nascosto,
Quanto appare e quanti, muove, nudriscc
E regge un die v’è dentro, o spirto o mente,
0 anima che sio de l’universo;
Che sparsa per lo tulio e per le parti
Di sì gran mole, di sè l’empie, c seco
Si volge, si rimescola c s’unisce.
Quinci ruman legnaggio, i bruti, i pesci,
E ciò che vola, e ciò che serpe, lian v ita,
E dal foco e dal cicl vigore c seme
Traggou, se non se quando il pondo e ’l gelo
Dc’gravi corpi, c le caduche membra
Le fan terrene e Iarde. E quinci ancora
Awien che tema e speme c duolo c gioia
Vivendo le conturba, c che rinchiuse
Nel tenebroso carcere, e ne l’ombra
Del mortai velo, a le bellezze eterne
Non ergon gli occhi. Ed, oltre a ciò, morendo,
Perchè sian fuor de la terrena vesta,
Non del lutto si spogliati le meschine
De le sue macchie; chè ’l corporeo lezzo
Sì l’ha per lungo suo contagio infette,
Clic scevre anco dal corpo, in uova guisa
Le lien contaminale, impure c sozze.
Perciò di purga hau d' uopo, c per purgarle
Son de F antiche colpe in vari modi
Punite c travagliale: altre ne l’aura
Sospese al vento, altre nc l’ acqua immerse,
Ed altre al foco raffinale ed arse :
Chè quale è di ciascuno il genio c ’l fallo,
Tale è ’l castigo. Indi a venir n’ è dato
Nc gli ampi Elisi campi ; c poche siamo,
Cui sì lieto soggiorno si destini.
Qui siamo infili che ’i tempo a ciò prescritto
D’ ogni immondizia ne forbisca e terga,
Sì eh’ a nitida fiamma, a semplice aura,
A puro etereo senso ne riduca.
Quest* alme tutte, poiché di mill* anni
Ilan vólto il giro, alfin son qui chiamate
Di Lete al fiume, e ’n quella riva fanno,
Qual (u vedi colà, turba e concorso.
Dio le vi chiama, acciò eh* ivi dcposlo
Ogni ricordo, men de’ corpi schive,
E più vaglie di vita un’ altra volta
Tornio di sopra a riveder le stelle.
Ciò dello, Anchisc a quelle genti in mezzo
Condusse il figlio, e la Sibilla insieme ;
E preso un colle, ove le schiere tutte.
Siccome ne venian di mano in mano,
Avca d' incontro, c le scorgea nel volto.
Or qui li mostrerò, soggiunse Anchise,
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LIBRO SESTO
135
Gloria, qui mancarti Itala do gente nepoles,
Illustre* anima*, nostrumque in nomen ituras,
Expediam diclis, et le lua Tata doccbo.
lite, tides, pura iuvenis qui nitilur basta,
Proiima sorte tene! lucis loca, primns ad auras
Aetherias Italo commixlus sanguine surget,
Silvius, Albanum nomen, tua postuma proles:
Quem libi longacYo scruni Lavinia comuni
Educai silvis regem, regumque parentem:
Inde genus Longa nostrum dotninabilur Alba,
l'ro.vimus ilio Procas, Troianae gloria gentis,
Et Capys, et Numilor, et qui le nomino reddel
Silvius Aencas, pariler pielate vel armis
Egregius, si unquam regnandam acceperil Albam.
Qui iuvenes I quanta* ostentarti, adspice, tire* 1
Atquc timbrala gerunt civili tempora qucrcu.
Hi libi Nomentum, et Gabios, urbemque Fidcnam,
Ili Col lalinas imgionent monlibus arce*,
l Laude pudiciliac celebres, addentque superbos ]
l’omelios, caslrumque Inui, Bolamqtte, Coramque.
llacc lutn nomina crunl, nunc sutil sine nomine terrac.
Quin et avo coioitcm sesc Mavorlius addet
Romulus; A-saruci quent sanguini* llia mater
Educo!. Yidcii' ut gentinac stani vertice cristac,
Et pater ipso suo super dm iant signat honore ?
En, huius, nate, auspiciis illa inclyta Roma
jtnpcrium tcrris, animos scquabil Olimpo,
Scplemquc una sibi muro circumdabit arces,
Fcl x prole virimi: qualis Bereejnlia mater
Invcltilur curru Phrygias turrita per urbes,
Laela deùm partu, ccnlum complcxa nepolcs,
Omnes coelicolos, omnes supera alta tencutes.
■ lue gemina* nunc flede acics ; liane adspice genlctn,
ltoinanosque luos. lite Caesar, et omnis luti
Progenie*, magnutn coeli ventura sub aiem.
lite vir, liic est, libi quem premuti saepius audis,
Augusto* Caesar, Divi genus: aurea coiidet
Saecula qui rursus Lalio, regnala per aria
Saturno quondam; super et Garainanlas et Indos
Proferel imperium; iacel extra sidcra tellus,
Extra anni Solisquc tias, ubi coclilcr Alias
Axcm humcrn torquel stelli* ardentibus aplum.
Huius in adventum iatn mine et Caspia regna
Itcsponsis borrcnl divùm, et Macolia tellus,
Et seplcmgemini turbant trepida ostia bili.
Nec vero Alcides tantum telluri* obivil;
Fiieril acripcdcm ccrvoni licci, aut Erymanthi
Pacarit nemora, et Lernam trcmcrcccrit arcu:
Kce, qui pampineis victor iuga flcctit bibenis,
Libcr, agcns celso Avvile de vertice ligres.
Et dubitamus adhuc virtutem cxlendere faclis ?
Aut mclus Ausonia probibcl consistere terra 1
Quis procul ilio autein ramis insigni* olivac
Sacra ferens ? bosco crine» inranaquc menta
Rcgis Romani; primus qui legibus urbein
Quanta sarà ne' secoli futuri
La gloria nostra ; quanti e quai nepoti
De la Uardania prole a nascer hanno :
E quante del mio sangue anime illustri
Sorgeranno in Italia. Indi a te conte
Le tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi colà quel giovinetto ardito
Clic su quell' asta pura il braccio appoggia ?
Quegli alla luce i destinato in prima.
Primo che di Lavinia in Laxio avrai
Figlio postumo a te, già d'anni grave,
Cb* al fin da lei fuor delle selve addutto,
Re sarà d' Alba, e degli Albani regi
Autore c padre ; Sili» dal suo nome
Fian tutti i nostri, che da lui discesi
Ivi poscia gran tempo imperio avranno.
Proca è qui dopo lui, gloria e splendore
De la stirpe Troiana ; e quegli è Capi :
E quegli è Numilore ; e l' altro appresso
È Silvio Enea, che’l tuo nome rinnova ;
E se Ila mai clic ’l suo regno ricovri,
Pion sarà tnen di le pietoso c forte.
Mira die gioventù, mira che forze
Mostrali solo al vedergli. Appo costoro
Quei che son là di quercia inghirlandati,
Di Gabi, di Momento e di Fidenc
Parte propagheranli il picciol regno ;
Parte su i monti il tempio ti porranno
D’ Inuo, c la terra che da lui dirassi,
E Collazia e Pomezia c Boia e Cora ;
Cliè questi nomi allor quei luoghi avranno
Cb' or ne son senza In compagnia de l’ avo
ltomolo se ne vien, di Marte il figlio,
Di Roma il padre Al mondo Ria damilo,
De la stirpe d' Assaracu rampollo.
Vedi! colè, eh' ho in su la lesta un elmo
Con due cimieri, e tal, che il padre stesso
Già par cli'in ciclo c nel suo seggio il ponga.
Questi, figlio, sarà quel grand'eroe,
Onde i suoi primi gloriosi auspicii
Avrà l' inclita Roma, quella Roma
Che sette monti entro al suo cerchio accolli
Tanto si stenderà, che (la con l' armi
Uguale al mondo, c con le menti al cielo;
Roma di cosi prodi c chiari figli
Madre felice. Tal di Bereeinlo
La maggior madre inrra 1 leoni assisa,
E di torri altamente incoronala
Va per la Frigia, gloriosa e lieta
Che tanti ha Agli in cicl, nepoti in seno.
Tutti, che dii già sono o dii si fanno.
Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
A mirar la lua gente e I tuoi Romani.
Cesare è qui, qui la progenie i tutta
Del grande lulo, a cui già s' apre il ciclo.
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DELL’ ENEIDE
imi
Fundabil, Curibus par\is cl paupcre terra
Missus in imperituri magnum. Cui deintlc subibil,
Olia qui rumpet palriae, residesque movebit
Ttillus in arma viro», et iam desueta Iriumpliis
Agmina. Quem iuxla sequilur iadanlior Ancus,
Nunc quoque iam nimium gaudens popularibus auris.
Vis et Tarquinios reges, animamque superbam
lltoris Bruti, fasccsque ridere reeeptos !
Consulis impcrium bic primus saevasque secures
Accipicl; natosque pater, nova bella mmenles,
Ad poenam pulrbra prò liberiate vocabit,
tnfelii ! l’tcunquc fcrent ea facta minores:
Yincet amor palriae laudumque immensa cupido.
Quin Decios, Drusosque procul, saevumque securi
Adspicc Torqualtim, et referentem signa Camillum.
Illae autem, paribus quas fulgerc cernis in armis,
Concordes animae nunc, et dum nocte premcnlur,
lleu quanlum intcr se bellum, si lumina tilae
Atligerinl, quanta» acies slragemquc cicbunt,
Aggeribus socer Alpini» atipie arce Monoeci
Descendens, gcncr adversis instruclus Eois I
Ne, pucri, nc tanta animi» adsuescilc bella;
Neu patriac validas in viscera venite tircs.
Tuquc prior, tu parte, gcnus qui ducis Olympo;
Proiice tela marni, sanguis incus,
lite triumphala Capilolia ad alta Corintlio
Victor agri rumini, iraesis insigni» Achivis.
Eruel ilio Argos, Agamemnoiiiasque Myrenas,
Ipsumquc Acaeidcn, gemi» armipotenti» Achilli;
l'Ibis avos Troiae, tempia cl temerata Mincrvac.
Quis te, magne Calo, tacitino, ani le, Cosso, relinqnal?
Quis Gracclii geuus ? aut getninos, duo fulmina belli,
Scipiadas, cladem Libyac, parvoquo potcnlem
Fabricium, vel le sulco, Serrane, serentem?
Quo fessimi rapilis, Fabii ? Tu Matìmus ille es,
Unus qui nobis cunctando rcstituis rem.
Evcudcnl olii spiranlia mollius aera.
Credo equidem; vivos ducent de marmorc vultus;
Orabunt caussas melius, cocliquc meatus
Dcscribent radio, cl surgenlia sklera dicenl;
Tu regere imperio populos, Romane, memento;
line libi orunl artes: pacisque imponcrc morem,
Parcctc subieclis, cl debellare superbo».
Questi, questi i colui che tante volte
T' A già promesso, il gran Cesare Augusto,
Di divo padre figlio, c divo aneli' egli.
Per lui risorgerà quel sccol d’oro,
Quel del vecchio Saturno antico regno.
Clic fc’ il Laiio si bello e 'I mondo lutto.
Questi oltre a i Garamond ed oltre a gl’ Indi
Impererà fln dove il sole e l' anno
Non giunge, c più non va se non s' arretra :
Trapasserà di là dal Mauro Atlante
Clic con gli omeri suoi folce le stelle.
Al venir di costui, sol de la voce
Che ne dènno i profeti, i Caspii regni,
La Mcolica terra, e quanto inonda
Il sette volle geminato Nilo,
Tremar già veggio, c star pensoso c mesto.
Tanto del mondo il glorioso Alcide
Non corse mai, se ben dc’Cercuiti,
Di Lerna e d’Erimanto i mostri ancisc ;
Nò tanto ne domò ehi domò gl' Indi,
E nel trionfo suo di vili c pampini
A le tigri di Risa il giogo impose.
E sarà poi che T valor nostro manchi
Di gloria, c tu di speme e d’ ardimento
Di far d' Ausonia il desiato acquisto?
Ma chi Ila questi clic da lungi scorgo
SI venerando, il crin cinto d' olivo,
Con quelle bende c con quei sacri arredi ?
A la chioma, a lo barba irla c canuta
Mi sembra, ed è di Roma, il santo rege,
Che dal picciolo Curi a grande impero
Sarà da lei chiamato, c sarà il primo
Che cerimonie introdurravvi c leggi.
A lui Tulio vien dopo, il forte c saggio ,
Ch’ a i dismessi trionfi rivocando
La gente giù per lunga pace imbelle,
La tornerà, di neghittosa e mite,
Un'altra volta armigera e guerriera.
Anco ò quell’ altro che lo segue appresso,
Che d’onor troppo e del favor del volgo
Di già si mostra ambiiioso c vago.
Or vedi là, se di vedergli agogni,
Anco i Tarquini regi, c quel superbo
Vendicator de la superbia loro
Bruto, consol primiero, c quei suoi fasci
E quelle accette ond' ei padre crudele,
De la patria buon figlio, i figli suoi
Per l' altrui bella libertadc ancidc.
Infortunalo lui I che che dipoi
Da la posterità se nc favelle.
Vince il pubblico amore, c ’I gran desio
D’ umana lode in lui I’ altello interno
De la natura e del suo sangue stesso.
Mira poco in disparte i Dccii, i Drusi,
Il severo Torquato c '1 buon Camillo ;
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unno sesto
in
Sir. pater Ancliises, alque liacc mirantibus addìi:
Adspicc, ul insignis spoliis Marccllus opiruis
Ingredilur, victorquc viros supercminel omncs !
Ilic rem Romanam, magno turbante lumullu,
Sistcl, eque» sterne! Pocnos, Gallumquc rcbellcm,
Terliaquc anno patri suspcndet capta Quirino.
Atquc hic Aeneas: una namque ire videbat
Egregium Torma iuvenem et fulgeotibus armis,
Sed Trons laela parum, et deieclo lumina vullu:
Quis, palcr, ilio, virum qui sic comitatur euntcrn ?
L' uno, elio tien già la securc in mauó,
E l' altro, clic da' Galli ne riporla
I perduti vessilli. I due, che vedi
Si rìsplcndcr ne l' armi, e che rinchiusi
In questa notte sembrano a la vista
Gir di pari e d' accordo, o se a la (ita
Vengon di sopra, quanta guerra e quale.
Con che strage di genti e con clic forze,
Faran tra lorol il suocero da l'Alpi
E da T occaso, il genero da l' orlo
Verrà r un contro l'altro. Ah Agli, ah figli 1
Non cosi rio, non cosi fiero abuso
D’armar voi contr’ a voi, conir' a le viscere
De la gran patria vostra. E tu che Iraggi
Dal ciel legnaggio, tu mio sangue, astienti
Di tanta ferità; perdona il primo,
E gitla l'armi in terra. Eero chi vince
Corinto e ’l popol Greco, e 'n Campidoglio
Trionfando ne saghe. Ecco chi d’Argo
E di Sirena ancor le torri abbatte,
E chi Pirro debella e 'I seme eslioguc
Del bellicoso Achilie. Alla vendetta
Clic ben de gli avi ricompensa i danni,
E 'I tempio violato di minerva.
Dove lass' io te, gran Catone e Cosso ?
E i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
Ambedue Scjpioni, ambi Africani,
Strage T un di Cartago, e l' altro esizio ?
Dove Fabrizio il povero, e potente
Con la sua povertà ? Dove Serrano,
Cli' è, di bifolco, al grande imperio assunto ?
Dove restano i Fabii ? Eccone un solo,
Massimo veramente, rlie con arte
Terrà il nemico tranquillando a bada.
Abbiansi gli altri de l'allrc arti il vanto:
Avvivino i colori e i bronzi e i marmi ;
Muovano con la lingua i tribunali ;
Mostrili con l' astrolabio e col quadrante
Meglio del ciel le stelle e i moli loro :
Che ciò meglio sapran forse di voi ;
Ma voi, Romani mici, reggete il mondo
Con P imperio e con l' armi, e Farli vostre
Sicn Tesser giusti in pace, invitti in guerra;
Perdonare a’ soggetti, accòr gli umili,
Debellare i superbi.
Iti questa guisa
Parlava il santo veglio, ed essi attenti
Slavan con maraviglia ad ascoltarlo ;
Quando soggiunse : Ecco di qua Marcello :
Mira come se n‘ entra adorno e carco
D’opime spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest' è quel generoso, eh’ a grand' uopo
Yien di Roma; a domare i Peni, i Galli,
E pel Gallico duce i fregi e Farmi
La terza volta al gran Quirino appende.
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DELI/ ENEIDE
Filius, anno oliquis magna de stirpe nopotum ?
Qui strrpilus circa comitum ! quantum instar in ipso
est !
Sed nox atra caput tristi circumtolal umbra.
Tum pater Anchises, lacrimis ingressus obortis:
0 nate, ingentem luclum ne quacrc tuorum.
Ostcndent torris hunc tantum fata, ncque ultra
Esse siuent. Nimiuin vobis Romana propago
Visa polene, superi, propria hacc si dona fuissent.
Quanlos illc virùm magnani Mavorlis ad urbem
Campus aget gemilus! voi quae, Tiberine, videbis
Funcra, quum tumulum praetcrlabcre rcccnlem !
Nec pucr Iliaca quisquam de gente Latinos
In tantum spc lollet avos: nec Homula quondam
Ulto se tantum tellus iaclabit alumno.
Ileu pietas, bcu prisca fides, inviclaquc bello
Desterà ! Non illi se quisquam impune tulisscl
Obvius armalo, seu quum pedes irci in hoslem,
Scu spumanlis equi fodcrct calcaribus armos.
Ileu, miserande puer, si qua fata aspera rumpas !
Tu Marcellus eris. Manibus date lilia pieni»:
Purpureos spargam flores, animamque nepolis
llis salicm accumulcm donis, ci fungar inani
Muncrc. — Sic loia passim regione vaganlur
Aèris in eampis lalis, atquc omnia lustrane
Quae poslquam Anchises nalum per singula duxil,
Ineendilque aniinum fumae vcnicntis amore
Exin bella viro memorai, quae deinde gcrcnda,
Laurentesquc docci populos, urbemque Lalini;
Et quo quemque modo fugiatquc feralque laborcm.
Sunt gcminac Somni portaci quarum altera ferlur
Cornea, quae veris facili» dalur exitus umbris:
Qui vide Enea eh' un giovinetto a pari
Gli si Iraea, eli* era d'arnesi e d’armi
E via più di bella vago c lucente ;
Se non clic poco bela avea la fronte,
E chino il viso. Onde rivolto al padre,
E chi, disse, è costui clic l’accompagna ?
Saria de’ figli, o de* nipoti alcuno
Del gran nostro legnaggio ? E clic bisbiglio
E che mischia ha d intorno? 0 quale c quanto
Di già mi sembra ! Ala gli veggio al capo
D' atra nelle girar di sopra un nembo.
Anchisc lagrimando gli rispose ;
Amaro desiderio il cor ti tocca
A voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
Udir de' tuoi. Questi a la luce appena
Verrà, che nc fia (olio. 0 dii superni I
Troppo parra vvi la Romana stirpe
Possente allor che in sul fiorir preciso
Ne fla si vago c si gentile arbusto.
0 che duolo, o che pianto, o che funèbre
Pompa nc vedrà Roma e ’l Marzio campo I
Qual, Tiberino padre, a la tua riva
Nuovo se n' ergerà funesta mola !
Germe non sorgerà del seme d’ llia
Più di questo gradilo, nè che tanto
De* Latini avi suoi la speme estolla ;
Nè In terra di Romolo avrà mai
Figlio, onde più si pregi e più si vanii.
0 pietà non più vista I o fede aulica !
0 virtù senza pari I E qual ne l' armi
Sarà ? Chi sosterrà V incontro suo
Pedone, o cavalicr, eh’ armato in giostra,
0 pur nel campo il suo nemico assalga ?
Bliscrabil fanciullo 1 Cosi morte
Tc non vincesse, come invitto fùra
Il luo valore, c come tu, Marcello,
Non loeit de l’ altro eroica virtule,
E più splendore e più fortuna avresti!
Datemi a piene mani, ond' io di gigli
E di purpurei fiori un nembo sparga ;
Che se ben contro al giù fìsso destino
M’ adopro in vano, almen con questi doni
L* ombra d’ un tanto mio nipote onori.
Dopo ciò detto, per gli aèrei campi
Vagando, a parie a parie c 1* ombre e i lochi
Gli mostrò, V invaghì, lutto d’amore
I)e la futura gloria il cor gli accese.
Indi le guerre e le fortune sue
D’ Italia, di Laurcnlo c di Latino
La figlia, il regno, ì popoli e lo Stalo
Tutto gli rivelò. D' ogni suo affanno
( Come a fuggir, come a soffrir l’ avesse )
Gii diè lume e compenso.
Escouo i Sogni
D’ inferno per due porte ; una è di corno,
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Mimo SESTO
13 »
Altera candenti pericola nilens clcplianto ;
Sed falsa ad codimi mitlunt insomnia Mancs.
His ubi lum natum Aneli ises unaque Sibyllam
Troscquitur diclis, porlaque cmitlit diurna:
lite viam secai ad naves, sociosque retisi!;
Tum se od Caictae recto fcrt limile porlum.
Ancora de prora iacilur; stani lilorc puppes.
L' altra è d‘ avorio. Manda il corno i veri,
L' avorio i falsi; c per E ebuma Anchisc
Diede ( quando lor diè commiato al fine )
A la Sibilla ed al suo tiglio uscita.
Enea verso le nati a' suoi compagni
Fece ritorno. Indi sciogliendo dritto
Lungo la riva il suo corso riprese ;
E giunto, o>' oggi è di Gaeta il porto,
L' afferrò, gillò l'ancorc c fcrmossi.
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LIBRO SETTIMO
Tu quoque litoribus nostri*, AcneTa nutrii,
Aclcrnam moriens famam, Caicta, dedisti;
Et nunc servai honos sedem tuus, ossaque nomcn
Hesperfa in magna, si qua est ca gloria, signat.
Al pius ossequila Acneas rite solulis,
Aggcrc composito tumuli, postquam alta quierunt
Acquerà, Condii iter vclis, porluinquc rclinquit.
Adspirant aurae in noclcm, nec candida cursus
Luna negai; splendei tremulo sub luminc ponlus.
Proxima Circacac raduntur litora tcrrae,
Di?cs inacccssos ubi Solis fìlia lucos
Assiduo rcsonat canto, tectisquc superbis
Urli odoralam notturna in lumina ccdrum,
Arguto lenues percurrens pectine tclas.
Siine cxaudiri gemitus iraeque leonum,
Vincla recusantum, et sera sub nocle rudenlum;
Setigcriquc sucs, alque in praesepibus ursi
Saevirc, ac formae magnorum ululare luporum:
Quos hominum ex facic dea sacra potcntibus herbis
Induerat Circe in vullus ac terga ferarurn.
Quae ne monsira pii palercrilur (alia Troe*,
belati in portus, ncu litora dira subirent,
Ncplunus venlis implevit vela secundis,
Atquc lugani dcdil, et pracler vada fervida vexit.
lamquc rubesecbal radiis mare, et acihere ab allo
Aurora in roseis fulgebal lutea bigis;
Quum venti posuere, omnisque repente resedit
Flatus, et in lento luctanlur mormoro lonsac.
Alque hic Acneas ingcnlcm ex aequorc Iucum
Prospicit. Ilunc inler fluvio Tiberinus amoeno,
Vcrticibus rapidis, et multa flavus arena,
In mare prorumpil; variae circumquc supraque
Assuetac ripis volucres cl fluminis alveo
Aethcra mulcebanl cantu, lucoquc volabant.
Flecterc iter sociis lerraeque advcrtcrc proras
Imperat, et laelus fluiio succedil opaco.
Ed ancor tu, d'Enea fida nudricc
Caicta, a i nostri liti eterna fama
Désti morendo; ed essi anco a te diero
Sede onorala, se d’onore a'morli
È d'aver Tossa consecratc e'I nome
Nella famosa Esperia. Ebbe Caicta
Dal suo pietoso alunno esequie e lutto,
E sepoltura alteramente eretta.
Indi, già fallo il mar tranquillo c quoto ,
Spiegar le vele a'venli, c i venti al corso
Era n secondi; e ’n sul calar del Sole
La Luna, che sorgea lucente c piena,
Chiare Tonde facea tremolo c crespe.
Uscir del porto; c pria rosero i liti
Ove Circe del Sol la ricca Gglia
Gode felice, e mai sempre cantando
Soavemente al periglioso varco
De le sue selve i peregrini invita:
E de la reggia, ove tesscudo stassi
Le ricche tele, con l'arguto suono
Che fan le spole c i pettini e i telari,
E co’fuochi de ccdri c de'ginepri
Porge lunge la notte iudicio e lume.
Quinci là verso il di, lontano udissi
Ruggir boni, urlar lupi, adirarsi,
E fremere o grugnire orsi e cignali,
Clferan uomini in prima; e ’n queste forme
Da lei con erbe e con malie cangiali
Giacean di ferri c di ferrale sbarre
Ne le sue stalle incatenali c chiusi.
E perchè ciò non avvenisse a i Teucri
Che buoni erano c pii, da colai porto
E da spiaggia si ria Nettuno stesso
Spinse i lor legni, e diè lor vento e fuga,
Tal che fuor d'ogni rischio li condusse.
Già rosseggiava d'Orìentc il balzo,
E nel suo carro d'ostro ornata e d'oro
L’Aurora si traea de Tonde fuori,
Quando subitamente ogni aura, ogni alito
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LIBRO
Nunc agc, qui reges, Erato, quac tempora rerum,
Quia Latio antiquo fuerit status, advcna rlassem
Quum primum Ausoniis cxcrcilus appulit oris,
Expediam. et primac revocato cxordia pugnae.
Tu valem, tu, diva, mone. Dicam torrida bella,
Dicam acics, actosquc animis in funera reges,
Tyrrhcnamquc manum, lotamque sub arma coactam
Hespcriam. Mainr rerum miti nascitur orde;
Maius opus moveo. Rcx ar\a Latinus et urbes
lam senior longa placidas in pace regebat.
Hunc Fauno et nympha gcnilum Laureole Manca
Accipimus. Fauno Picus pater: isque parcnlcm
Te, Saturne, refert; tu sanguini ultimus auctor.
Filius buio, fato divùm, prolcsque virilis
Nulla fuit, primaque orìcns crepla iuventa est.
Sola domum et tanlas scrvabat filia sedes,
lam matura viro, iam plenis nubilis annis.
Multi illam magno c Latio totaque pctebant
Ausonia; petit ante alios pulcherrimus omnes
Turnus, avis atavisque potens: quem regia conimi*
Adiungi gcnerum miro properabat amore;
Sed variis portento dcòm lerroribus obstant.
Laurus erat lecti medio in penelralibus allis,
Sacra comam, multosque metu servala per annos,
Quam pater inventam, primas quum couderel arr.es,
Ipse fercbalur Plioebo sacrasse Latinus,
Laurentesquc ab ea nomcn posuisse colonis.
Huius apcs summum dcnsac ( mirabile dictu )
Stridore ingenti liqnidum trans aethera veclae,
Obsedere apiccm; et, pedibus per mutua nexis,
Examen subitum ramo frondente pependit.
Continuo vales, Evtcrnum cernimus, inquif,
Ad ventare virum, et partes pelerò agmen casdem
Partibus ex isdem, et summa dominaricr arce.
Praeterca, caslis adolct dum altana laedis,
I t iuxla genilorcin adstat Lavinia virgo,
Visa (nefus I ) longis comprendere crinibus ignem,
Alque omnein ornalum Ramina crepitante cremori,
Hegalcsquc acccnsa coma?, acccnsa coronam,
VinClLID VOL USICI).
SETTIMO Ul
Cessò del vento, c ne fu 'I mare in calma,
| Si ch’a forza ne gian de* remi appena.
Qui la terra mirando il padre Enea
Vede un’ampia foresta, c dentro un fiume
Rapido, vorticoso e quclo insieme,
Che per romena selva, e per la bionda
Sua molta arma si devolve al mare.
Questo era il Tcbro, il tanto destato,
Il tanto cerco suo Tebro fatale:
A le cui ripe, a le cui selve intorno,
E di sopra volando ivan le schiere
Di più canori suoi palustri augelli.
Àllor, Via, dice a’suoi, volgete il corso.
Itene a riva. E tulli in un momento
Rivolti e giunti, de 1* opaco fiume
Preser la foce, e lietamente cntraro.
Porgimi, Erato, aita a dir quai regi,
Quai tempi, c quale stalo avesse allora
1/ antico Lazio, quando prima i Teucri
Con questa armata a* suoi liti approdare;
Ch‘io dirò da principio le cagioni
E gli accidenti, onde con essi a I* arme
Si venne in pria: dirò battaglie orrende,
Dirò stragi d’ eserciti, c duelli
De* regi stessi, c la Tirrcnia tutta
E tutta anco I* Esperia in arme accolta.
Tu d* Elicona dea, tu ciò mi detta,
Ch* allr’ ordine di cose, altro lavoro,
E maggior opra ordisco. Era signore,
Quando ciò fu, di Lazio il re Latino,
Un re che vèglio e placido gran tempo
Avea il suo regno amministralo in pace.
Questi nacque di Fauno c di Marica
Ninfa di Laurenlo, c Fauno a Pico
Era figliuolo, c Pico a te, Saturno,
Del suo regio legnaggio ultimo autore.
Non avea questo re stirpe virile,
Com* era il suo destino; c quella ch* ebbe,
Gli fu nel fior de' suoi verd'anni ancisa.
Sola d’ un sangue tal, d* un tanto tegno
Restava una sua figlia unica crede,
Che già d'anni matura, e di bellezza
Piò d’ogni altra famosa, era da molti
Eroi del Lazio e de I* Ausonia tutta
Desiala e ricerca. Avanti a gli altri
La chicdea Turno, un giovine il più bello,
Il più possente, c di più chiara stirpe
Che gli altri tulli; e più eh* a gli altri a lui,
Anzi a lui sol la sua regina madre
Con mirabile affetto era inchinala.
Ma che sua sposa fosse, avverso fato,
Vari portenti e spaventosi augùri
Faccan contesa. Era un cortile in mezzo
A le stanze reali, ove un gran lauro
Già da gran tempo conscerato e collo
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112
DELL’ ENEIDE
Insignem gemmis; tum Annida luminc fulvo
Inveivi, ac lolis Vnlcanum spargere lectis.
Id vero horrcndum ac visu mirabile ferri:
Namquo fore illuslrem fama falisquc canebant
Ipsam; sci! popolo inagnum portemlere bclluin.
Al rex sollicilus monstri», oracula Fauni,
Fatidici genitori», adii, locosque sub alla
Consulil Albunea. nemorum quac maxima sacro
Fonte sonat, sacvnmque esitala! opaca mephilim.
Mine Italae genie», omnisque Ocoolria tcllus,
In dubiis responso petunt. Iluc dona sacerdos
Quum lulìl, et caesarum ovium sub nocle silenti
Pelli bus incubili! strati», somnosque pelivi!:
Molla modis simulacro videi volitanti;! ntiris,
Et varias audii voces, fruiturque deorum
Colloquio, alque imis Acberonta affatur Aventi».
Hic et toni pater ipse polena responso Lalìnus
Ccnttim lanigeras maclabat ritc bidentes,
Alque harum efFultus tergo stralisquc iacebal
Velleribus. Subita ex allo vox reddito luco est:
Ne potè connulnis naiam sociare Lalinis,
0 ntea progenies, thalamis nett crede parali»;
Externi veniunt generi, qui sanguine noslrum
Nomen in astra Ceroni, quorumque ab stirpe nepolcs
Omnia sub pedi bus, qua Sol utrumque rccurrens
Adspicil Occanum, verlique regique videbunt.
Ilare responso palris Fauni, uionitusquc silenti
Nocle datos, non ipse suo promit oro Lalinus:
Scd circtim tale volitane iam Fama per urbes
Ausonia» luterai; quum Laomedonlia pubes
Gramineo ripae redigavi! ab aggere classem.
Con molla riverenza era serbalo.
Si dicea che Latino esso re stesso
Nel designare i suoi primi cdiOzii,
Là ‘ve irovollo, di sua mano a Febo
L’ avea dicalo; c eli* indi il nome diede
A* suoi Laurenti. A questo lauro in cima
Maravigliosamente di lontano
Romoreggiando a la sua velia Intorno
Venne d' api una nugola a posarsi;
E con 1' ali c co* piè I* una con 1* altra,
E tutte Insieme aggraticciale c sirene
Slier d‘ uva iu guisa a le sue Trondi appese.
Ciò F indovino interpretando, Io veggo,
Disse, venir da lungo un duce esterno,
Ed una genie clic d’ un loco uscita
In un loco modesmo si rauna,
Ed altamente ivi s' alloga e regna.
Stando un giorno, olire a ciò, Lavinia virgo
Sacrificando col suo padre a canto,
Ed a F aliar caste faccllc offrendo.
Parve ( nefanda vista ! ) che dal foco
Fossero i lunghi suoi capegli appresi,
E che stridendo, non pur Y oro ardesse
De le sue trecce, ma il suo regio arnese
E la corona slessa, che di gemmo
Era fregiala. Indi con roggio vampo,
Con nero fumo e con volumi attorti
S’avventasse d’intorno, c V alta reggia
Tutta di liamnte empiesse : orrendo mostro
E di gran maraviglia a chiunque il vide.
Gli auguri ne diccan che fama illustre
E gran fortuna a lei si prctendea ;
Ma ruina a lo Stato, c guerre a’ popoli.
A questi mostri attonito c confuso
Il re tosto a I* oracolo di Fauno
Suo gcnitor ne I* alla Albunea selva
Per consiglio ricorse. È questa selva
Immensa, opaca, ove mai sempre suona
Un sacro fonte, onde mai sempre esala
Una tetra vorngo. Il Lazio lutto
E tutta Enotria in ogni dubbio caso
Quindi certezza, ailp c 'ndrizzo attende.
E P oracolo è tale. Il sacerdote
Nel profondo silenzio de la notte
Si fa de V immolale pecorelle
Sotto un covile, ove s‘ adagia c dorme.
Nel sonno con mirabili apparenze
Si vede intorno i simulacri c I* ombre
Di ciò ch’ivi si chiede, c varie voci
Ne sente, c con gli dei parla e con gl’inferi.
In questa guisa il re Latino stesso
Al vaticinio del suo padre intento
Cento pecore ancide, c i velli c i terghi
Nel suol ne stende, c vi s’involve e corca.
Ed ecco un' alta repentina voce
Clic, da la selva uscendo, inluona c dice :
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Libilo SETTIMO
143
Acneas, primiquo duoes, et pulclicr lulus,
Corpora sub ramis dcponunl arboris allac;
Instituunlque dapes, et adorea liba per herbaui
Subiicìunt, epulis (sic Iupilcr ille monebai),
Et Cercale solum pomis agrestibus augcnl.
Consumlis hic Torte aliis, ut vertere niorsus
Exiguaro in Ccrerem penuria adegit edendi,
Et violare manu inalisque audacibus orbcm
Fatali* crosti, paioli* nec parccre quadris:
IlcusI ctiam mcnsas consumimus? inquit lulus,
Nec plura, alludens. Ea vox audila laborum
Prima tulit tlnem, primamque loquenlis ab ore
Eripuit pater, ac stupeTaclus numiuc pressi!.
Continuo, Salve Tatis mihi debita lellus,
Vosque, ail, o lìdi Troiae sai veto Pcnales.
Hic domus, linee patria est. Gciiilor milii lalia namque,
Nane repcto, Anrhises fatorum arcana reliquie
Quum le, nate, fumes ignota ad lilora vcctum
Accisis cogcl dapibus consumere mensa*:
Tum sperare domos defessus, ibique memento
Prima locare manu molisiquc aggere leda.
Uaec erat illa fames; hacc nos suprema manebai,
Evitiis positura modum.
Quarc agile, et primo lacli cum lumino solis,
Quac loca, quivo babeant homincs, ubi moenia genlis,
Vcsligemus, et a portu diversa pclamus.
Nunc pateras libate Iovi, precibusquc vocale
Anchisen gcnilorcm, et vina reponitc mensis.
Sic doinde cflalus frondcnli tempora ramo
Implicai, et Gcniiimquc loci, primamque deorum
Tcllurem, Nymphasque, et adhur. ignota precalur
FI umilia; lum Noctem, Noctisquc orienlia sigila;
Idacumque lovem, Phrygiamquc ex ordine Rintroni,
Invocai ; o( dupliccs coeloquc Ercboque parenles.
Hic pater oinnipotcns ter coclo clnrus ab allo
Intonuit, radiisque nrdenlem lucis et auro
Ipsc manu qualiens ostendit ab aclbere nubem.
Hidilur hic subilo Troiana per agmina rumor,
Advenissc dìem, quo debita nioeuia condant.
Certatim inslauranl epulas, atquc ornine magno
Craleras laoti slaluunl, et vina corouanl.
Iiivan, figlio, procuri, invan l* immagini
Che a Latin sposo tua figlia s' ammogli.
Vane e nulle saran le sponsalizic
CIP or le prepari. Di lontano un genero
Venir ti veggio; per cui sopra a V etera
Salirà il nostro nome; e i nostri posteri
Ne vedrà n sotto i piò quanto P Oceano
D’ ambi i tati circonda, c ’l Sole illumina.
Questa risposta c questi avvertimenti,
Perchè di notte c di secreta parte
Fosser da Fauno usciti, U re non tenne
In sè stesso celati; anzi la fama
Per le terre d’ Ausonia gli sparge» t
Quando la Frigia armala al Tcbro aggiunse.
Enea col figlio e co’ suoi primi duci
A l' ombre d’un grand’albero in disparte
Da gli altri a prender cibo insieme unissi.
Eran su 1* erba agiati : c come avviso
Creder si dee clic del gran Giove fosse,
Avean poche vivande ; e quelle poche
Gran forme di focacce e di forratc
In vece avean di tavole c di quadre,
E la terra medesma e i solchi suoi
Ai pomi agresti eran fiscelle e nappi.
Altro per avventura allor non v’ era
Di clic cibarsi. Onde, finiti i cibi,
Volscr per fame a quei lor deschi i denti,
E motteggiando allora, 0, disse luto.
Fino a le mense ancor no divoriamo ?
E rise, e tacque. A questa voce Enea,
SI come a fin de le fatiche loro.
Avverti primamente, e stupefallo
Del suo misterio, subito inchinando
Disse : 0 da’ Fati a me promessa terra,
lo le devoto adoro : e voi ringrazio,
Santi numi di Troia, amiche c fide
Scorte de gli error miei . Quesla è la pairia
Quest’ ò l’albergo nostro c questo è ’l segno
Che il mio padre lasciommi (or mi ricordo
De gli occulti mici falli), Allor, dicendo,
Che sarai, figli»», in peregrina terra
Da fame a manducar le mense astretto,
Fia ’l tuo riposo : allor Tonda gli alberghi,
Allor le mura. Or quesla è quella fame,
Chimo rischio ad ultimar prescritto
Tutti i nostri altri perigliosi affanni.
Or via, dimane a l' apparir del Sole
Per diversi senlier lungi dal porlo
Tulli gioiosamente investighiamo
Che paese sia questo, da che gente
Sia collo, o «love siati le terre loro.
Ora a Giove si bea ; faccia nsi preci
Al padre Anchisc ; e sian le mense lutto
Di viti piene e di tazze. E, ciò dicendo,
Di frondi s’ inghirlanda ; e del paese
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m
DELL’ ENEIDE
Posterà quum prima lustrata! lampade terras
Orla dics, urbem, et fines, cl lilora genlis
Diversi cxplorant; liacc fonlis stagna Ninnici,
llufic Tli> brim flmium, liic Torles habilarc Lalinos.
Tum salus Anchisa dclcclos ordine ab omni
Centura oratorcs augusta ad mocnia regis
Ire iubet, ramis Telalos Palladis omnes;
Donaquc Terre viro, paccraque exposcere Teucris.
llaud mora: feslinant lussi, rapidbquc Teruntur
Passi bus. Ipse burniti designai moenia Tossa,
Molilurque locum; primasque in lilore sedes,
Castrorum in morem, pinnis atquc aggere cingit.
lamquc iter emensi, turres ac torta Latinorum
Ardua cernebant iuvenes, muroque subibanl.
Ante urbem ptieri et primaevo flore iuventus
Excrcenlur cquìs, domitanlque in pubere currus;
Aut aeres tondunt arcua, aut lenta lacertis
Spicula conlorqucnt, cursuque ictuque loccssunt:
Quum praeveelus equo longaevi regis ad aures
Nunlius ingenles ignota in veste reportai
Advenisse viros. lite intra teda voeari
Imperai, et solio medius consedil avito.
Teclum augustum, ingens, centum sublime columuis.
Urbe Tuit stimma, Laurentis regia Pici,
llorrenduro silvia et relligione pareti tum.
Ilio sceptra accipere, et primos nllollcrc Tasccs
Itegibus omcn erat; hoc illis curia Icmplum,
llae sacris sedes epulis; hic ariete coeso
Pcrpeluis soliti patres considerc mensis.
Quin elioni vctcrum efflgics ex ordine avorum
Antiqua e cedro: llulusque, paterque Sabinus
Vitisator, curvam scrvans sub imaginc Talcem,
Saturnusque senex, Ianiquc bifronlis imago,
Vcslibulo adslabant, aliique ab origine reges,
Marliaquc ob patriam pugnando vulnera passi.
Multaquc practerca sacris in poslihus arma,
Captivi penderli currus, curvaeque securcs,
Et crislac capitimi, cl portirutn ingentia clauslra,
Spiculaque, clipeique, crcplaquc rostro carinis.
Il genio, c de la terra il primo nume
Primieramente inchina, e le sue Ninfa,
E 'I fiume ancor non conto. Indi la Notte,
E de la Notte le sorgenti stelle,
E Giove Idòo, e d 1 Ida la gran madre
E la madre di lui dal cielo invoca,
E da f Èrebo il padre. E qui di lampi
Cinto, di luce c d' oro, e di sua mano
Folgorando il gran Giove al cicl sereno
Tonò tre volle. In ciò repente nacque
Tra le squadre Troiane un lieto grido
Ch* era giù il tempo di Tondar venuto
Le dc-i'iile mura. A tonto annunzio
Tutti commossi, a rinnovar le mense,
Ad invitarsi, a coronarsi, a bere
Lietamente si diero.
Il di seguente
Nel sorger dell’ aurora uscir diversi
A spiar del paese, clic contrade
E die liti eran quelli e di che genti.
Trovàr clic di Numico era lo stagno,
E che ’l fiume era il Tebro, c la cillade
Da’ feroci Latini era abitata.
Allor d’ Ancliise il generoso figlio
Cento Tra tutti i più scelli oratori
D’olivo incoronati al re destina
Con doni, con avvisi e con richiesto
D’ amicizia, di comodi c di pace.
Questi il viaggio lor sollecitando
Se ne vnn senza indugio. Ed egli intanto ;
Preso nel filo il primo alloggiamento
Di picciol Tosso la muraglia insolca ;
E 'n sembianza di campo c di Tortezza
IV argini Io circonda c di sleccalo.
Seguon gl* imbasciatori, e giù da presso
La città, l' alte torri e i gran palagi
Scoprono de' Latini. Anzi a le mura
Veggono it llor de’ giovinetti loro
Su' cavalli e su’ carri esercitarsi,
Lotleggiar, tirar d’arco, avventar pali,
K colali altre oprar contese c prove
Di corso, d' attitudine e di forza.
Tosto che compariscono, un messaggio
Quindi si spicca in fretta, c precorrendo
Diporta al vecchio re, che nuova gente
Di gran sembiante c d’ abito straniero
Vicn dal mare a sua corte. Il re comanda
Che sieno ammessi; c nc I* antico seggio
Per ascoltarli io maestà si reca.
Era la corte un ampio, antico, augusto
Di più di cento colonnati esimilo
In cima a la città sublime albergo.
Pico di Laurcnto il vecchio rege
L’avca fondala. Era d'oscure selve,
Era de’ numi de’ primi avi suoi
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I.IURO SETTIMO
Ila
Ipso, Quirinali liluo, parvaquc scilcbal
Succinclus Irubca, lacvaquc amilo gercbat
Picus, cquùin domilor: quorn capta cupiiline coniom
Aurea pcrcnssum virga, versumque vencnis,
Pecit avem Circe, sparsitque coloribos alas.
Tali ictus tempio ilivtìm patriaquc Latinus
Sede sedens Teucros ad sesc in lecta vocavil;
Alque linee ingressi» placida prior edidil ore:
Dicile, liardanidne, { neque cnim nescimus et urbem,
Et gcnus, auditiquo advcrlitis acquore cursum ),
Quid pclilis ? quac caussa ratea, aul cuius egeutes
Lilus ad Ausonium tot per rada caciaia vexit 7
Sire errore vtac, seti tempestatibus arti
( Qualia multa mari naulac patiuntur in alto )
Fluminis inlraslis ripas, pnrtuque sedetis:
Ne lugile hnspitium, neve ignorate Latinos
Saturni genlem, liatid vinclo nec legibus acquam,
Spontc sua «elerisque dei se more lencntem.
Alque equidom memini { fama est obscurior annis )
Auruncos ila Terre scncs, his orlus ut agris
Dardanus idaeas Plirjrgiac penclraril ad urbe», ' >
Tbrelciamquc Samum, quae nunc Samolliracia ferlur.
Ilinc illuni Corylbi Tjrrhcna ab sede profeelum
Aurea nunc solio stellautis regia coeli
Accipit, et niuncrum divorum allaribus addii.
I
liiveral; et dicla llicneus sic voce seculus:
ltcì, gcnus Cgregium Fauni, nec fluetihus aelos
Sovra d' ogni altra veneranda c sacra.
Qui ile' lor scettri, qui de* primi fasci
S’ investirono i regi. In questo tempio
Era la curia, eran le sacre cene,
Eran de' padri i pubblici conviti
De P ucciso ariete. Avea d* antico
Cedro nel primo entrar I* un dietro o l'altro
De* suoi grand’ avi simulacri cretti.
Italo v’ era, e ii buon padre Sabino,
Saturno con la vile c con la falce,
Giano con le due teste, e gli altri regi
Tulli di mano in man, che combattendo
Non fur di sangue a la lor pairia avari.
Pendean da le pareli c da’ pilastri
Un gran numero d’armi c d'altre spoglie
Prese in battaglia. A i portici d'intorno
Carri, trofei, catene* elmi c cimieri
E sccuri e corazze e scudi c lance
E rostri di navilii e ferri e sbarre
Di fracassale poste erano adisse,
in abito succinto, e con la verga
Clic fu poi di Quirino, e con l ancile
No la sinistra esso re Pico assiso
V'cra, pria cavaliere», e poscia augello,
Ch’in augello il cangiò la maga Circe
Sdegnosa amante; c gli suoi regii fregi
Gli converse in colori, c ’l manto in ali.
In questo tempio sovra al seggio agiato
Dc’suoi maggiori, a sè Latino i Teucri
Chiamar si fece; e dolcemente in prima
Così parlò: Dite, Troiani amici,
A clic renile? chè venite in luogo
Ch'ha di Troia e di voi contezza a pieno.
Siatevi, o per errore o per Icmpcsla
0 per bisogno a questi liti addotti ,
Come a gente di mar sovente avviene,
A buon fiume, a buon porto, a buon ospizio
Siete arrivali. Da Saturno scesi
Sono i Latini, cd ospitali e buoni,
Non per forza o per leggi, ma per uso
E per natura; e del buon vecchio dio
Seguitino Torme e de’suoi tempi d'oro.
10 mi ricordo (ancor che questa fama
Sia per moli’auni ornai debile c scura)
Che per vanto solcano i vecchi Aurunci
Dir che Dardano vostro in queste parti
Ebbe il suo nascimento; c quinci in Ida
Passò di Frigia, e nc la Tracia Samo.
Ch’or Samotracia è detta. Da’ Tirreni,
E da Corilo uscio Dardano vostro,
Ch’or fallo è dio, c tra’celoli in cielo
D’oro ha la sua magion, di siede il seggio,
E qua giù tra’mortali altari e voli.
Avea ciò dello, quando a’delti-suoi
11 saggio Idoneo così rispose:
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DELL ENEIDE
146
Aira subcgit liiems vostri» succedere tcrris,
Noe sidus regione viac lilusve fefcllil :
Consilio hanc onines animisque volenlibus urbem
AlTcrimur, pulsi regni», quae maxima quondam
Estremo veniens Sol adspicicbal Olimpo.
Ab love principium generis; love Bardana pubes
Gaudet avo; rcx ipsc, lovis de genie suprema,
Troìus Acncas luo nos ad limina misil.
Quanta per Idacos saevis effusa Mycenis
Te m pesi a s ieri! campo», quibus aclus ulerque
Europa e nlquc Asiae fatis concurrerit orbis,
Audiit, el si quem lellus extrema refuso
Submovel Oceano, el si quem exlenla plngarum
Quotuor in medio dirimit plaga Solis iniqui.
Diluvio ex ilio lol vasta per aequora vedi
Dls sedem exiguam patriis litusque rognmus
Innocuum, et cu n din undamque auramque patenlem.
Non c rim us regno indeeores; nec vostra ferelur
lovis, lanli ve abolisce! gralia facti;
Nec Troiam Ausonio? gremio excepi«se pigebil.
l’ala per Aeneae iuro, clexlramque polcnlcm,
Sive fide, sou quia bello est experlus el armi»;
Multi nos popoli, mullae ( ne lemne, qtiod «Uro
Praererimus manibus villa» ac verba precanlia )
El pelicrc sibi el voluere adiungerc genie».
Sed nos falò dcrtm veslras oxquirore terra»
Imperiis egere suis. Tlinc Dardanns orlus;
line repelif, iussisque ingentiliti» urgel Apollo
Tyrrìieniim ad Thybrim el fonlis vada sacra Nomici.
Dal libi praelerea forlunae parva priori»
M onera, rclliquias Troia ex ardente rcceplas.
Hoc palcr Ancliiscs auro Ifhabot ad aras:
Hoc Priami gcslamen orai, quum iura vocali»
More darei populis; scoptrumque, saccrquc liaros,
lliadumquc labor vcslcs.
Alto signor, di Fauno egregio figlio,
Non tempesta di mar, non venli avversi,
Non di stelle, o di liti, o di nocchieri
Error qui n’ave, od ignoranza addotti.
Noi di nostro voler, di nostro avviso
Ci siam vernili, discacciali c privi
D’un regno dc’maggiori e de’più chiari,
Ch'unqua vedesse d’oriente il Sole.
Da Dardano e da Giove il suo legnaggio
Ila quella gente, e quel Troiano Enea
Lh’a le ne manda. La tempesta, i Fati,
E la ruma che ne’ campi Idèi
Venne di Grecia, onde l'Europa c l'Asia
E 'I mondo tulto sottosopra andonne,
Cui non è conia? Chi sì lungo è posto
Da noi, che non l’udisse? o che da Tacque
De Postremo Oceano, o che dal fuco
De la torrida zona sia diviso
Da la nostra notìzia? Il nostro affanno
Tal fece intorno a sè diluvio c molo,
Clic scosse ed allagò la terra tutta.
Da indi in qua dispersi e vagabondi
Per tanti mari, un sol picciol ridono
A gli dei nostri, un filo che n’accolga
Non da nemici, un poco d’acqua c d’aura
(Lassi!) quel cb'ogu’uom ha, cercando andia-
Non disutili, credo, c non indegni [mo.
Sarem del regno vostro: a voi non lieve
Nc verrà fama; c d’un lai merlo tanto
Vi sarem grati, che l’Ausonia terra
Non mai si pentirà d’aver i figli
De la misera Troia in grembo accolti.
10 ti giuro, signor, per le fatiche,
Per gli Fati d’Enea, per la possente
Sua destra (già per fede c per valore
Famosa al mondo) clic da molte genti
Molle fiale <e ciò vii non li sembri.
Che da noi stessi a le ci proferiamo,
E ti preghiamo) siam pregati noi,
E per compagni desiali c cerchi.
Ma da i fati, signor, c da gli dei
Siam qui mandali. Dardano qui nacque,
Qua Febo nc richiama. Febo stesso,
E quel di Deio, è ch'ai Tirreni, al Tebro,
Al fonie di Musaico, a voi c’invia.
Queste, oltre a ciò, poche reliquie, c segni
l)c l’andata fortuna e del suo amore
11 re nostro ti manda; che dal foco
Son de la pairia ricovralc appena.
Con questa coppa il suo gran padre Anchisc
Sacrificava. Questo regno in lesta
Quando era in soglio, il gran Priamo aveo:
Questo è lo scettro, questa è la tiara.
Sacro suo portamento ; c queste vesti
Sou de le donne d’ilio opre c fatiche.
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Mimo SETTIMO
in
Talibus llionei diclls defua Latinus
Oblulu tene! ora, soloque immobili* li a e rei,
Intentos volvcns oculos. Noe porpora regcm
Picla movct, ncc sceplra movcnt Pria m eia tantum,
Quantum in connubio nalac thnlamoquc moratur,
Et veleria Fauni voi rii sub pectore sortem.
llunc illuni Tali* esterna ab sede profectum
Porlendi geperum, paribusque in regna vocari
Auspici)*; buie progeniem virtute fulurarn
Egregiam, et tolum quae viribus occupet orbem.
Tandem lacius ail: Di nostra incepla secundent,
Auguriumque suum ! Dabilur, Troiane, quod opta*;
Blu nera nec sperno. Non vobis, rege Latino,
Divida ubcr agri Troiaeve oputentia deerii.
Ipsc modo Aeneas, nostri si tanta cupido est,
Si lungi bospilio properat sociusque v oca ri,
Àdvenial, vultus neve exhorrcscat amicos.
Pars mihi pacis erit, dextram letigissc lyranni.
Yos conira regi mea nunc mandala referte.
Est m hi nata, viro gentis quam iungcrc noslrac,
Non patrio ex adyto sorles, non plurima coclo
Monstra sinunt: gencros exlernis alture ab oris,
Hoc Latio restare canunl, qui sanguine nostrum
Nomen in astra fcrant. Hunc illuni poscere fata
Et reor, et, si quid veri mens augurai, opto.
Haec elTatus, equos numero pater digit omni.
Stabant ter ccntum nitidi in praesepibus allis.
Omnibus extemplo Teucris iubel ordine duci
Inslratos ostro alipedes picthquc tapelis.
Aurea pccloribus demissa monilia pcndent;
Teeli auro; fulvum mandimi sub denlibus aurum.
Abscnti Aeneac currum geminosque iugalcs,
Semine ab aetherio, spiranles naribus igriem,
Illorum de gente, patri quos dacdala Circe
Supposta de maire nothos furala creavi!.
Talibus Acncadae donis dictisquc Latini
Sublimcs in equis redeunt, paccmque reportant.
. Al dir d’tlionéo slava Latino
| Fisso col volto a terra immoto c saldo,
Come in astrailo, e solo avea le luci
De gli occhi intese a rimirar, non tanto
Il dipinl’oslro e gli altri regii arnesi,
Quanto in pensar de la diletta figlia
Il maritaggio, c T vaticinio uscito
Dal vecchio Fauno. E ’n sè stesso raccolto,
Questi è certo, dicco, quei rhc da' Tali
Si denunzia venir di slran paese
Genero a me, sposo a Lavinia mia,
Del mio regno partecipe e consorte.
Questi è da cui verrà l’egregia stirpe,
Clic col valer forassi e con le forze
Soggetto e tributario il mondo tulio,
i Ed al fin lieto, 0, disse, eterni dei.
Secondate voi stessi i vostri auguri,
| E i pcnsicr mici. Da me. Troiani, avrete
j Tutto clic desiate; c i vostri doni
Gradisco e pregio; c mentre re Latino
Sarà, sarete voi nel regno suo
Cortcscmcnlc accolti; c ’l seggio c i campi
E ciò ch*è d'uopo, come a Troia foste,
In copia avrete. Or s'ci tanto desia
L'amistà nostra e il nostro ospizio, veglia
Egli in persona, c non abborra ornai
Il nostro amico aspetto. Arra c certezza
Ne fia di pace il convenir con lui,
E di lui stesso aver la fede in pegno.
Da l’altra parie, a mio nome gli dite
Quel ch'io dirovvt. Io senza più mi trovo
Una mia figlia. A questa ii mio paterno
Oracolo, e del ciel molli prodigii
Violai! ch’io dia marito altro ch’esterno.
D’esterna parte, tal di Lazio è *1 fato,
Un genero dal cìel mi si promette,
Per la cui stirpe il mio nome e ’l mio sangue
Ergerassi a le stelle. Or se del vero
Punto è ’l mio cor presago, egli è quel desso,
Cred’io, clic’l fato accenna, c’t credo, c T bra-
Ciò detto, dc’lrcccnto, che mai sempre [ino.
A’suoi presepi avea, nitidi e pronti
Destricr di fazione c di rispetto,
Per gli cento oralor cento n'elegge,
Cb’avean le lor coverte c i lor girelli,
Le pcllierc c le briglie in varie guise
D'ostro c di seta ricamali c d’oro,
E d’ór le ghiere, e d’ór le borchie e i freni.
Al Troian duce assente un carro invia
Con due corsier ch’eran di quei del Sole
Generosi bastardi, c vampa c foco
Sbuffava» per le nari. Al sol suo padre
La razza ne furò la scaltra Circe
Alior ch'a l'incantate sue giumente
Elo e Piróo furtivamente impose.
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Il*
DELL' ENEIDE
Ecce autrm Inacliiis sose rcfcrebal ab Argis
Sanva lovis coniunx, aurasquc InvctU Inncbal;
Et lactiiiii Aenoam classcmque ex aclhern longc
DariJaniam Siculo prospexit ab usque Pecltyno.
Jloliri iam Inda videi, iam Odcrc Icrrac;
Desertiissc ratea. Stelli acri iita dolore.
Tum, quassans caput, liacc effundit pectore dieta:
lleu stirperò invitai», et fatis contraria no-tris
Fata Plirygum I Nuin Sigeis occumbere rampis,
Noni capii poluerc capi 7 num incensa cremavi!
Troia «iros ? Media» arie» mediosque per ignea
Invenerc viam. Al, credo, mea nurnjna tandem
Fessa iacent, udii» aut exsalurala quieti 7
Quin elioni patria cicussos infesta per undaa
Ausa seqnì. et profugis loto me opponere ponto.
Absunilac in Tenero» vire» eoelique marisque.
Quid Sjrtcs aul Scylla mihi, quid vasta Cliarjbdis
Profusi 7 Optato cnndunlur Thybridis alveo,
Seeuri pelogi atque mci. Jlars perdere gentem
Immancm Lapilhum valuil; concessi! in iras
Ipsc dedm antiquato genilnr Calvdona Dianac;
Qnod seelns aul Lapilhas tantum, aut Calydona mc-
rcnlcm ?
Ast ego, magna lovis coniunx, nil linqucrc inausum
Quae politi infclix, quae mcmel in omnia vcrti,
Vincor ab Aenca I Quod si mea nomina non sunt
Magna salis: dubitem Itami equidem implorare, quoti
osquam est.
Flettere si nequeo Superos, Acheronte movebo.
Non dabitur regnis, esto, proludere Lalinis,
Atque immola manet fatis Lavinia coniunx:
Al trattore, atque mora» tantis licei addi re rebus:
At licci amborum populos exseindere regum.
llac getter atque soccr coiiant mercede suorum.
Sanguine Troiano et Rululo dolabere, virgo;
Et Bellona mane! le pronuba. Noe face tantum
Cisseis praegnans ignes enixa ingales;
Quin idem Veneri partii» suus, et Paris alter,
Funcslacque itcrurn recidiva in Pcrgama taedae.
Tali in su lai cavalli alteramente.
Tornando i Teucri al Teucro duce, allegre
Porlàr novelle c parentela c pace.
Ed ceco clic di Grecia uscendo e d'Argo
L'empia moglie di Giove, alto da terra
Sospesa, inlln al Siculo Pachino
Vide i legni Troiani; e vide Enea
Con tulli i suoi, clic lido c fuor del mare
E sccur de la terra incominciava
D’alzar gli alberghi e di fondar le mura
Già d’un allr'llio. E, punta il cor di doglia,
Squassando il capo,Ah,dissc,a me pur troppo
Nimica razzai ah troppo a' Tali miei
Fati de'Frigii avversi! E forse estinti
Fur ne'campi Sigei? Forse potuti
Si son prender già presi, ed arder arsi?
Per mezzo de le schiere c de gl'incendti
Ilari (rotala la via. Stanca ila dunque
Questa mia deità, quando ancor sazia
Non è de l’odio? c già s'è resa, quando
Ita fin qui nulla oprato? E ette mi giova
Clic siati del regno, e de la patria in bando ?
Che mi vai ch'io mi sia con lutto il mare
A loro opposta? Ahi che del mar già tutte,
E del ciel contra lor le forze ho logre.
E clic le Sirli, c che Scilla e Cariddi
A me con lor son valse? Ecco Itati del Tebro
La desiala foce; e non bau tema
Del mar più, uà di me Starle poléo
Disfar la gente dc'Lapiti immane;
Potò Diana aver da Giove in preda
Del suo disdegno i Calidoni antichi,
Quanto de’Calidoni e dc’Lapiti
Vèr le pene era il fallo o nullo o leve:
Ed io consorte del gran Giove c suora,
Misera, incontro a lor che non ho mosso?
Che di me non ho (allo? E pur son vinta.
Enea, Enea mi vince I Ah se con lui
Il mio nume non può, perche d'ognuno,
Chiunque sia, non ogni aita imploro?
Se muover contra lui non posso il ciclo,
Muoverò l' Acheronte. Oli non per questo
Il fato si distorna; etl ei non meno
Di Latino otterrà la figlia c T regno.
Clic più? Lo tratterrò: gli darò briga:
Porrò, s’altro non posso, in tanto affare,
Gara, indugio c scompiglio: a strage, a morte,
Ad ogni strazio condurrò le genti
De l'un rego c de l'altro; c questi avanzi
Faran primieramente i lor suggelli
De la lor amistà. Con questo in prima
Si sian suocero c genero. Del sangue
De' Troiani e de’ Ruttili dotata
N'andrai, regia donzella, al tuo marito;
E del tuo maritaggio e del tuo letto
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LIBRO SETTIMO
H»)
Uacc ubi dicla dedit, lerras horrenda pelivil;
Luciificam Alicelo Diraruin ab sede sororum
Inferuisque cit i teuebris: cui Iristia bella,
Iracque, insidiaeque, et crimina noiia cordi.
Odil et ipse poter Pluton, odere sorores
Tarlarcac monstrum: tot scse vcrtil in ora,
Tarn saevae facies, tot pullulai atra colubris.
Quaoi Iuno bis acuit verbis, ac talia falur:
Dune milii da proprium, virgo sala Nodo, laborem
liane operaio, ne nostcr honos infraclave cedat
Fama loco; neu connubiis ambire Laiinum
Acneadac possiti!, Italosve obsidere fines.
Tu potcs unanimos armare in proclio fralres,
Atquc odiis versare domos; lu verbera leclis
Funereasque inferre faces; libi nomina mille,
Mille noccndi arte*. Fecundum concute peclus,
Disiice compo.siiam pacem, sere crimina belli;
Arma velil, poscalque simul, rapiatque iuventus.
Exin Gorgoneis Alicelo infeclo venenis
Principio Lalium el Laurcnlis leda tiranni
Gelsa polii, lacilurnquc obsedil limen Amalae,
Quam super advenlu Teucrùm Turniquc liymenaeis
Femineae ardcnlcm curacquc iracque coquebant.
lime dea caeruleis unum de crinibus augucm
Comici!, inqne sinum praecordia ad intima subdi!,
Quo furibunda domum monstro pcrmisccat omnem.
lite, inlcr vcslcs el levia prclora lapsus,
Volvitur altaclu nullo, fallilquc furenlem,
Yipeream inspirans animam; Ut tortile collo
Aurum ingcns coluber, fìl longne taeriia viltac,
Inneciilque comas, el membris lubricus errai.
Ac dum prima lues udo sublapsa \eneno
Pcrlcnlal scnsus, atquc ossibus implicai ignem,
Necdum animus loto percepii pectore fluimnain
Mollius, et solilo matrum de more, loquuta est,
Multa super nata lacrimans Phrygiisquc bymenaeis:
Eisulibusne dalur duccnda Lavinia Teucris,
Vischio vol. ciuco
Auspice fia Bellona in vece mia.
Cotal non partorì di face pregna
Ecuba a Troia incendio, qual Ciprigna
Avrà con questo suo novello Pari
Partorito altro foco, altra rtìina
A qucsfultr'Ilio.
Ciò dicendo, in terra
Discese irata, c da V interne grotte
A sè chiamò la nequitosa Alello.
De le tre dire Furie una è costei,
Cui son Tire, i dannaggi, i tradimenti,
Le guerre, le discordie, le ruine,
Ogni empio officio, ogni nini* opra a corc,
E tale un mostro in tanti e cosi fieri
Sembianti si trasmuta, c de' serpenti
SI (etra copia le germoglia intorno,
Che Pluto e le tartaree sorelle
Sue stesse in odio ed in fastidio V hanno.
Ciurma le parla, e via più co* suoi delti
In tal guisa Faccende : 0 de la Nolte
Possente figlia, io per mio proprio adotto,
Per onor del mio nome, per salvezza
De la mia fama un luo servigio agogno.
Àdoprali per me, che, mal mio grado,
Questo Troiano Enea dei re Latino
Genero non divenga, c nel suo regno
Con gran mio pregiudicio non s'annidi.
Tu puoi, volendo, armar V un contro l’altro
I concordi fratelli : odii c zizzanie
Seminar Ira* congiunti; e per le case
Con mitrarti nocendo, in mille guise
Infra i mortali indur morti c rii ine*
Scuoti il fecondo petto, c le lue forze
Tutte a quest’opra accampa. Inferma, annulla
Questa lor pace; inGainina I cori e l’armi :
Arme ognun bromi, ognun le gridi e prenda.
Di serpi, e di Gorgóiici ventili
Guarnissi Alleilo; e per lo Lazio in prima
Scorrendo, e per Laurealo, e per la corte
De la regina Amata entro la soglia
Insidiosamente si nascose.
Era allor la regina, come donna,
E come madre, dal materno affetto.
Da lo scarno de’ Teucri, dal disturbo
De le nozze di Turno in molte guise
Afllitla e conturbata, quando Allctto
Per rivolgerla in furia, e cu* suoi mostri
Sossopra rivoltar la reggia Inda,
Da' suoi cerulei crini un angue in seno
Le avventò si clic l’ cnlrò poscia al core.
Ei primamente infra la gonna e'I petto
Strisciando, c non mordendo, a poco a poco
Col suo vipereo fiato un non sentito
Furor le spira. Or le si fa monile
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ISO
Util i/ EMEIDIv
O geuilor r ncc le misere! naiaeque luique ?
Nec molris mìsere!, qimm primo aquilone relinquel
Perii Ous, olla pclens, abducla virgine, praedo ?
Al non sic Phrjrgius penelril Laeedaemona paslor,
Lcdaeamque llelcnam Troianas vosi! ad urbes I
Quid lua sancla tldes ? quid cura anliqua luoruni,
El consanguineo lolics dola devierà Turno ?
Si gener esterna pclilur de genie Latinis,
Idque sede!, Fauniquc premunì le. iussa parenti»:
Omuem cquidem sceplris lerram quac libera nostlis
Dissidel, cjternam reor, cl sic dicerc divos.
El Turno, si prima domus repelalur origo,
Inaclins Acrisiusquc palrcs, mediaeque Mjccnae.
His ubi ncquidquam dielis caperla, Lalinum
Conira slarc videi, peuilusque in visccra lapsum
Serpcnlis furiale inalum, lolamquc pererral:
Tum vero infelii, ingenlibus escila monstri»,
Immcnsain sine more furil lymphala per urbein.
Ccu quondam torlo volilans sub «erbcrc birbo,
Quem pueri magno in gyro vacua alria circum
Interni ludo evrrcenl; ilio aclus babena
Cunatis ferlur spaliis; slupcl inscia sopra
Impubesque manna, mirala volubile buvum;
Dani animo» plagae: non cursu segnior ilio
Per medias urbe» agllnr populosquc feroces.
Quiu elioni in silias, simulalo nuniinc Bacchi,
Maius adorla lieta», maioremque orsa furorem,
Etolal, el nalam frondosi» monlibus ubdil,
Quo llialamum eripial Tcucris, laedasque morelur,
Evoe, Bacche, fremens, solum le virgine digrumi
Vociferali». Elcoim molles libi sumere Ihyrsos,
Tc lustrare choros, sacrum libi pascere crincm,
Fama volai; Furiìsquc accensas pcclorc Daatrcs
Idem omnes simul ardor agii, nova quaerere leda,
Dcserucre domos; ventis danl colla comasque.
Asl aliae Iremulis ululatibus aclliera compleitl,
Pampincasqne gerunl ìncinctac pcllibus hastas.
Ipsa inler medias flagramelo fervida pinum
Suslincl, ac nalac Turniquc canil bymenacos,
Sanguineam turquens acicm; lorvumque repente
Clamai: lo maire», ondile, ubi quacquc, Lalinae.
Si qua piis animis malici infclicis Amalac
Gralia, si iuris materni cura remordet:
Solvile crinales villas, capile orgia mccum.
Allorliglialo al colio; or lunga benda
Le pende da le (empie, or quasi un nastro
L' annoda il crine. Al (in lubrico errando,
Per ogni membro le s’ avvolge c serpe.
Ma fin che prima andò languido c molle
Soli i sensi occupando il suo veleno ;
Finché il suo foco penetrando a P ossa
Non uvea lutto ancor I* animo acceso,
Ella donnescamente lagriniando
Sovra la figlia e sovra le sue nome
Con lai quoto rammarco si dolca :
Adunque si dori Lavinia mia
A Troiani ? a banditi ? E lu suo padre,
Tu cosi la colldchi ? E non l' incrcsce
Di lei, di le, di sua madre infelice ?
CIP al primo velilo eh - ui suoi legni spiri,
Di cosi raro pegno orba rimase
( Come dir si potrà ) da questo infido
Fuggitivo ladrone abbandonala
Del mar vcdrolla e de' corsari iu preda ?
0 non cosi di Sparla anco rapita
Fu la figlia di Leda ? E chi rapida
Non fu Troiano aneli’ egli ? Ah dov’ é , sire,
Quella lua sanla inviulabil fede?
Quella cura de' tuoi ? quella promessa
Clic s' è falla da le già tante volle
Al nostro Turno ? Se d’ cslerna genie
Genero ne si dee ; se fisso e saldo
È ciò nel luo pensiero ; se di Fauno
Tuo padre il vaticinio a ciò li siringe :
lo credo di’ ogni terra, eh’ al luo scettro
Non è soggetta, sia straniera a noi.
Cosi ragion mi delta, e cosi penso
Clic l’ oracolo intenda. Oltre che Turno
( Se la sua prima origine si mira )
Per suoi progenitori Inaco, Acrisio,
E per patria ha Micene. A questo dire
Slava nel suo proposito Latino
Ognor più duro. E la regina iulanto
Più dal veleno era dei serpe infetta :
E giù (ulta compresa, e du gran mostri
Agitala, sospinta e forsennata,
Sema ritegno a correre, a scagliarsi,
A gridar Tra le genti e fuor il' ogni uso
A tempestar per la cillù si diede.
Qual per gli atrii scorrendo e per le sale
Infra la turba de' fanciulli a volo
Va sferzato palco di’ a salti, a scosse,
Ed a siioii di guinzagli roteando
E ronzando s' aggira e si travolve.
Quando con meraviglia c con diletto
Gli va lo sluol de' semplicetti intorno,
E gli dòn co’ flagelli animo c forza ;
Tal per mezzo del Lazio e de' feroci
Suoi popoli vagando, insana andava
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unno SETTIMO
lai
Talcm intcr silras, intcr deserta fcranim,
Ileginam Alicelo slimulis agii uudique Ilacclii.
Poslquam viso salis primos acuisse furore»,
Consiliumque omnemque domuni ve rii' se Lalini:
Prolcnus liine fuscis Irislis dea lollitur alis
Audacis Rululi ad muro», ( qnam dicilur urbem
Acrisioneis Danai; fondasse colonia ),
Praecipili dolalo Nolo. Locus Ardca quondam
Diclus avis; cl mute magnutn mane! Ardca nomcn,
Sed Torluna fuit. Tcclis Irle Tumus in allis
larrr mediani nigra cnrpebal norie quielcm.
Alicelo lorvam faeiem cl rurlalia membra
Etuil; in vullus scsc transformal aniles,
El fronlcm obscenarn rugis arai: induil albos
Cnm villa crincs; Imo ramum inneclit olivae;
Fit Caljbe. lunonis amis lemplique sacerdos,
Et iuveni aule oculos bis se cnm vocibus ofTcrl:
Turne, lol incassurn fusos paliere labore»,
El lua llardaoiis transscrihi sccplra roloriis ?
Rei libi coniugium cl quacsilas sanguine dolca
Abnegai; etlernusque in regnum quaerilur bcres.
I nunc, ingrati» olfcr le, irrise, periclis;
La regina infelice. E quel che poscia
Fu d’ ordire e di scandalo maggiore,
l>i Bacco simulando il nume c'I coro
Per lòr la figlia a i Teucri e le sue none
Distornare, o ’ndugiare, a' monti ascesa
Ne le selve 1‘ ascose : 0 Bacco, o Libero,
Gridando, Efioi ; questa mia vergine
Solo a le si convien, solo a le serbasi.
Ecco perchè nel luo coro s' esercita.
Per te prende i tuoi tirsi, a le s’impampina,
A le la chioma sua nodrisce e dedica.
Divulgasi di ciò la fama intanto
Fra le donne di Lazio, c lutto insieme
Da furor traile, c d' uno ardore accese
Sallan fuor de gli alberghi a la foresla.
Ed altre ignude i colli e sciolte i crini,
D' irsute pelli involte, c d' asic armale,
Di tralci avviticchiate c di corimbi.
Orrende voci c tremoli ululati
Mandano a l’aura. E la regina in mezzo
A tutte I' altre una taccila in mano
Prende di pino ardente, c l’ imeneo
De la figlia c di Turno imita e canta,
E con gli occhi di sangue e d' ira infetti
Al cielo ad or ad or la voce alzando,
l'dilcmi, dicca, madri di Lazio,
Quante ne siete in ogni loco, udilemi.
Se può piclatc in voi, se può la grazia
De la misera Amata, e la miseria
Di lei, eh' ad ogni madre è d' infortunio,
Disvelatevi tutte e scapigliatevi ;
Eiioè , a questo sacrificio
No venite con me, meco ululatene.
Cosi da Bacco e da le Furie spinta
Ne già per selve c per deserti alpestri
La regina infelice, quando Allctto,
Gli' assai giò disturbato area il consiglio
Di re Latino c la sua reggia tutta,
Hallo su le Tose’ ali a l’aura alzossi ;
E là 've giò d’ Acrisio il seggio pose
L’ avara figlia ivi dal vento esposta,
A l' orgoglioso Turno si rivolse.
Ardèa fu quella terra allor nomata,
E d'Ardèa il nome insino ad or le resla.
Ma non già la fortuna. In questo loco
Entro al suo gran palagio a mezza notte
Prendea Turno riposo, allor di' Alletto
Vi giunse, e il torvo suo maligno aspetto
Con ciò eli' avea di Furia, in senil forma
Cangiando, raggruppossi, incanutissi,
E di bende e d' olivo il crin velossi :
Calibe in tutto fèssi, una vecchiona
di' era sacerdotessa e guardiana
Del tempio di Giunone; c ’n colai guisa
Si pose a lui davanti, e cosi disse :
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152
DELI/ ENEIDE
Tyrrhenas, i, sterne acies; lege pace Laiinos.
linee adeo tibi me, placida qinim nocle iaceres,
Ipsa palam lari omnipotcns Saturnia iussil.
Quare agc, cl armari pubcm porlisque moveri
Lactus in arma paro, et Phrygios, qui flumine pulchro
Consedere, duces piclasque exurc corinas.
Coelcslum vis magna iubel. Rcx ipsc Latinus,
Ni dare coniugium cl dicto parere fatetur,
Scnlial el tandem Turnum ciperiulur in armis.
i
lite iuvciiis, vatem irridens, sic orsa vicissim
Ore refcrl: Classcs invectas Thvbridis alveo,
Non, ul rere, nieas cfTugil nunlius aure»:
Ne lanlos mibi Unge metus: nec regia limo
Immcmor esl nostri.
Sed le vieta situ verique effela seneclus,
0 mater, curis ncquidqiiam osercet, et arma
Regum inler falsa totem formidine ludi!.
Cura tibi, divùtn cflìgies el tempia lucri;
Bella viri pacemquc regnili, quls bella gerenda.
Talibus Alicelo diclis exarsil in iras.
Al iuveni oranti subilus Iremor occupot nrlus;
Dcriguerc oculi: lol Erinnys sibilai hydris,
Tanlaque se facies aperit. Tum, flammea lorqucns
Lumina, cunclantem el quaerenlem dicere plura
Repulit, et geminos crcxil crinibus angues,
Vcrberaque insonuil, rabidoque liner addidit ore:
En, ego, vieta silu, quam veri cflcta seneclus
Arma inler regum falsa formidine ludil
(Respice ad haec), adsum Diraruin ab sede sororurn;
Bella manu lelumquc gero.
Sic effala faccm iuveni coniecit, et atro
Lumine furnantes fixil sub pectore laedas.
Olii somnnm ingens rumpit pavor, ossaque et arlus
Pcrfundil tolo proruplus corporc sudor.
Arma amens fremii; arma toro tectisque requi rii.
Saevil amor ferri, cl sceterala insania belli;
Ira super: magno voluti quum fiamma sonore
Turno, adunque avrai Iti sofferto indarno
Tante fatiche, e questi Frigii avranno
La Ina sposa c *1 Ino regno ? Il re, la figlia
E la dote, eh' a te per gli tuoi merli,
Per lo sparso luo sangue era dovula,
E già da Ini promessa, or li ritoglie ;
E de T una c de l’ altra erede e sposo
Fossi un este rno. Or va cosi deluso,
E per ingrati la persona e I' alma
Inutilmente a tanti rischi esponi
Fn strage de* Tirreni. Va ; difendi
I tuoi Latini, e in pace li mantieni.
Questo mi manda apertamente a dirti
La gran Saturnia Giuno Arma, arma i tuoi;
Prepàrali a la guerra; esci in campagna ;
Assagli i Frigii, e snidagli dal fiume
Cb* li un di già preso, e i lor navilii incendi.
Dal cicl li si comanda. E se Latino
A le promission non corrisponde ,
Se Turno non accetta e non gradisce
Nè per suo difensor, nè per suo genero,
Provi qual sia ne I* armi, e quel eh* importi
Averlo per nimico.
Al cui parlare
II giovine con beffe e ron rampogne
Cosi rispose : Io non son, vecchia, ancora
Come te fuor de’ sensi; e ben sentila
Ho la nuova de* Teucri, e me ne cale
Più clic non credi. Non però ne temo
Quel che lu ne vaneggi; e non m’ ha Giuno
( Penso ) in tanto dispregio e *n tale obblio:
Ma tu da gli anni rimbambita e scema
Entri folle in pensier d’ armi c di Siali ,
Ch'a le non tocca. Quel eli' è luo mesliero,
Governa i templi, attendi a i simulacri,
E di pace pensar lascia c di guerra
A chi di guerreggiar la cura è dala.
Furia a la Furia questo dire accrebbe,
SI che d'ira avvampando, ella il suo volto
Riprese e rincagnossi : ed ei ne gli occhi
Stupido ne rimase, e tremò lutto :
Con tanti serpi s* arruffò I’ Erinne,
Con tanti nc fischiò, tale una faccia
Le si scoversc. Indi le bieche luci
Di foco accesa, la viperea sferza
Gli girò sopra; c si com’ era immolo
Per lo stupore, ed a più dire inteso,
Lo risospinsc: e i suoi delti c i suoi scherni
Cosi rabbiosamente improvcrógli :
Or vedrai ben se rimbambita c scema
Sono entrata in pensier d* armi c di Stali
Ch'a me non tocchi; e se son vecchia e folle.
Guardami, e riconoscimi; ch'a questo
Son dal Tarlare uscita. E guerra c morie
Meco nc porto. E, ciò detto, avvcntògli
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LIBRO SEI TIMO
153
V'irgca suggeritili* coslis unduntis aiiui,
Evsullantque acstii lntices; Curii intus aquai
Fumidus alque alte spumis esuberai amnis;
Ncc iam se capii unda; volai vapor atcr ad auras.
Ergo iter ad regem pollala pace Lalinum
Indici! primis iuvenum. el iubet arma parari,
Tatari Italiani, detruderc lini bus lioslem;
Se salis ambnbus Tcucrisque venire Lalini^que.
llaec ubi dieta dedii, divosque in vola vocavll:
Orlalim se se Rullili exhortanlur in arma.
Ilunc decus egregium forma c movet alque iuvcnlao,
Hunc alavi reges, hunc Claris desterà faclis.
bum Turnus Rululos animis audacibns implet:
Alicelo in Teucro» Slygiis se concitai ali**.
Arte nova, speculata lorum, quo lilore polche*
Insidiis cursuquc fcras agilabal Iulus.
Ilic siibitam ranibus rebicm Corylla virgo
Obiicil, d nolo nores conlingil odore,
IT cervum o'denles agercnl: quae prima laborum
Gaussa fuil, belloque animos accendi! agreste».
Ccrvu» ersi forma pracstanli et cornibus ingens,
Tyrrhidae pucri quem mairis ab ubere raplum
Piulribanl, Tyirlieusquc pater, cui regia parcnl
Armenia, el Iole custodia credila campi.
Assuelum imperi» soror ornili Silvia cura
Moliibus inhwens oruabnt enrnua serlis,
Pcctcbalque fcram, puroque in fonie lavobal.
Ilio, manuni paliens, inensaeque assuclus belili,
Errabal silvis; rursusque ad limina nota
Ipse domum sera quamvis se nocte fere bai.
Hunc procul erranti ni rabidac venantis tuli
Commovere canes, fluvio quum forte secundo
Denuerel, ripaque acslu» viridantc levare!.
Ipsc ebani, esimia»; laudis succensus amore,
Ascanius curvo direxit spicula cornu:
Kec dexlrac erranti deus afuit; adaque multo
Tale una face c con lai fumo un fuoco,
Che fo’ tenebre a gli occhi e fiamme al corc.
Lo spavento del giovine fu (ale,
Che rollo il sonno, di sudor bagnalo
Si trovò per angoscia il corpo tulio :
E slordilo sorgendo, orme d* intorno
Cercossi, armi gridò, d* ira s’ accese,
D* empio disio, di sccllcrala insania,
Di scompigli c di guerra. In quella guisa
Che con allo bollor risuona e gonfia
Un gran caldar, quand'ha di verghe a'tianchi
Chi gli ministra ognor foeo maggiore,
Quando l’ onda più ferve, e gorgogliando
Più rompe, più si volvc e spuma e versa,
E M suo negro vapore a V aura esala.
Cosi Turno commosso a muover gli altri
Si volge incontanenle; e de’ suoi primi,
Altri al re manda con la rotta pace,
Ad altri l' apparecchio impon de l’arme,
Onde Italia difenda, onde i Troiani
Sian d* Italia cacciali, ed ei si vanta
Conira de’ Teucri e conira de’ Utini
Aver forse a bastanza E ciò commesso ,
E ne' suoi voli i suoi numi invocali,
I Rutuli infra loro o gara armando
S’esorlavan l’un l’altro, c lutti insieme
Eran traili da lui, chi per lui stesso
( Che giovio era amabile e gentile),
Chi per la nobiltà de’ suoi maggiori,
E chi per la virlutc,*c por le prove
Di lui viste altre volle in altre guerre.
Mentre cosi de’ suoi Turno dispone
Gli animi c l' armi, in altra parte Alletto
Scn vola a' Teucri, e con nuov’ arte apposto
In su la riva un loco, ove in campagna
Correndo e ’nsidiando il bello lulo
Scgula le te re fuggitive in caccia.
Qui di subita rabbia i cani accese
La virgo di Cocito, c per la traccia
Gli mise tutti; onde scoprire un cervo
Clic fu poi di tumulto, di rottura
Di guerra, e d’ ogni mal prima cagione.
Questo era un cervo mansueto e vago,
Già grande c di gran coma, che divelto
Da la sua madre, era nel gregge addotto
Di Tirro e de’ suoi figli: cd era Tirro
II custode maggior de* regii armenti
E de’ regii poderi; cd egli stesso
L* ave* nudrilo e fatto umile e manso.
Silvia, una giovinetta sua figliuola,
L’avea per suo trastullo; e con gran cura
Di fior l’inghirlandava, il pedinava,
Lo lavava sovente. Era a la mensa
A lor d‘ intorno; e da lor tulli amava
Esser pasciuto c vezzeggialo c tocco.
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lai
DELL' ENEIDE
IVrquc ulcruni sonitu porquo ilia rcnil arundo.
Saucius al quadrupcs nota inira ledo rettigli,
Succcssilquc gemens slabulis, quesluquc cruenlus
Alque imploranti similis ledimi omnc replcbal.
Silvia prima soror, palmis pcrcussa tacerlo*.
Amili uni locai, el duros conclamai agrcslcs.
Olii ( pesti* cnim tacili* laici aspcra silvia ),
1 m prò v ibi advunt: iiic torre armalus obuslo,
Slipilis bic gravidi nodis: quod cuique rcpcrlum
llimanli, lelum ira facil. Vocal agmina Tyrrhcus,
Quadrifidam qucrcum cuneis ut forte coaclis
Sciudebal, racla spirali* immane sccuri.
Al saeva e speculi* tempus dea nacla nocendi
Ardua leda pclil stabuli, d de culmine summo
Pastorale canil signnm, cornuque recurvo
Tartarcam intendi! voccm: qua proleuus omnc
Conlrcmuit nemus, et silvac insonuerc profundac.
Audiit et Triviac longe lacus; audiit amnis
Sulfurea Nar albus aqua, fonlesque Velini;
El Irepidac matres pressore ad pectora natos.
Tum vero ad vocem celcrcs, qua buccina sigmmi
Dira dedii, raplis concurruul undique lelis
Indomiti agricolae; ncc non et Troia pubes
Ascanio autilium caslria cITundil aperlis.
Direnerò acics. Non iam cerlaminc agresti,
Slipilibus duris agilur sudibusvc praeuslis;
Scd ferro ancipiti dcccmunt, atraque tale
Ilorrcseil striclis seges ensibus, aeraquc.rulgenl
Sole laeessila, et lucem sub nubila iaclant:
Fluclus uli primo cocpit quum albesccrc vento,
P.i liliali rn scse tollit mare, et altius undas
Erigil, inde imo consurgit ad aelhera fundo.
Ilio iuvenis primam ante aciein stridente sagilta,
Nalorum Tyrrliei fuerat qui mazimus, Almo
Stcrnitur; liacsit enim sub gulturo vulnus, et udae
Vocis iter tenuemque inclusil sanguine vilam;
Corpora multa virùm circa, seniorque Galaesus,
Dum paci medium se ofTerl: iustissimus uims
Qui fuil, Ausoniisquc olim dilissimus artis.
Quinquc greges illi balantum, quina redibant
Armenia, cl tcrram ccnlum verlebal aralris.
Errava per le selve a suo dilelto,
E da s è slcsso poi la sera a casa,
Come a proprio covil, se ne tornava.
Quel di per avventura di lontano
Lungo il fiume venia Ira Tonde c T ombre,
Da la sete schermendosi e dal caldo.
Quando d' Ascanio T arrabbiale cagno
Gli s' avventar», ed esso a farsi inteso
IT un tale onore e di tal preda acquisto,
Diede a l'arco di piglio, o saèllollo.
La Furia slessa gli drizzò la inaila,
E spinse il dardo si eli' a pieno il colse
Ne T un de' fianchi, e perni ragli a T epa,
Ecrilo, insanguinalo, c con lo strale
Il meschincllo nc le coste infisso,
Al cousuelo albergo entro a i presepi
Mugghiando o lamentando si ritrasse ;
Ch' un lamentarsi, un dimandar aila
D' uomo in guisa più tosi», che di fiera
Erano i mugghi, onde la casa empiea.
Silvia lo vide in prima, e col suo pianto,
Col batter de le mani, c con le strida
Mosse I villani a far turbe e tumulto.
Sta questa peste per le macchie ascosa,
Di topi in guisa, a razzolar la terra
In ogni tempo, sì clic d' ogni lato
N' usclron d‘ improvviso, altri con pali
E con forche c con bronchi aguzzi al fuoco :
Altri con mazze noderose c gravi,
E lutti con quell' armi eh' a ciascuno
Eecer T ira e la frolla. Era per sorte
Tirro in quel punlo ad una quercia intorno,
E per forza di cogni e di bipenne
L'aica tronca e squarciala : onde affannoso,
Di sudor pieno, fieramente ansando
Con la stessa eli' avea secure ili mano
Corse a le grida, u le masnade accolse.
I.' infornai dea, cli’a la vedetta slava
Di lutto clic seguia, veduto il tempo
Accomodato al suo pcnsicr malvagio,
Tosi» nel maggior colmo se nc salso
De la capanna, e con un corno a bocca
Sonò de T armi il pastorale accento.
Ea spaventosa voce che n‘ uscio
Dal Tartaro spiccossi. E pria le selve
Nc trcnulr tulle; indi di mano in mano
Di Nomo udilla e di Diana il lago,
l'dilla de la Nera il bianco fiume,
E di Velino i fonti, c lai l'udiro.
Che ne slriuser le madri i figli in seno.
A quella voce, c verso quella parie
Onde sentissi, I contadini armati.
Comunque ebber Ira via d' armi rincontro,
Subitamente insieme s' adunarti.
Da l' altro lato i giovani Troiani
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unno SETTIMO
1 *>.’»
Atque, ca per campos acquo dum Biade gerunlur,
Promissi dea facto polena, ubi sanguine bcllum
Imbuii, et primac commisil furierà pugnac,
Descrii Hcspcriam, cl coeli convccla per auras
lunoncm victrix alTalur foce superba:
En, perioda libi bello discordia tristi.
Die, io amicitiain coéant, et foedera iunganl,
Quandoquidem Ausonio respersi sanguine Teucros
Hoc eliam bis addam, Ina si milii certa voluntas;
Finitima* in bella fcram rumoribus urbes,
Acccndamquc nnimos insani Blarlis amore,
Undique ul ausilio feniani; spurgam arma per agros.
Tum conira luno: Tcrrorum cl Traudis abunde est.
Stani belli causac: pugualur commirius armis.
Quac fors prima dedii, sanguis novus imbuii orma.
Talia connubio cl lales cclcbrcnl hymenaeos
Egrcgium Vcneris gcnus et rr x ipso Latinus.
Te super aellierias errare licentius auras
liaud Pater die veli!, summi regnalor Olympi.
Cede locis. Ego, si qua super fortuna laborum est,
Ipsa regali). Tales dederal Saturnia voces.
lite autem altollit stri Icnles anguibus alas,
Cocytique petit sedem, supera ardua linqucos.
Est locus Italiae medio sub montibus allis,
Nobilis, et fama multis memoralus iu oris,
Amsancti vallcs; densis hunc frondibus atrum
Urge! utrimque latus neinoris, niedioque fragosus
Dal sonilum saxis et torlo vertice torrens.
Hic spccus borrendum, saevi spirucula Dilis,
Monstralur, ruptoque ingcns Acheronte vorago
Pcstifcras aperii fauccs: quia coudita Erinnys,
Al soccorso d* A scarno in campo uscirò,
Spiegar le schiere, misersi in battaglia,
Vennero a l’ armi; sì che non più zuffa
Sembrava di villani, c non più pali
Avean per anni, ma forbiti ferri
Serrati insieme, clic dal Sol percossi
Per le campagne e On sotto a le nubi
Ne mandavano i lampi. In quella guisa
Che lieve al primo vento il mar s’ increspa,
Poscia biancheggia, ondeggia c gonfia e frange
E cresce in tanto, clic da T imo fondo
Sorge Qno a le stelle. Alinone, il primo
Figlio di Tirro, primamente cadde
In questa pugna. Ebbe di strale un colpo
In su la strozza, clic la via col sangue
Gli chiuse e de la voce e de la vita.
Caddero intorno a lui moli' altri corpi
Di buona gente. Cadde tra' migliori,
Mentre T armi detesta, e per la pace
Or con questi or ron quelli si travaglia,
('■aleso il vecchio, il più giusto c'I più ricco
De la contrada. Cinque greggi avea
Con cinque armenti; c ron ben cenlo aratri
Coltivava c pascca l'Ausonia terra.
Mentre cosi ne* campi si combatte
Con egual Marte, Alletto già compila
La sua promessa, poiclf a l* armi, al sangue.
Ed a le stragi era la guerra addotta,
Uscì del Lazio, c baldanzosa a l’ aura
Levossi, ed a Giunon superba disse :
Eccoti l' arme e la discordia in campo,
E la guerra già rotto. Or di* eh* amici,
Di' che confederali, c che parenti
Si sicno ornai, poiché d'Ausonio sangue
Già sono i Teucri aspersi, lo, se più vuoi,
Più farò. Di rumori c di sospetti
Empierò questi popoli vicini ;
Condurrogli in aiuto; andrò per tulio
Destando amor di guerra; andrò spargendo
Per le campagne orror, furore ed armi.
Assai, Giulio rispose, bai di terrore
E di frode commesso : ha già la guerra
Le sue cagioni; hanno ( comunque in prima
La sorte le si regga ) ambe le parti
Le genti in campo, e Tarmi in roano; c Tarmi
Son già di sangue tinte, c *1 sangue è fresco.
Or queste spousalizic c queste nozze
Comincino a godersi il re Latiuo,
E questo di Ciprigna egregio figlio.
Tu, perchè non consente il Padre eterno
CIT in questa eterea luce e sopra terra
Così licenziosa le nc vada.
Torna a luoi chiostri; cd io, salirò in ciò resta
Da finir, finirò. Ciò disse appena
La figlia di Saturno, che d* Alletto
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1SG
DELL’ ENEIDE
1 misuri! uumen, lerras eoelumquc le\ abat.
Noe minus inlerca exlremam Saturnia bello
Imponi! regina manum. fluii omnis in urbem
Paslorum ex arie numerus, caesosque reportanl,
Almoncm pucrum, focdatique ora Galaesi;
Imploranlquc deos, obtcslanturquc Lalinum.
Turnus adusi, medioque in crimine caedis et igni
Tcrrorem ingeminai: Teucros in regna vocari;
Slirpcm admisceri Plirygiam; se limine pelli.
Tum, quorum allonitae Boccilo ncmnra avia malrcs
Insullanl Ihiasis, ( ncque cnim leve nomen Amotoc ),
bndique coliceli cocunt, Martemquc faliganl.
Ilicct infandum cuncti conira omina bcllum,
Conira fata definì, perverso numinc poseunl.
Cerlatim regis circumslanl (cela Lalini.
Ilio, vclul potagi rupes immola, rcsislit;
Ut pelagi rupes, magno veniente fragore,
Quae sese, mullis circum lalrantibus undis,
Mole (enei; scopuli nequidquam cl spumea circum
Saxa fremunt, luterique illisa refundilur alga.
Yerum, ubi nulla dalur caccum exsuperarc poleslas
Consilium, et saevae nutu lunonis eunl res:
Nulla deos ourasque paler tcstatus inancs,
Frangimur Iicu falis, inquii, ferirai) rque procella I
Ipsi ho s sacrilego pendelis sanguine pocnas,
0 miseri. Te, Turne, nefas, te triste manebit
Supplicium; volisque deos vencrabere seris.
Nani milti parta quies, omnisque in limine porlus;
Funere felici spolior. Nec plura locutus
Sepsil se tcctis, rerumque reliquil liabenas.
Fischiar le serpi, c dispiegarsi Cali
In vèr Cocito. È de I* Italia in mezzo
E de* suoi monti una famosa valle,
Clic d* Amsanto si dice. Ha quinci e quindi
Oscure selve, e tra le selve un fiume
Che per gran sassi rumoreggia c cade,
E si rode le ripe e le scoscende,
Che fa spelonca orribile c vorago,
Onde spira Acheronte, e Dite esala.
In questa buca l'odioso nume
De la crudele c spaventosa Erinne
Gillossi, c dismorbò l'aura di sopra.
Non però Giuno di condur la guerra
Iiimansi intanto. Ed ecco dal conflitto
Venir ne la città la rozza turba
De’ con ladini, e riportare i corpi
Del giovinetto Almonc e di Galeso,
Così com’ eran sanguinosi c sozzi.
Gli mostrano; ne gridano; n* implorano
Da gli dei, da Latino e da le genti
Testimonio, pietà, sdegno c vendetta.
Etri Turno presente, clic con essi
Tumultuando esclama, e'I fatto aggrava,
E detesta e rimprovera e spaventa.
Questi, questi, dicendo, son chiamati
A regnar ne I* Ausonia : a i Frigii, a i Frigii
Dà Latino il suo sangue c Turno esclude.
Sopravvengono intanto i furiosi,
Che, con le donne attonite scorrendo,
Gian con Amato per le selve in tresca ;
Chè grande era d* Amata in tutto il regno
La stima c T nome; e d’ ogni parte accolli
Tutti contra gli annunzi, contro i fati
L' armi chiedendo c la non giusta guerra,
Von di Latino a la magione intorno.
Egli di rupe in guisa immoto stassi.
Di rupe che, nel mar fonduta e salda,
Nè per venti si crolla, nè per onde
Che le fremano intorno, e gli suoi scogli
Son di *puma coverti e d' alga in vano.
Bla poiché superar non puole il cieco
Lor malvagio consiglio, c clic le cose
Givan di Turno e di Giunone a volo,
Molto pria con gli dei, con le van' aure
Si protestò; poscia, dal fato, disse,
Son vinto, e la tempesta mi trasporta.
Ma voi per questo sacrilegio vostro
Il fio ne pagherete E tu fra gli altri,
Turno, tu pria n’ avrai supplirio c morte;
E preci c voti a tempo ne farai,
Ch’ a tempo non saranno, lo, quanto a me,
Già de' miei giorni c della mia quiete
Son quasi in porlo: c da voi sol m'è tolto
Morir felicemente. E qui si tacque,
E ’l governo depose, c rilirossi.
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■j
LI BltO SETTIMO
131
Mos orai llcspcrio in Lalio, qucm prolenus url>rs
Albanac coluerc sacrimi, mine maiinia rcrum
Roma col il, quuni prima inovcnl in proelia Marlcm,
Site Gclis interré maini lacrimabile bollimi,
llvrcanisve Arabisve parati), scu tendere ad Indos,
Aurnramque sequi, l’arlliosquc reposcere signa.
Sunt geminai' belli porlae (sic nomine dicuul),
Ilclligione sacrac el soni formidine Martis:
Cenlum aerei claudunt vectcs, aeternaque ferri
Ruberà; lice cuslos absislil limine lanus.
Ras, ubi ccrla sedei palribus scnlcnlia pugnac,
Ipsc, Quirinali Irabea cincluquc Gabino
Insignis, reseral slridcnlia limina ronsul;
Ipse vocal pugnai; scquiuir lum celerà pubes;
Aereaque adsensu conspiranl cornua rauco.
Hoc el lum Aeneadis indicere bella Lnlinus
More iubebalur, Irislesquc recluderc portas.
Abslinuil laclu pater, aversusque refugil
Eoeda minisleria, el caecis se condidil umbris.
Tum regina dcùm coclo dclapsa moranles
Impubi ipsa maini porlas, el cardiuc terso
belli ferralos rupi! Saturnia posles.
Arde! inexcila Ausonia atquc immobilis ante.
Pars pedes ire parai campii, pars arduus altis
l’ulverulenlus equis furi): omnes arma rcquirunl.
Pars leves clipcos el spicula lucida Icrgnnl
Arvina pingui, subiguulquc in cole sccurcs;
Signaquc Terre iuta!, sonilusque audire lubarum.
Quinque adeo magnac posili., incudibus urbes
Tela novant, Alina polcns, Tiburquc superbum,
Ardea, Cruslumerique, el lurrigcrac Anlcmnac.
Tegmina tuta cavanl capitimi, flecluntquc salignas
Umbonum crates; alii thoracas acnos,
Aul leccs ocreas lento ducimi argento.
Vomcris bue et falcis honos, bue omnis aratri
Cessi! amor; recoquunt palrios fornacibns enses.
Classica iamque sonarli; il bello tessera signum.
Hic galeam leclis Irepidus rapii; illc frementes
Ad iuga cogit equos; clipeumquc, auroqnc triliccm
Loricati) induilur; lldoquc accingilur elise.
Era in Lazio un costume, che tenuto
È poi di mano in man di Lazio in Alba,
E d'Alba in Roma, ch'or del mondo è capo;
Clic nel motcr de Tarmi ai Ceti, a gl'indi,
A gli Arabi, a gl'lrcaoi, a qual sia gente
Ch'elle siati mosse, si com'ora a'Parti
Per ricoerar le mal perdute insegne,
S'apron le porle de la guerra in prima.
Queste son due, che per la riverenza.
Per la religione c per la tema
Del fiero Marie, orribili c Ircmcnde
Sono a le genti; c con ben cento sbarre
Di rovere, di ferro e di metallo
Slan sempre chiuse: c lor custode è Giano.
Ma quando per consiglio e per decreto
Dc'Padri si determina c s'approva
Che si guerreggi, il consolo egli stesso,
SI come è l'uso, in abito e con pompa
Cli* Ita da' Gabiui origine e da' regi.
Solennemente le disferra e l’apre:
Ed egli stesso al suoli de le catene
E de la rugginosa orrida soglia
La guerra intuona: guerra dopo lui
Grida la gioventù: gucrru c ballagli.’!
Suonali le trombe; ed è la guerra indilla.
In questa guisa era Latino astretto
D'aiiuuiizi’arlo a i Teucri; a lui questuilo
D'aprir le triste e spaventose porle
Si dnvea come a rege Ma '1 buon padre,
Sellilo di si nefando ministero.
S'astenne di toccarle, c gli occhi indietro
Volse per non vederle, e si nascose.
Ma per tórre ogni indugio, un'altra volta
E la stessa regiua de' celesti
Dal ciel discese, e di sua propria mano
Spinse, disganglierò, ruppe c sconfisse
De le sbarrale porle ogni ritegno,
SI clic l'apcrsc. Attor l'Ausonia mila,
Ch'era diami pacilìca c quieta.
S'accese in ogni parte. E qua pedoni,
Là cavalieri; a la campagna ognuno,
Ognuno a l'arme, a maneggiar destrieri,
A fornirsi di scudi, a provar elmi,
A far, chi con la cole, e chi con l'unto,
Ciascuno i ferri suoi lucidi c tersi.
Altri s'addeslra a sventolar Tinsegne,
Altri a spiegar le schiere, c con diletto
S’ode annitrir cavalli e sonar tube.
Cinque grosse città con mille incudi
A fabbricare, a risarcir si dànno
D'ogni sorte armi. La possente Alina,
Ardóa l'antica, Tivoli il superbo,
E Cruslumerio, e la lorrita Antenna,
Qui si vede cavar elmi c celale:
Là torcere c covrir larghe e pavesi;
Viiir.ii.io toc laico.
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ira
DELL' ENEIDE
Pandile nunc Helicona, deae, canlusque morde,
Qui bello cxciti reges, quac quemque scculae
Compiermi campos aeies: qulbus Siala iam lum
Floruerit terra alma riris, quibus arserit armis.
El meminislis enim, dirae, el memorare potesti;:
Ad nos ria Icnuis famae perlabitur aura.
Primus init bellum Tjrrltenis asper ab oris
Conlemtor divAm Mczentius, agminaquc armai.
Filius buie iuila Lausus, quo pulchrior alter
Non full, ezccplo Laurcntis torpore Turili.
Lausus, cquflm domilor dcbellalorquc ferarum,
Ducil Agi lima nequidquam et urbe sectilos
Mille virus; dignus, patriis qui laelior cssel
I mpcriis, el cui paler haud Mcientius ossei.
Post hos insignem palma per graniina currum
Vidoresquc ostentai equos, satus llcrcule pulchro,
Pulcbcr Avcnlinus; clipcoquc insigne paternum
Centura angues, cinclamquc gerii scrpcnlibns Hjdram;
Colbs A ventini sii r u quem Ittica saccrdos
Furtivum parlu sub luminis edidit oras,
Mista deo mulier, poslquam Laurcntia victor,
Cerjone eislmcto, Tiryntbius atligit arra,
Tyrrlienoque bove; in flumine lavi! Iberas.
Pila manu saevosque gerunt in bella dolones;
Et Icrcli pugnant mucrone veruque Sabello.
Ipsc pedes, toglimeli torquens immane leonis,
Terribili impesum seta, cura dentibus albis,
Indutus capili, sic regia teda subibat,
Ilorridus, licrculeoquc bumeros innesus amiclu.
Per tulio riforbire, aguzzar ferri.
Annestar maglie, rinlcraar coraitc;
F. per fregiar più nobili armature,
Tirar lame d'acciar, lila d'argento.
Ogni bosco fa lance, ogni fucina
Disfi vomeri e marre; e spiedi c spade
Si forman da I bidenti e da le falci.
Suonan le trombe, dassi il contrassegno,
Gridasi a Tarmi: c chi cavalli accoppia,
E dii prende elmo, e chi picca, e chi acudo.
Questi ha la piastra, o quei la maglia indosso,
E la sua fida spada ognuno a canto.
Or m'aprite Elicona, e di concedo
Meco il canto movele, alme Sorelle,
A dir qnai regi e quai genti c qual armi
Militassero allora, e di che forze,
E di quanto valore era in qncTempi
La milizia d'Italia. A voi convicnsi
Di raccontarlo, a cui conto e ricordo
De le cose e de’tcmpi è dato eterno:
A noi per tanti secoli rimase
N'è di picciola fama un'aura a pena.
Il primo, che le genti a questa guerra
Ponesse in campo, fu Mezenxio, il fiero
Del ciel dispregiatore c do gli dei.
D'Etruria era signore, e di Tirreni
Conducca molte squadre. Avca suo figlio
Lauso con esso, un giovine il pili bello,
Da Turno in fuori, clic l'Ausonia aresse.
Gran cavaliero, egregio cacciatore
j Fino allor si mostrava; c mille armali
Avca la schiera sua, che seco uscita
Fuor d'Agillina, ne Pesiglio ancora
Indarno lo scguia; degno clic fosse
Ne l'imperio del padre.
A questi dopo
; Segue Aventino, de l’invitto Alcide
Leggiadro figlio. Questi col suo carro
Di palme adorno, e co'vitloriosi
Suoi corridori in campo apprescntossi.
Avca nel suo cimiero c nel suo scudo,
In memoria del padre, un’idra cinta
Da cento serpi. D'Èrcole, e di Bea
Sacerdotessa ascosamente nato
Nel bosco d'Avenlino era costui;
Chè con la madre il poderoso iddio
Quivi si mescoli), quando d' Iberia,
Estinto Gerlonc, a i campi venne
Di Lafircnto, e nel Tirreno fiume
Lavò d'Ibero il conquistalo armento,
Eran di mazzafrusti, di spuntoni,
Di chiavarinc, c di Sabelli spiedi
Armale le sue schiere. Ed egli a piedi
D un cuoio di Icon velluto ed irto
Vcslia gli omeri c T dorso, c del suo ceffo,
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unito SEI TIMO
159
Tum gemini fruirci Tiburlia moenia linquunt,
Fratria Tiburli diclam cognomine gcnlcm,
Calillusque acerque Coras, Argiva iuvcnlus;
El primari] ante ncicm densa intcr tela fcrunlur,
Ccu duo nubigcnae quum vortice monlis ab alto
Dcscendunl Centauri, Uomolen Othrymque imalem
Liqucnles cursu rapido; dal cunlibus ingens
Silva locum, el magno ccdunt virgulta fragore.
fico Praencstinae fundator defuit urbis,
Vulcano genitura pecora intcr agrestia regem
Invontumque focis omnìs quein credidii aelas,
Caeculus. Uunc legio late cornilalur agrestis;
Quiquc alluni Pracncste viri, quique arva Gabinac
lunonis, gelidumque Aniencm et ro sci ri a riiis
Hcrnica saia colunt; quos, dives Anagnia, pascis, .
Quos, Amasene pater. Non illis omnibus arma
Nec clipei currusve sonanl. Pars maiima glandes
Liventis plumbi spargi!; pars spicula gestal
Bina manu, fulvosquc lupi de pelle galeros
Tegmen habenl capiti; vestigio nuda sinistri
Inslituere pedis; crudus tegil altera pero.
Al Messapus, cqufim domitor, Neptunia proles,
Quein ncque fas igni cuiquam nec sternere ferro,
lam pridem resides populos, desuetaque bello
Agmina, in arma vocal subito, ferrumque rclractat.
Hi Fescenninas acies Aequosquc Faliscos,
Hi Soractis habenl arccs Flaviniaquc arva,
Et Cimini cum monte lacum lueasque Capenos.
Ibant acquati numero, regemque canebanl,
Ceu quondam nivei liquida intcr nubila cjcni,
Quum sese e pastu referunt, el longa eanoros
Dant per colla modos: sonai amnis, et Asia longe
Pulsa palus.
Nec quisquam acralas acies ci agminc tanto
Misccri pulci; acriam sed gurgite ab allo
Urgeri volucrum raucarutn ad litora nubem.
Ecce, Sabinorum prisco de sanguine, magnum
Agmen agcns Clausus, magnique ipsc agminis instar,
Che quasi digrignando ignudi e bianchi
Mostrava i denti e Cuna e l’altra gota.
Si copria il capo. E con tal Dera mostra,
D'Ercolc in guisa, a corte si condusse.
Vennero appresso i due fratelli Argivi
Calillo e Cora, c di Tiburtc il terzo
Guidili le genti, che da lui nomate
Fur Tiburline. Da i lor colli entrambi
Calando avanti a l'ordinate schiere
Due Centauri sembravano a vedergli,
Che giù correndo da'nevosi gioghi
D'Omole e d’Olri, risonando fatisi
Dar la via da'virgulti e da le selve.
Cccolo, di Preneste il fondatore,
Comparve anch’egli: un re che da bambino
Fu tra l’agresli belve appo d’un foco
Trovato esposto; onde di foco nato
Si credè poscia, e di Vulcano figlio.
Avea costui di rustici d’intorno
Una gran compagnia, cb’eran de l’alta
Preneste de’ sassosi Eroici monti.
De la Cabina Giuno e d’Amcnc,
E d’Amascno e de la ricca Anagni
Abitanti e cultori: e come gli altri,
Non erano in su’carri, o d’aste armati,
0 di scudi coverti. Una gran parte
Eran frombolatori, c spargean ghiande
Di grave piombo, e parte avea due dardi
Ne la sinistra, e cappellétti In testa
D’orridi lupi: il manco piè discalzo,
Il destro o d’uosa o di corteccia involto.
Mcssapo venne poscia, dc'cavalli
Il domatore, c di Nettuno il figlio.
Contro al ferro fatalo c contro al foco.
Questi subitamente armando spinse
I.e genti sue per lunga pace imbelli.
Deviò dalle pozze i Fescennini,
Da le leggi i Falisci : armò Soralle,
Armò Flavinio, e tutti che d’ intorno
Ha di Cimini e la montagna e T lago,
E di Capena i boschi. Ivan del pari
In ordinanza, e del suo re cantando,
Come soglion talor da la pastura
Tornarsi in vèr le rivo al ciel sereno
1 bianchi cigni, c le distese gole
Disnodar gorgheggiando, e far di lutti
Tale una melodia, che di Caislro
Ne suona il fiume e d' Asia la palude.
Nè por un si movea di tanta schiera
Da la sua Dia, in ciò lo stuol sembrando
De' rochi augelli allor che di passaggio
Vien d’ alto mare, c come intera nube
A terra unitamente se ne cala.
Ecco di poi venir Clauso il Sabino,
Di quol vero Sabino antico sangue
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un
DELL' ENEIDE
Cloudia nunc a quo dilliindiliir el trilius el gens
Ter Lnlium, poslqunm in porlem data Roma Sabihis.
l’uà ingeos Alniterna cohors, priscique Qnirflrs,
Kreli manus omnis, olivifcraequc Mulusrae;
Qui Nomcnlum urlimi, qui Rosea rum Velini,
Qui Telricac borrente* rupcs, mnnlemquc Severum,
Casperiamque colimi, Forulosqne, ellliimeii Himellae;
Qui Tlijbrim Fabarimquc bibiinl, quos frigida misil
Mursia, cl Ilortinac classes, popiilique Latini,
Quosque secans inraiislum inlerltiil Allia nnmen:
Quain multi L'bjco volvunlur marmorc fluclus,
Sactus libi Orion hibernis condilur undis;
A el qiium sole novo densae lorrenlur arislae,
Aul Hemii campo, aul l.jeiae flavenlibus orvis.
Senio sonanl, pulsuque pedum Iremil excila lellus.
Bine Agamcmnunius, Troiani notniuis lioslis,
Curro iungil flalcsus equos, Turuoque feroces
Mille rapii populos, verlunt felicia Bacclio
Massica qui raslris, el quos de collibus allis
Aurunci misere palres, Sldlcinaqiie iutla
Acquora, quique Calca linquiinl, amnisque vadosi
Accola Yullurni, parilerque Salicuius asper,
Oscorumque manus. Tercles soni aelides illis
Tela; sed liaee lento mos esl aplnrc flabello,
lacvas caelra legit; falcati coinminus enses.
Nec tu earminibus noalris Indielus abibis,
Ocbaie, quem generasse Telon Sebelhide njmplio
F'ertur, Tcleboùm Capreas quum regna tonerei,
lam senior; palriis sed non cl lllius arvis
Conlcnlus, late iam lum dilione premebat
Sarrasles populos, et quae rigai aequora Sarnus,
Quique Rufras Balidumque tenoni alquo arca Ce-
lennae,
El quos maliferae despeclant moenia Abdlac:
Teutonico rilu solili lorquere calciasi
Tegmina quia capitnm raptus de subcre corlex,
Aeralacquc micant peltae, mical acreus ensis.
El le inonlusac misere in proclia Henne,
Oh' acca gran genie, e la sua genie lulla
Careggiava sol egli. Il nome suo
Fece Claudia nomare c la famiglia
E la tribù romana nllor che Roma
Ulnari a' Sabini in parie. Era con lui
I.» schiera d' Amitcrno c de’ Quiriti,
r>i quegli amichi. E rovi il popol ludo
I)’ Erelo, di Mulisca, di Nomenlo
E di Velino, c quel, che da l' alpestre
Tolrira, c da Severo, da Casperio,
Da Fornii e d' Imola eran venuti ;
Quei che bevean ilei labari e del Tebro ;
Che da la fredda Norcia cran mandati ;
Le squadre de gli Orlini, il Lazio tulio,
E tulli al fin, clic nel calarsi al mare
Bagna d* ambe le sponde Allia infelice.
Tanti Bulli non fo di Libia il golfo,
Quando cade Orlon ne F onde il verno ;
Nè lente spiche hanno dal sole aduste
La siale o d’ Ermo o de la Licia i campi,
Quante eran gemi; Arme sonare c scudi
S’udian per tulio, e lulla al suon de’ piedi
Trepidar si vedea l’ Ausonia terra.
Quindi ne vico l' Agamcnnonio auriga
Aleso, del Troian nome nemico ;
Che di mille feroci nazioni
In aita di Turno un gran miscuglio
Dietro al suo carro avoa di montanari.
Parie de’ pampinosi a Bacco amici
Massici colli, c parie de gli Aurunci,
De’ Sidicini liti, di Volturno,
Di Cale, de* Saliceli, c degli Osci."
Quesli per arme avean mazze c lanciotti
Irli di molte punte, c di soallo
Scudisci al braccio, onde erano I lor colpi,
Traendo e ritraendo, in molli modi
Continuali e doppi. E pur con essi
Arcano per ferire e per coprirsi
Targhe ne lo sinistra, e storie al Banco.
Nè tu senza il Ino nome a questa impresa,
Ebalo, te n’ andrai, del gran Telone
E de la bella Ninfa di Sebclo
Figlio onorato. Di costui si dice
Che, non contento del paterno regno,
Capri al vecchio lasciando c I Telebof,
Fé’ d'esterni paesi ampio conquisto,
E fu re de’ Serrasti e de le genti
Che Sarno irriga. Insignorissi appresso
Di Batulo, di Rulra, di Celenne
E de' campi fruttiferi d’ Avella.
Mezze picche avean questi a la tedesca
Per avventarle, e per celale in capo
Siivcri scortecciali, o di metallo
Brocchieri a la sinistra, c stocchi a lato.
Calò di Ncrsa c de' suoi monti alpestri
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MINIO SETTIMO
IGI
Ufens, insigncm fonia ol fclicibus armìs:
Ilorrida praccipue coi gens, ossuetaque milito
Venalu nemorum, duris Acquicola glcbis.
Annoti terroni exercont, semperque recenles
Comodare iu«ol prnedas, et vivere rapto.
Ouin et Marmila venit de gente sacerdos,
Fronde super galeam et Telici comtus oliva,
Archippi regia missu, foitissimus Umbro:
Vipereo generi et gravitcr spirontibus hydris
Spargere qui somnos cantuquc manuque solcbat,
Mulccbatque iras, et morsus arte levabat.
Sed non Dardaniae medicari cu-pidis ictum
Evoluii: neque eum Iuvcre in vulnera cantus
Somniferi, et Marsis quaesitoe monlibus herbac.
Te nemus Anguiliac, vitrea te Fucinus unda,
Te liquidi flererc lacus.
Ibat et Ilippolyli proics pulclierrima bello,
Virbius, insigncm quem moter Arieia misi!,
Eductum Egeriae lucis, liumenlia circum
Lilora, pinguis ubi et plaeabilis ara Dlanac.
Namque ferunt fama Uippolylum, poslquam arte no-
vereae
Occiderit, patriasque explerit sanguine poenas
Turbatis distraeliis eqtiis, ad sidera rursus
Aelheria et superas coeli venisse sub auras,
Paeoniis rcvocatum herbis et amore Dianae.
Tum pater omnipotens, aliqnem indlgnatus ab umbris
Mortolcm infernis ad lumina surgere vilae,
Ipse repcrlorem mcdicinac lalis et arili
Fulmine Pboebigenam Stygias delrusil ad undos.
Al Trivio Ilippoljtum secretis alma recondii
Sedibua, et nympliae Egeriae nemorique relegai:
Solus ubi In silvis I lalis ignobilis aevum
Kxigcret, versoquo ubi nomine Virbius esset.
L'nde eliam tempio Triviac lucisque sacralìs
Cornipede* arcentur equi; quod litoro currom
P’t iuvenem monslris pavidi rflìiderc marinis.
Filius ardcnlcs haud seeius oequorc campi
Esercebal cquos, curruque in bella ruebal.
Ipsc iulcr primos praeslanti cor|iorc Turnus
Ufente, un condoltier cip era in quei tempi
Di molta fama e fortunato in armo.
Equicoli avea seco la più parie,
Orrida genie, per le selve avvezza
Cacciar le fere, adoperar la marra,
Arar con P armi indosso, e (ulti insieme
Viver di cacciagioni e di rapino.
De la gente Marrubia un sacerdote
Venne fra gli altri; sacerdote insieme
E capitan di genti ardilo e Torte.
Umbrone era il suo nome; Arch’ppo, il rege
Che lo mandava. Di felice olivo
Avea il cimiero c T elmo intorno avvolto.
Era gran ciurmatore, c con gl' incanti
E col tallo ogni serpe addormentava :
De gl' idri, de le vipere e de gii aspi
Placava l'ira, raddolciva il tòsco
E risanava i morsi. E non per tanto
Potè nè con incanti, nè con erbe
De’ Alarsi monti risanare il colpo
De la Dardania spada : onde il meschino
Nc fu da le foreste de l’Anguizia,
Dal cristallino Fucino e da gli altri
(.aghi d'intorno desialo c pianto.
Mandò la madre Arieia a questa guerra
Virbio, del casto Ippolito un figliuolo
Gentile e bello : c da le selve il trasse
D' Egeria, ove d' Imeto in su la riva
Più colla e più placabile è Diana;
Che per fama d' Ippolito si dice.
Poscia clic fu per froda c per disdegno
De l’ iniqua madrigna al padre in ira,
E che gli spaventati suoi cavalli
Strazio e scempio ne fòro, egli di nuovo,
Per virtù d’erbe c per pietà clic n' ebbe
La casta dea, fu rivocato in vita.
Sdegnossi il Padre eterno eh' un mortale
Fosse a morte ritolto; e l’ inventore
Di colai arte, clic d* Apollo nacque.
Fulminando mandò ne’ regni bui.
Ippolito da Trivia in parte occulta,
Scevro da lutti, a cura fu mandato
rp Egeria Ninfa, e ne la selva ascoso,
Uà ’vc solingo, e col cangialo nome
Di Virbio, sconosciuto i giorni mena
D’ un’altra vita. E quinci è clic dal tempio
E da le selve a Trivia consecratc
I cavalli lian divieto; che lor colpa,
Fu'l suo carro c’1 suo corpo al marin moslro,
E poscia a morte indegnamente esposto.
II Aglio, clic pur Virbio era nomalo,
Non mcn di lui feroce, i suoi destrieri
Esercitava, e ’n su 'I paterno carro
Arditamente a questa guerra uscio.
Turno infra i primi, di persona c d' ormi
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Idi
DELL' ENEIDE
Vcrlilur armo Icnens, el telo vertice supra col:
Cui triplici crinita iuba galea alta Cliiinacrani
Suslincl, Aelnacos efllanlcm Taucibus igneo;
Tarn magio illa Trameno, et trìolibuo elTcra Dominio,
Quarn magio effuso cruiicscunl sanguine pugnac.
At levem clipeum sublatis cornibuo lo
Auro insignibat, inni sclio obsila, iato boo,
Argumenlum ingens, et custoo virginia Argus,
Caclalaquc amnem fumlcns poter Inachus urna.
Insequitur nimbus pedilum, rlipealaque (olio
Agmina densanlur compio, Argivoque pubes,
Auruncaeque manus, Rubili veteresque Sicani,
Et Sacranae acieo, et picti acuta Labici:
Qui saltus, Tiberine, tuoo, sacrumque Numici
Lituo arant, Rutulosquc cierccnt vomere colina,
Circacumquc iugum; quia iupiter Aniurus arvio
Praesidel, el viridi gaudens Fcronia luco;
Qua Saturac iacet atra palus, gelidusque per imts
Quaerit iter valico alque in mare condilur Ufcns.
Ibis super advenit Volsca de gente Camilla,
Agmen agens cquilum et Domite* aere coleri as,
Bellatriv: non illa colo calalliisve Millenne
Femincas assueta manus, sed proelio virgo
Dura pati, cursuquc pedoni pracverlerc ventos.
Illa vel inlactae segelis per summa volarci
Grainina, ncc tcneras cursu laesisset aristas;
Vcl mare per medium, Duclu suspense tumenli,
Ferrei iter, ccleres nec linguerei aequore planlas.
Illam omnis leclio.agrisque effusa iuvenlus
Tnrbaque miralur malrum, et prospcclal euntem,
Attonilis Inhians animis: ut regius ostro
Vclel honos leves humcros, ut fibula erinem
Auro inlernectat; I.jciam ut goral ipsa pliarelram,
El pastoralcm praefìia cuspide myrlurn.
Riguardevole e fiero, e sopra tuli
Con tuli' il capo, in campo apprcsentossi.
Un elmo avea con Ire cimieri in testa,
E suvvi una Chimera, che con tante
Rocche foco anelava, quante appena
Non apria Mongihello; c con più Tremilo
Sparge* le Damme, come più crudele
Era la zuffa, c più di sangue avea.
Lo scudo era d' acciaio c d' oro intorno
Tutto commesso, c d' òr nel mezzo un' Io
Era scolpila, che già 'I manto c T ceffo,
Le setole c le corna avea di bue;
Mcmorabil soggetto 1 Erari appresso
Argo che la guardava; cravi il padre
Inaco, clic, chiamandola, veisava,
Non mrn de gli occehi, che de l’urna, un Ou-
Dopo Turno venia di Tanti un nembo, [me.
Un'ordinanza, una campagna piena
Tutta di scudi. Erari le genti sue
Argivi, Aurunci, Rullili, Sicani
E Sacrani c Labici, che dipinti
Portan gli scudi. Avea del Tiberino,
Arca del sacro lilo di Numico
E dc'Rululi colli c del Circeo,
D'Ansure a Giove sacro, di Fcronia
Diletta a Giulio, de la paludosa
Satura, e del gelalo e scemo UTenle
Gran turba o di villani c d'aralori.
L'ultima a la rassegna vieu Camilla
Ch'era di Volsca gente una donzella,
Non di conocchia o di ricami esperta,
Ma darmi e di cavalli, e benché virgo.
Di cavalieri e di caterve armate
Gran condollicra, e ne le guerre avvezza.
Era Sera in battaglia, e lieve al corso
Tanto, che, quasi un vento sopra l’erha
Correndo, non avrebbe anco de’flori
Tocco, nò de l'arislc il sommo appena.
Non avrebbe per Fonde e per gli fluiti
Del gonfio mar, non che le piante immerse ,
Ma uè pur tinte. Per veder costei
Usciali dai leni, empiean le strade c i campi
Le genti tulle; e i giovani e le donne
Slavan con meraviglia c con diletto
Mirando e vagheggiando quale andava,
E qual sembrava; come regiamente
D'ostro ornato avea 'I tergo, e 'I capo d'oro ;
E con che disprezzata leggiadria
Portava tin pasloral nodoso mirto
Con picciol Terrò in punta ; e con che grazia
Se ne già d'arco c di Tarelra armala.
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LIBRO OTTAVO
Ul belli signiim Laurcnti Turnus ab arce
Extulil, et rauco strepuerunt cornila canlu;
Ulque aerea concussi! equos; ulque impulit arma:
Kilcniplo turbali animi; simui omne lumullu
Coniural trepido Lalium, sacvilque iuienlus
Edera. Ouctores primi, Messapus el Ufens,
Conlcmlorque deùm Mezcntius, undique cogunt
Auiilia, et lalos «asiani culloribus agros.
Mitlilur el magni Venulus Diomedis ad urbem.
Qui pelai auzilium, et, Latio consistere Teucros,
Advcclum Aeuean classi, viclosquc Penales
Inferri', et fatis regem se diccrc posci,
Edoccat, mullasque «irò se adiungere genles
Dardanio, et late Latio increbrcscere nomen.
Quid stmal bis coeptis, quem, si Fortuna sequalur,
Evcntum pugnae cupial, manifestius ipsi,
Quam Turno regi, aut regi apparcre Lalino.
Talia per Lalium; quac Laomedontius heros
Cuncta «idens, magno curarum fluctuat aestu;
Atque animum nunc huc celerem, nunc dividi! illue,
In partesque rapii «arias, perque omnia versai:
Sicut aquac tremulum labris ubi lumen aènis
Sole rcpercussum, aut radiantis imaginc Lunae,
Omnia pervolilat late loca, iamque sub auras
Erigitur, summique ferii laquearia (ceti.
Noi crai, et terros animella fessa per omnes
Poscia che di Laurento in su la rócca
Fc 'Turno inalberar di guerra il segno,
E che guerra sonàr lo roche trombe,
Spinti i carri e i destrieri, e Tarmi scosse
Di Marte ai tempio, incontanente i cuori
Si turblr lutti, e tutto il Lazio insieme
Con subito tumulto si restrinse.
Fremessi, congiurossi, rassellossi
Ognun ne Tarme. I tre gran condottieri
Messapo, Utente, e Tempio de’celesli
Dispregialor Mezenzio, uscirò in prima.
Accolsero i sussidii; armar gli agresti;
Spogliar d'agricoltor le ville e i campi.
In Arpi a Diomede si destina
Venuto imbasciadorc: e gli s'impone
Clic soccorso gli chiegga, c clic gli esponga
Quanto ciò de l’Italia c del suo stato
Torni a grand'uopo; con che gente Enea,
Con quale armata v'ha già posto il piede,
E fermo il seggio, c rintcgralo il cullo
A i suoi vinti Penali, come aspira
A questo regno, e corno anco per fato,
E per retaggio del Dardanio seme.
Io si promette. Che perciò da molli
È già seguilo, e ch'ogni giorno avanza,
E di forze e di nome. Indi soggiunga :
Quel clic 'I duce de' Teucri in ciò disegni
E che miri c che lenii ( se fortuna
Gli va seconda ) a te vie più eh' a Turno
Esser può manifesto, e ch'a Latino.
Questi andamenti e queste trame allora
Corrcan per Lazio e lo scaltrito eroe
Le sapea tutte, onde in un mare entralo
Di gran pensieri, or la sua mente a questo ,
Or a quel rivolgendo in varie parti,
D'ogni cosa avea tema e speme e cura.
Cosi di chiaro umor pieno un gran vaso
Dal sol percosso un tremolo splendore
Vibra ondeggiando, e rifrangendo a volo
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m
DELL* ENEIDE
Aliluum pecudumquc gcnus sopor allus habcbal:
Quum pater in ripa gclidique sub actbcris ave
Aencas, tristi lurbatus peclora beilo,
Procubuil, seramque dedit per membra quictcm.
Kluic deus ipsc loci fluvio Tibcrinus atuueno
Populcas inter senior se altollcrc fiondes
Visus; cum lenuis glauco velabai amictu
Carbasus, et crines umbrosa legebal arundo;
Tum sic affari, et curas bis demcrc diclis:
0 sale genie deùm, Troianam ci boslibus urbeni
Qui revelns imbis, aeternaquc Pergama sems,
Rispettale solo Laurcnti arvisque Lalinis,
Hic libi cerla domus, ccrli, ne absisle, Peoalcs,
Mcu belli lerrcrc mini*. Tumor oranis el irae
Concessore deùm.
lamquc libi, nc vana pules bacc fingere somnum,
Liloreis ingens inventa sub ilicibus sus,
Triginla capilum fetus cnixa, iacebil,
Alba, solo rccubans, albi circum ubera nati.
Ilio Incus urbis ei ir, requics ca certa iuborum:
Ex quo ler deuis urbem rcdcunlibus annis
Ascanius clari condcl cognominis Album,
llaud incerta enno. Nunc qua raliouc, quod instai,
Expcdias viclor, paucis, ad ve rie, docebo.
Arcades bis oris, gcnus a l’aliante profeclum,
Qui regem Evandrum comi ics, qui sigila scculi,
Delcgcre locum, el posucre in monubus urbem,
Pallanlis proavi de nomine Pallanleum.
Ili bcllum assidue ducunl cum genie Latina;
Hos castris adiiibc socio*, et foedera iunge.
ìpse ego le ripis et recto flùmine ducam,
Advcrsum remi* supcres subvcctus ut omnem.
Surge ago, nate dea; primisque cadentibus aslris
lunotti Ter rite preces, iramque minasque
Supplicibus supera volis. Mibi victor honorem
Persolves. Ego sum, pieno quem fiuminc cernis
Slringentcm ripas, ci piuguia culla secantem,
Cocruleu* Tliybris, coelo gralissimus amili*.
Hic milti magna domus, cclsis caput urbibus, exit.
Manda i suoi raggi, c le pareli e palchi
E l'auro d'ogni intorno empie di luce.
Era la nollc, c giù per ogni parie
Del mondo ogni animai d'aria c di terra
Altamente giucca nel sonno immerso,
Allor ch’il padre Enea, cosi com'era
Dal pensier de la guerra in ripa al Tcbro
Già stanco c travaglialo, addnrinentossi.
Ed ecco Tiberino, il dio del loco
Veder gli parve, un che giù vecchio ol volto
Sembrava. Area di pioppo ombra d'intorno ;
Di solili velo e trasparente in dosso
Ceruleo ammanto, e i crini c *1 fronte avvolto
D'ombrosa canna. E de l'ameno fiume
Placido uscendo, a consolar lo prese
In colai guisa.
Enea, stirpe divina,
('he Troia da'nemioi ne riporli
E ia ravvivi c la conservi eterna;
0 da me, da' Laurcnti c da' Latini
Già tanto tempo a tanta speme atteso,
Questa è la casa tua, questo è secca-
mente, non t'arrestare, il fatai seggio
Clic t'è promesso. Le minacce u’i grido
Non temer de la guerra. Ogni odio, ogn’irn
Ccssàr giù de* celesti. E perchè *1 sonno
Credenza non ti scemi, ecco a la riva
Sci già dei fiume, u'sotto a felce accolta
Sta la candida troia con quei trenta
Candidi figli a le sue poppe intorno.
Questo fia dunque il seguo c'1 tempo e *1 loco
Da fermar la tua sede. E questo è 'I fine
De’luoi travagli; onde il tuo figlio Ascanio,
Dopo ircnl’anni, il memorabil regno
Fonderà d'Alba, che cosi nomata
Fia dal candore e dal felice incontro
Di questa fera. E tutto adempiessi,
Ch'io li predico, e t'è predetto avanti.
Or brevemente quel ch’oprar convienli,
Per uscir glorioso e vincitore
Di questa guerra, ascoila. È di qui tunge
Non mollo Evandro, un re clic do l’Arcadia
E qua venuto; c sopra a questi inolili
Ha de gli Arcadi suoi localo il seggio,
Il loco, da Pullanle suo bisavo,
È sialo Pallantèo da lui nomalo;
Ed essi, perchè son nel Lazio esterni ,
Son nemici a’ Latini, ed han con loro
Perpetua guerra. A le fa di mestiere
Con lor confederarli, e per compagni
A questa impresa avergli. Io fra le ripe
Mie stesse incontro a l'acqua a ia magione
D'Ev andrò agevolmente condurrolli.
Destali, de la dea pregialo figlio;
E come pria cader vedrai le stelle,
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LIBRO OTTAVO
1«5
Divii, de inde lacu fluvius se condidit allo,
Ima pelens. Nox Aencan somnusque reliquit.
Surgil, cl, aetherii spectans orienlia Solis
Lumina, ritc cavis undain de (lumiuc palmi*
Suslinet, ac lales cfTundil ad aelhcra voce»:
Nymphac Laurcntes, Nymphae, gcnus amnibus unde
est,
Tuque, o Thybri iuo genitor cum fluminc sanilo,
Accipite Acuenti, el tandem arcete perieli*.
Quo le cunque lacus, miserantem incommoda nostra,
Fonie (enei, quocunquc solo puldierrimus czis;
Scmpcr honore meo, sempcr celebrabere donis,
Corniger Uespcridum fluvius regnalor aquarum:
Adsis o lanlum, el propius (ua numina flrmes !
Sic memorai, geminasque Icgil de classe biremes,
Rcmigioque aplal; socios simul instruil arinis.
Ecce autem, subilum alque oculis mirabile mon-
slrum,
Candida per silvam cum fclu concolor albo
Procubuit, viridique in lilorc conspicilur sus:
Quam pius Aeneas libi enim, tibi, maxima luno,
Mactat, sacra fercns, et cura grege sislil ad aram.
Tliybris ca fluvium, quam lunga csl, noclc (umenlcm
Leniil; cl tacila refluens ila subslilil unda,
Milis ul in morem stagni placida eque paludis
Stornerei acquor aqms, renio ul luclamen abesscl.
Ergo iter inceptum celeranl rumore secundo.
Lubilur uncla vadis abìcs; miraulur et undae,
Miralur nemus insuelum fulgenlia longe
Scula virùm fluvio piclasque innare carina».
Olii remigio noelemque dicmque faliganl,
Et longos superarli flexus, variisque tcgunlur
Arboribus, viridesque secanl placido acquore silvas.
Sol medium coeli conscendcral igneus orbcm,
Quuin muros arceraque procul ac rara domorum
Tecla vident, quac nunc Romana polentia coelo
Acquavi!; tura res inopes Evandrus habcbal.
Ocius advertunt proras, urbique propinquant.
Virgilio vol. ciuco
Porgi solennemente a la gran Grano
Preghiere e voli; e supplicando vinci
De rinimica dea l'ira c l'orgoglio;
Ed a me, poi clic vincilor sarai.
Paga il dovuto onore. Io sono il Tcbro
Cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso
Rado queste mie rive, e fendo i campi
De la fertile Ausonia, al cicl amico
Sovr'ogni fiume. Quel ciie qui m* è dato
È 'I mio seggio maggiore; e Ila che poscia
Sovr’ogni altra ciliade il capo estolla.
Cosi disse, c influssi. Enea dal sonno
Si scosse; il giorno aprissi, ed ci col sole
Sorgendo insieme, al suo nascente raggio
Si volse umile; e con le cave palme
De l'onda si spruzzò del fiume, e disse:
Ninfe l.aurenli, Ninfe, ond'hanno i fiumi
L’umore e *1 corso; c lu con Tonde tue,
Padre Tebro sacrato, al vostro Enea
Date ricetto, e da’perigli ornai
Lo liberale. Ed io da qual sia fonte,
Che sgorghi, in qual sia riva, in qual sia foce
(Poiché tanta di tnc pietà ti siringe)
Sempre t’onorerò, sempre di doni
Ti sarò largo. 0 de TEspcrld’ onde
Superbo regnatore, amico c mite
Ne sia il tuo nume, e i tuoi delti non vani.
Così dicendo, desuoi legni elegge
I due migliori, e gli correda c gli arma
Di tulio punto.
Ed ecco d’improvviso
(Mirabil mostro!) de la selva uscita
Una candida scrofa, col suo parlo
Di candor pari, sopra l’erba verde
Ne la riva accosciata gli si mostra.
Tosto il pietoso eroe col gregge lutto
A fallar la condusse; c poiché sacra
L'cbbe al gran nume Iuo, massima Giuno,
A le l'uccise. Il Tcbro, quella notte
Quanto fu lunga, di turbato e gonfio
Ch’egli era, si rendè tranquillo c quoto
M, che senza rumore c quasi in d e Irò
Tornando, come stagno, o come piana
Palude adeguò Tonde, e tolse a’reinì
Ogni contesa. Accelerando adunque
II cammin preso, i ben unti c spalmali
Lor legni se ne vanno incontro al fiume
Confa seconda; si che l’onde stesse
Stavan maravigliose, c ì boschi intorno,
Non soliti a veder Tarmi e gii scudi,
E i dipinti navili, clic da lungc
Facean novella e peregrina mostra.
Se ne vun notte e giorno remigando
Di tutta forza, c i seni c le rivolte
Varcan di mano in mano, ora a l'aperto,
22
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deli: exi'.iui:
ics
Forte die solemnem ilio rei Arcas honorem
A m pi i i t ry orli a (la e magno divisque frrebat
Ante urbcm in iuco. Pallai buie filius una,
Ina omnes iuvenum primi, pauperquo senatus,
Tura dabant, lepidusque cruor fu ma bai ad aras.
Ut cclsas ridere ratea, alque inter opacum
Allabi nemus, et lacilis incumbcrc remia:
Terrcntur visu subito, cuncliquc reliclis
Consurgunl mensia. Audai quos rompere Palina
Sacra retai, raptoque volai telo obvius ipsc;
Et procul e tumulo: luvoncs, quac caussa subegit
Ignolas tentare vias ? quo tendili» ? inquit.
Qui gcuus ? unite domo ? pacemnc bue ferlis, in arma?
Tum pater Aencas puppi sic fatur ab alla,
Pacifcracquc inanu ramum praclendit olitaci
Troiugenas ac tela vides inimica Latinia;
Quos illi bello profu gos egerc superbo.
Evondrum pelimus. Ferie haec et dieite, Icctos
DardanUc venisse duccs, socia arma rogantes.
Obslupuit tanto percussus nomine Pallas:
Egrcdcrc o, quicunquc es, ail, coramque parenlcm
Alloquere, ac nostris succede Pcnalibus hospes !
F.iccpilque manu, deilramque ampleius inbaesit.
Progressi subcunt luco, fluviumque rclinquunl.
Tum regem Aencas dictis affatur amicis:
Optimc Graiugenóm, cui me Fortuna precari,
Et villa comlos voluit propendere ramosi
Non equidem citimui, Danaòm quod ductor, et Arcas,
Quodque ab stirpe forcs gemini! coniunctus Alridis;
Sed mea me rirlus, et sancla oracula divani,
Cognatique patres, tua terris didita fama,
Coniunvcrc libi, et falis egere volcntem.
Dardanus, Iliacae primus pater urbis et auctor,
El cetra, ut Graiì perbibent, Atlantide crctus,
Advehitur Tcucros; Electram maiimus Alias
Or Ira le macchie occulti, e via volando
Segan fonde e le selve. Era il Sol giunto
A mesto il giorno, quando incominciaro
Da lungc a discovrir la ròcca e 'I cerchio,
E i rari allor del poverello Evandro
Umili alberghi, ch'ora al ciclo adegua
La Romana polenta. Immantinente
Volser le prore a terra, ed appressimi
Là 've per avventura il re quel giorno
Solennemente in un sacralo bosco
Avanti a la città slava onorando
Il grande Alcide. Area Fallante seco
Suo figlio, e del suo povero senato,
E dc'suoi primi giovani un drappello,
Clic d'incensi, di vittime e di fumo
Di caldo sangue empican fare e gli altari.
Tuslo che di lontan rider le gagge,
E per entro de'boschi occulte e elicle
Gir nati esterne, insospettiti in prima
Si levàr da le mense. Ma Pallente
Arditamente, non movete, disse,
Seguile il sacriOcio. E tosto a farmi
Dato di piglio, incontro a lor si spinse.
Giunto, gridò da l’ argine : 0 compagni,
Qual lin v'adduce, oqual v'intrica errore
Per cosi torta e disusala via ?
Ov' andate ? Chi siete ? onde venite ?
Che ne recate voi ? La pace, o F armi?
Enea di su la poppa un ramo alzando
Di pacifica oliva, Amici, disse,
Vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini
Vostri nemici inimicizia avemo.
Questi superbamente il nostro csiglio
Perseguitando ne fan guerra ed onta.
Ricorremo ad Evandro. A lui porgete
Da nostra parte, che de' Teucri alcuni
Son qui venuti condottieri eletti
Per sussidii impetrarne, e lega d'arme.
Stupì primieramente a si gran nome
Pollante, indi vèr lui rivolto umile.
Signor, qual che tu sii, scendi, e tu stesso
Parla, disse, al mio padre, e nosco alloggia.
E lo prese per mano, ed abbracciollo.
Lasciato il fiume e ne la selva entrati.
Enea dinanzi al re comparve, e disse :
Signor, che di bontà sovr' ogni Greco,
E di fortuna sovr' a me ten vai
Tanto, che supplichevole, e co' rami
Di benda avvolti a tua magion ne vengo :
Io, perchè sia Troiano, e tu di Troia
Per nazion nimico e per Icgnaggio
A gli Alridi congiunto, or non pavento
Venirti avanti, chè’l mio puro affetto,
Gli oracoli divini, il saugue antico
De' maggior nostri, il tuo famoso grido,
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UDRÒ OTTAVO
167
Edidil, aelherios Rumerò qui suslinct orbes.
Vobis Mcrcurius pater est, qucm candida Maia
Cyllenae gelido conccplutn vertice fudit;
Al Maiam, aoditis si quidquam credimus, Alias,
Idem Alias generai, coeli qui sidera lollil.
Sic genus amborum scindi! se sanguine ab uno.
His frelus, non legatos, neque prima per arlem
Tentamenta lui pepigi: me, me ipse, meumquc
Obicci caput, et supplcx ad limino veni.
Gens cadcm, quae le, crudeli Daunia bello
Inscquilur; nos si pellant, nihil afore credunt,
Quin omnem Hesperiam penitus sna sub iuga mittanl,
Et mare, quod supra, Icneant, quodque alluit infra.
Accipe, daque Odcm. Sunt nobis fortia bello
Pectora, sunt animi, et rebus spedata iuvcntus.
Dixerat Aencas. Die os oculosquc loqucntis
lamdudum, et lotum lustrabat lumine corpus.
Tum sic paura refert: Ut te, fortissime Tcucrùm,
Accipio agnoscoquc libens I ut verba parcntis
Et vocem Ancliisae magni vultumque recordor !
Nam memini Hesionae viscnlem regna sororis
Laomedontiadem Priamum, Salamina pctentem,
Proteo us Arcadiac gelidos invisere flnes.
Tum mihi prima genas vestibat flore iuventa;
Mirabarquc duces Teucros, mlrabar et ipsum
Laomedontiadem; sed cunctis altior ibat
Anchises. Mihi mens iuvcnali ardcbal amore
Compctlare virum, et dextrae coniungcre deitram.
Accessi, et cupidus Phcnei sub mocnia duri.
Ille mihi insignem pharclram Lyciasque sagiltas
Discedens chlamydemque auro dedit inlerteitam,
Frenaquc bina, meus quae nunc Label, aurea, Pallas.
Ergo et, quam pelitis, iuncla est mihi focdcrc delira,
El, lux quum primum terris se crasiina reddet,
Ausilio laetos dimiltam, opibusque iuvabo.
Intcrca sacra hacc, quando huc venislis amici,
Annua, quae diflcrre nefa«, celebrale favcnles
Nobiscum, et iam nunc sociorum adsucscilc mensis.
E T Falò c T mio voler m' bau leco unito.
Hardano de' Troiani il primo autore
Nacque d' Elettra, come i Greci han detto ;
E d' Elettra fu padre il grande Atlante
Che con gli omeri suoi folce le stelle.
Vostro progenltor Mercurio fuc.
Che nel gelido monte di Cillcne
De la candida Maia al mondo nacquo ;
E Maia ancor, se questa fama è vera,
Venne d’ Atlante, e da lo stesso Atlante
Che fa con le sue spalle al elei sostegno.
Così d' un fonte lo tuo sangue c T mio
Traggon principio. E quinci è che sccuro
Senza opra di messaggi e senza scrìtti.
Pria ch'io ti lenti, e pria che tu m’ affidi,
Posto ho me stesso e la mia vita a rischio,
E supplichevolmente a la tua casa
Ne son venuto. I Ruttili eli' iufcsli
Sono anco a te, se de T Italia fuori
Cacceran noi, gii de l' Italia tutta
L' imperio si promettono, e di quanto
Bagna T un mare c l' altro. Or la tua fede
Mi porgi, c la mia prendi ; di' ancor noi
Siamo usi a guerra, e cor no' pelli avemo.
Il re, mentre eh' Enea parlando stette.
Il volto e gli occhi e la persona tutta
Gli andò squadrando ; c brevemente al One
Cosi rispose : Valoroso eroe,
Come lieto f accolgo, c corno certo
Raffigurar mi sembra il volto c i gesti
E la favella di quel grande Anrìiise
Tuo genitore I Io mi ricordo quando
Prima per riveder la sua sorella
Estone c 'I suo regno, in un passaggio
Che perciò fé' da Troia a Salamina,
Toccò d’ Arcadia i gelidi contini.
Ile le prime lanugini fiorito
Era il mio mento a pena atlor eh’ io vidi
Quei gran duci di Troia, e de' Troiani
Lo stesso re. Con molto mio diletto
Gli mirai, gli ammirai, notai di tutti
Gli abiti e le fattezze, c sopra tutti
Leggiadro, riguardevole ed altero
Sembrontmi Ancbisc. Un desiderio ardente
Mi prese allor d’ olTrirmi, c d’ esser conto
A quel signore. Il visitai, gli porsi
La destra, ospite il fcl, nel mio Fcnco
Meco l’addussi. Ond’ci poscia partendo,
Un arco, una faretra c molti strali
Di Licia prcsenlommi, e d’ oro appresso
Una ricca intcssuta sopravvesta
Con due freni indorati, eli’ ancor oggi
Son di Pallanle mio : si che già ferma
È tra noi quella fede c quella lega
Ch’ or ne chiedete. E non Ila il Sol dimane
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16 »
DELL,' ENEIDE
Ilacc ubi dieta, dapes iubel et sublala reponi
Pocula, gramineoque viros locai ipse sedili;
Praccipuumque toro el \ illusi pollo lennis
Accipil Aenean, svlioqtic imitai acerno.
Tum ledi iuvencs ccrlalim aracquc saccrdos
Viscera tosta ferunt laurorum, oncronlqiic canistrls
Dona laboralae Cereria, Bacchumquc ministrane
Vescilur Acncas, simul et Troiana iuvenlus,
Perpetui tergo bovis, cl luslralibus ostia.
Postquam escmla Comes, et amor comprcssus edendi,
Rei Erandrus ail: Non liaec solcando nohis,
Mas ci more dapes, Itane tanti numinis aram
Tana superstitio veterumque ignara deorum
Imposuii: saevis, liospes Troiane, periclis
Senati facimus. mcrilosquc novamus honores.
lam prìmuni sasis suspensam Itane adspicc rupcmi
Disiectac procul ut moles, deserlaque monlis
Stai domus, cl scopuli ingcntom travere ruinam.
ilio spclunca Cui), tasto submola rcccssu,
Semihominis Caci Cacies qoam dira lenebai,
Solis inaccessam radii»; semperque recenti
Cacdc lepcbal humus, foribusque affila superbis
Ora \ ir dm tristi pcndebanl pallida labo,
lidie monslro Vulcanus crai pater: illius alros
Ore vomcns ignes, magna se mole Cerebal.
Altulil et nobis aliquando optantibus aelas
Auiilittm adventumque dei. Nam ntaiimus ullor,
Tergemini noce Geryonae spoliisque stipcrbus,
Alcides adersi, laurosque hac viclor agebal
Ingenlcs; vallentque boves antnemque fancbanl.
Al Curiis Caci mens elTera, ne quid inattsum
Aut iulraclatum seeleriste dolile fuisset,
Quatuor a slabulis praestanti corpore lauros
Averli!, lolidcm Torma superante iuvencas,
Atque hos, ne qua Corenl pedibus vestigia rectis,
Cattda in speluncam traclos, versisque viarum
Ittdiciis raplos, saio occultabat opaco.
QuacrctUi nulla ad speluncam signa Ccrebanl.
Interea, quum iam slabulis saturala movcret
Ampliitryouicdcs armonia, abilumqtte parare),
Disccssu mugire boves, atque otiinc quereli»
Intpleri nemus, et collcs clamore relinqui.
Iteddidil una bount rocent, vasloque sub antro
llugiit, et Caci spem cuslodila CeCcllit.
Dal balcon d’ Oriente uscito a pena,
Che le mie genti e i miei sussidii avrete.
Intanto a questa Cesta, che solenne
Facciamo ogni anno, e tralasciar non lece,
( Già che venuti siete amici nostri )
i Nosco restale, e come di compagni
j Queste mense onorate.
Area ciò detto,
Allor cjte nuovi cibi e nuove lane
Ripor vi Cece, e lor lutti nel prato
A seder pose ; e sopra tulli linea
( Di villoso leon disteso un tergo )
Seco al suo desco ed al suo seggio accolse.
Per man de’ sacerdoti c de' ministri
Del sacrificio, d' arrostile carni
De' tori, di vin puro, di focacce
Gran piatti, grati canestri e gran lattoni
N" amiaro a torno ; c coi suoi Teucri tulli
Enea Cu de le viscere pasciuto
Del saginalo a Dio devoto bue.
Tolte le mense, c T desiderio estinto
De le vivande, a ragionar rivolli
Evandro incominciò ; Troiano amico,
Questo convito e questo sacrificio
Cosi solenne, c questo a lauto nume
Sacrato altare, istituiti c posti
Non sono a caso ; che del vero cullo
E de gli antichi dei notiiia avemo.
Per memoria, per merito c per volo
D' un gran periglio sua mercè scampato,
Son questi onori a questo dio dovuti.
Mira colà quella scoscesa rupe,
E quei rotti macigni, c di quel colle
Quell’ alpestra ruina, e quel deserto.
Ivi era già remota e dentro al monte
Cavala una spelonca, nv' unqtta il Sole
Non penetrava. Abitatore un ladro
N' ero, Caco chiamato, un mostro orrendo
Meno Cera e meri’ uomo, e d’ uman sangue
Avido si, che ’l suol n' avea mai sempre
Tepido. Ne grontmnvan le pareli,
Ne pendevano i teschi intorno affisai,
Di pallor, di squallor luridi e marci.
Vulcano era suo padre ; e de’ suoi lochi
Per la bocca spirando atri vapori
Già d’ un colosso e d’ una torre in guisa
Conira si diro mostro, dopo molti
Dannaggi c molte morti, il tempo al fine
Ne diede a questo dio soccorso c scampo.
Egli di Spagna vincilor ne venne
In queste parli, de le spoglie altero
Di GcrTonc, in cui tre volle estinse
In tre corpi una vita, e ne condusse
Tal qui d' Ibero un copioso armento,
Ch’ avea picn questo fiume e questa valle.
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LIBRO OTTAVO
1f>9
llic vero Alcidac furns cxarscral atro
Felle dolor: rapii arma manu nodisque gravatimi
Hobur; et aerii cursu pehi ardua monlis.
Tum primum nostri Caconi videro limentem
Turbatumque oculis. Fugit ilicet odor Euro,
Speluncamque petit; pedibus timor addidit alas.
Ut scsc inclusil, ruplisque immane catenis
Dciecit savum, ferro quod et arte paterna
Pcndebal, fullosque cmuniil obiice posles:
Ecce furens animis aderat Tirynlbius, omnemque
Accessum luslrans, huc ora ferebat et illue,
Denlibus infrendens. Ter lolum fcrvidus ira
Lustrai Avenlini montoni; ter saxea tentai
làmina ncquidquam, ter fessns valle resedil.
Slabal acuta silex, praecisis undique saiis,
Spcluncae dorso insurgens, altissima viso;
Diranno nidis domus opportuna volucrum:
liane, ut prona iugo laevum ineumbebat ad amnem,
Dealer in adversum nilens concussi!, et imis
Avnlsam solvil radicibus; inde repente
Impuliti impulsu quo mavimus intonai aether;
Dissultant ripae, refiuitque exterritus amnis.
At spccus et Caci delecta apparuit ingens
Regia, et umbrosae penitus patnerc cavernae:
Non sccus, ac si qoa penitus vi terra dehiscens
Infcrnas Teserei sedes, et regna recludat
Pallida, dts invisa; superque immane barathrum
Cernatur, trepidenlque immisso lumino Mancs.
Ergo insperata deprcnsum in luce repente,
Inclusumque cavo saxo, atqnc insuela rudentem
Desuper Alcidcs telis premi!, omniaque arma
Advocat, et ramis vastisque mnlaribus instai,
lite nutem, ncque enim fuga iam super ulta perieli,
Faucibus ingenlem fumimi, mirabile diclu,
Evomil, involvitquc domum caligine eaeca,
Prospcctum eripiens oculis; glomeralqnc sub antro
Fumiferam noctem commixtis igne lencbris.
Non tuli! Alcides animis, seque ipsc per ignem
Praecipiti jniecit sallu, qua plurimus undam
Fumus agii, nebulaque ingens spccus aesluat atra.
Ilio Cacum in lencbris incendia vana vomenlcm
Corripit in nndum complexus, et angit inhaercns
Elisos oculos, et siccum sanguine guttur.
Panditur extempio foribus domus atra rcvulsis,
Abstraclacque bnves abiuratacque rapinae
Coelo ostcndunlur, pedibusque informe cadavcr
Protrahitur. Ncqucunt explcri corda luendo
Tcrribiles oculos, vultum, villosaquc setis
Pcctora semiferi, alque exstinclos faucibus ignes.
Ex ilio celebralus lionos, laeliquc minores
Servavcrc dicm, primusque Potitius auctor,
Et domus Herculci custos Pinaria sacri.
Ilanc aram luco statuii, quac Maxima semper
Dicclur nobis, et crii quac maxima semper.
Quarc agile, o invencs, tantarum in munere laudum
Caco ladron feroce e furioso,
D' ogni misfatto c d’ ogni seelleranza
Ardito c frodolento esecutore,
Quattro tori involonnc e quattro vacche,
Clf cran fior de l’ armento. E perchè Forme
Indizio non ne dessero, a rovescio
Per la coda gli trasse; c ne la grotta
Gli condusse, c oelógli. Eran l' impronte
De' lor piè volle al campo, e verso P antro
Segno non si vedea ch‘ a la spelonca
Il cercator drizzasse. Avea già molli
Giorni d’ Anfllrion tenuto il figlio
Qui le sue mandrc, e ben pasciuto e grasso
Era il suo armento; si che nel partire
Tutte queste foreste e questi colli
Di querimonie e di muggiti empierò.
Mugghiò da F altro canto, e ’l vasto speco
Da lungc rinlonar fece una vacca
De le rinchiuse : onde schernita e vana
Restò di Caco la custodia c T furto,
Ch' udilla Alcide, e d'ira c di furore
In un subito acceso, a la sua mazza,
Ch’ era di quercia noderosa c grave,
Diè di piglio, c correndo al monte ascese.
Quel dì da' nostri primamente Caco
Temer fu visto. Si smarrì ne gli occhi,
Si mise in fuga, c fu la fuga un volo :
Tal gli aggiunse un timor le penne a’ piedi.
Tosto che ne la grolla si rinchiuse,
Allentò le catene, e di quel monte
Una gran falda a la sua bocca oppose ;
CIF a la bocca de F antro un sasso immane
Avea con ferri e con paterni ordigni
Di cateratta accomodato in guisa
Con puntelli per entro e stanghe e sbarre.
Ecco Tirintio arriva, e come è spinto
Da la sua furia, va per lutto in volta
Fremendo, ora a i vestigi, ora a i muggiti,
Ora a F entrata de. la grotta intento.
E portalo da F impelo, tre volle
Scorse de F Aventino ogni pendice ;
Tre volle al sasso de la soglia intorno
Si mise indarno; e Ire volte affannalo
Ritornò ne la valle a riposarsi.
Era de la spelonca al dorso in cima
Di selce d' ognintorno dirupala
Un cucuzzolo altissimo ed alpestre,
Ch'a i nidi d' avolloife di tali altri
Augelli di rapina e di carogna
Era opportuno albergo. A questo intorno
Alfin si mise; e siccom' era al (lume
Da sinistra inchinato, egli a rincontro
Lo spinse da la destra, lo divclsc,
Col calce de la mazza a leva il pose,
E gli diè volta. A quel fracasso il ciclo
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DELI/ ENEIDE
Cingilo fronde comas, et pocula porgile deitris,
Communemque vocale deum, et date vina volcnles.
Diicral: Hcrculda bicolor quum populea umbra
Velavìlquc comas foliisquc inncia pepcndil;
Et saccr implcvil dcxlram scjphus. Ocius omnes
In mensam lacll libant, divosque prccantur.
Rintonò tulio, si crollar le ripe,
E 'I (lume impaurito si ritrasse.
Allor di Caco fu lo speco aperto :
Scoprissi la sua reggia, e le sue dcnlro
Ombrose e formidabili caverne.
Come citi de la terra il gioito aprisse
A viva fona, e de l' inferno il centro
Discovrissc in un tempo, e clic di sopra
De l' abisso vedesse quelle oscure
Dal cielo ahbominale orride bolge ;
Vedesse Pluto a l' improvviso lume
Restar del sole attonito e confuso ;
Colai Caco da subito splendore
Ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso
Digrignar qual mastino Ercole vide ;
E non più tosto il vide, che di sopra
Sassi, travi, tronconi, ogni arme addosso
Folgorando avvcnldgli. Ei clic nè fuga
Avea, ni schermo al suo periglio altronde.
Da le sue fauci (meraviglia a dirlo!)
Vapori e nubi a vomitar si diede
Di fumo, di caligine e di vampa,
Tal che miste le tenebre col foco
Togliean la vista a gli occhi, e T lume a l'au-
Non però si contenne il forte Alcide, [tro.
Che d'un salto in quel baratro gillossi
Per lo spiraglio, e là Vera del fumo
La nebbia e l’ondeggiar più denso e T foco
Più roggio, a lui clic ’l vaporava indarno,
S’addusse, e lo ghermì; gli fece un nodo
De le sue braccia, e si la gola e T fianco
Gli strinse, che scoppiar gli fece il petto,
E schizzar gli occhi; e'I foco e'i fiato e l'alma
In un tempo gli cslinse. Indi la bocca
Aprì de l'antro, e la frodala preda,
E del suo frodatore il sozzo corpo
Fuor per un piè ne trasse, a cui dintorno
Corscr le genti a meraviglia, ingorde
Di veder gli occhi biechi, il volto atroce,
L'ispido petto, e l'ammorzalo foco.
Da indi in qua questo dì santo ogni anno
Da’nostri è lietamente celebralo,
E ne sono i Potizii i primi autori,
E i Pinarii ministri. Allor quest'ara,
Che massima si disse, e che mai sempre
Massima ne sarà, fu consccrata
In questo bosco. Or via dunque, figliuoli ,
Per celebrar lanl’onorata festa.
Co i rami in fronte e con le tazze in mano
Il comun dio chiamate, e lietamente
L'un con l'altro invitatevi, e beele.
Ciò dello, il divisalo Erculeo pioppo
Tcssèro altri in ghirlande, altri in festoni,
Altri in maii ne pianlaro. E di già pieno
Di sacrato liquore il gran catino,
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LIBRO OTTAVO
HI
Dovevo Interca propior RI Vcspcr Olympo:
lamque sacerdoles primusque Potitius ibant,
Pellibus In morem cincli, flaminasquc fcrcbanl.
Inslaurant cpulas, et mcnsae grata sccundae
Dona ferunl, cumiilanlquc oncratis lancibus aras.
Tum Salii ad canlus, incensa aitarla circum,
Populeis adsunt crincti tempora ramis;
Uic iuvenum chorus, ilio senum; qui carenine laudes
Ucrculcas et racla ferunt: ut prima novcrcae
Alonstra manu geminosque premens eliserit angucs;
Ut bello egregias idem disicccril urbes,
Troiamquc Occhaliamque; ut duros mille laborcs
Regc sub Euryslhco, falis lunonis iniquac,
Pcrlulcrit. Tu nubigenas, invicle, bimeinbres,
Ilylaeumquc l’holumque, manu, lu Cresia mactas
Prodigia, cl «astuto Nemeae sub rupe Iconem.
Tc Stygii Ircmuerc lacus, te ianitor Orci
Ossa super reeubans antro scmesa cruento;
Nec tc ullae facies, non lerruit ipse Typlioeus
Arduus, arma lenens; non le rationis egentem
Lernaeus turba capitum circumstctit anguis.
Salve, vera lovis proics, decus addite divis:
Et nos, et tua deiler adì pede sacra sccundo.
Talia carminibus cclebranl: super omnia Caci
Speluncam adiiciunl, spiranlcmque ignibus ipsura.
Consonai omne nemus strepilu, collcsque rcsultant.
Erin se cnncli divinis rebus ad urbem
Perfcclis referunt Ibat rei obsilus aevo,
Et comilem Aenean iuila natumque lenebat
Ingrcdiens, varioque «iam sermone levabal.
Miralur, facilcsquc oculos ferì omnia circum
Acncas, capilurque locis; et singula laclus
Eiquiritquc auditquc virùm monumenta priorum.
Tum rcx Evandrus, Romanac condilor arcis:
Ilacc nemora indigeoae Fauni Nymphacque tenebant,
Tutti a mensa gioiosi s'adagiaro,
E spargendo c beendo, ai santi numi
Porser preghiere c «oli.
Espcro intanto
Era a l'occidental lito vicino
Già per tuffarsi, quando i sacerdoti
Un'altra rolla, e T buon Potizio avanti
Con pelli indosso e con facelle in mano,
Com'i costume, a conviver tornare,
E le seconde mense c Tare sante
Di grati doni e di gran pjptli empierò.
I Salii intorno a i luminosi altari
Givano in tresca, e di populea fronde
Cingesti le tempie. I vecchi da l'un coro
Le prodezze cantavano e le lodi
Del grande Alcide. I giovani da l'altro
N'atteggiavano i falli: come prima
Fanciul da la madrigna insidiato
I due serpenti strangolasse in culla;
Come al suolo adeguasse Ecalia e Troia,
Città famose; come superasse
Mill'allre insuperabili fatiche
Sotto al duro tiranno, e contro a I fati
De l'empia dea. Tu sei, diccan cantando.
Invitto iddìo, che de le nubi i Agli
Ileo e Foto uccidi; tu che ’i mostro
Domi di Creta; tu che vinci il Aero
Neméo Icone; te gl'inferni laghi,
Tc (inferno custode ebbe in orrore
Ne l'orrendo suo stesso c diro speco.
Là 've tra T sangue e le corrose membra
Ha de la morta gente il suo covile.
Cosa non è sì spaventosa al mondo,
Che tc spaventi, non lo stesso armato
Inconlr' al cicl Tifco, nè quel di Lenta
Con tanti e tanti capi orribil angue
Senza avviso ti vide o senza ardire.
A te, vera di Giove inclita prole.
Umilmente inchiniamo, a tc del ciclo
Nuovo aggiunto ornamento. E lu benigno
Mira i cor nostri e i sacrificii tuoi.
Cosi pregando e celebrando, in versi
Canlavan le sue prove. E sopra tutto
Dicean di Caco, c de la sua spelonca
E dc'suoi fochi; c i boschi c i colli intorno
Kispondean riutonando.
Eran fluiti
I sacrificii, quando il vcchio Evandro
Mosse per la citladc; c seco a pari
Da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio
Avca, cui s’appoggiava; c ragionando
Di varie cose, agevolava il calle.
Enea, meravigliando, in ogni parte
Volgca le luci, desioso e lieto
Di veder quel paese, e di saperne
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DELL' ENEIDE
Gensquc viròm truncis cl duro roborc nata:
Quls ncquo mos ncque cultus crai; ncc iungcrc tauros
Aul coroponcrc opes norant, aul parcere porto:
Sed rami alquc asper virtù vcnalos alcbal.
Primus ab aclherio vcnit Saturnus Olympo,
Arma Iovis fugiens, et regnis ezsul ademtis:
Is gcnus indocile oc dispersum monlibus allis
Composuit, legesque dedit, Laliumque vocari
Moluil, bis quoniam latuissel tulus in oris.
Aurea quac perhibent, ilio sub rege fuerunt
Saecula; sic placida pop^los in pace regebat,
Detcrior donec paullalim oc decolor aelas,
Et belli rabies, et amor succcssil habendi.
Tum raanus Ausonia et gentes venere Sicanae,
Sacpius et nomen posuit Saturnia tcllus.
Tum reges, asperque immani corpore Tliybris.
A quo post Itati fluvium cognomine Tliybrim
Diiimus; amisi! verum vetus Albula nomen.
He pulsura patria, pclagique estrema sequentem,
Fortuna omnipotcns et ineluctabilc fatum
Il is posuerc locis: malrisque cgcrc tremenda
Carmcntis Nymphae monila, et deus auclor Apollo.
Vii ca dieta: dehinc progressus monslral et aram,
Et Carmcnlalem Domani nomine porlam
Quam memorant, Nymphae priscum Carmenlis honorem,
Vatis falidicac: cecini! quac prima futuros
Acneadas rnagnos et nobile Pallanleum.
Itine lucum ingcnlcm, quem Romulus accr Asytum
Rclulil, et gelida monslral sub rupe Lupercali
Parrhasio diclum Panos de more Lycaci.
Ncc non et sacri monslrat nemus Argileti,
Testaturquc locum, cl Iclum docci hospilis Argi.
Dine ad Tarpciam sedem et Capitolia ducit,
Aurea nunc, olim silveslribus horrida dumis.
Iam tum relligio pavidos terrebat agrcstes
Dira loci; iam tum silvani saxumquc tremebant.
Hoc nemus, Lune, inquit, frondoso vertice collcm,
Quis deus, inccrtum est, habitat deus, ArcaJes ipsum
Creduli! se ridisse Iovcm, quum saepc nigrantem
Aegida concutcrct, delira nimbosque cicret.
Hacc duo praclcrea disicclis oppida muris,
Rclliquias vctcrumquc videa monumenta virorum.
Ilanc lanus pater, hanc Saturnus condidit arcem:
Ianiculum huic, liti fucrat Saturnia nomen.
Talibus intcr se diclis ad teda subibant
Paupcris Evandri, passimque armonia videbant
Romanoque foro et laulis mugirc Carinis.
Ut ventum ad sedes: Hacc, inquit, limina victor
Alcides subiil; haec illuni regia cepit.
Audc, hospes, contemnerc opes, et te quoque dignum
Finge dco; rebusque reni non asper egenis.
Dixil, et angusti subtcr fastigio tedi
Ingentem Acnoan duiit, slratisque locavi!
EITultum foliis et pelle Libystidis ursae.
Noi ruit, cl fuscis tcllurem ampleclitur alis.
I sili, i luoghi e le memorie antiche.
Di che spiando, il primo fondatore
Do la Rumano ròcca in colai guisa
A dirgli cominciò: Questi contorni
Eran pria selve; e gli abitanti loro
Eran qui nati, ed eran Fauni c Ninfe,
E genti che di roveri e di tronchi
Nate, nè di costumi, nè di cullo,
Nè di tori accoppiar, nè di por vili,
Nè d'allr'arli o d'acquisto, o di risparmio
Avcan notizia o cura: e T vitto loro
Era di cacciagion, d'erbe e di pomi;
E la lor vita, aspra, innocente e pura.
Saturno il primo fu che in queste parli
Venne, dal cicl caccialo, c vi s’ascose.
E quelle rozze genti, che disperse
Eran per questi monti, insieme accolse,
E diè lor leggi; onde il paese poi
Da le latebre sue Lazio nomossi.
Dicon che sotto il suo placido impero
Con giustizia, con pace e con amore
Si risse un seco! d'oro, in Un che poscia
L’età, degenerando, a poco a poco
Si fe'd'allro colore e d'altra lega.
Quinci di guerreggiar venne il furore,
L'ingordigia d'avere, e le mischiarne
De l'altrc genti. L'assalir gli Ausonii;
L'inondàro i Sicani; onde più volle
Questa, che pria Saturnia era nomala,
Ila con la signoria cangiato il nome,
E co'signori. E quinci è che da Tebro,
Che ne fu re terribile ed immane,
Tebro fu dello questo fiume ancora,
Ch’Albula si dicea nc'tempi antichi.
Ed ancor me de la mia patria in bando
Dopo molti perìgli e molti affanni
Del mar sofferti, ha qui l'oonipolenle
Fortuna, c finvincibit mio destino
Portalo al line; e qui posar mi fèro
Gli oracoli tremendi e spaventosi
Di Carmcuta mia madre, e Febo stesso
Clic mia madre inspirava. E fln qui dello
Si spinse avanti; e quell'ara mostrdgli,
E quella porta, che fu poi di Roma
Carmcntal detta, onore e ricordanza
De la Ninfa indovina cb’anzi a tulli
Del Pallanléo predisse, cdc'Komani
La futura grandezza. Indi seguendo
Un gran bosco gli mostra; ove l’Asilo
Romolo contraffece; c 'i Lupercale,
Che quale era in Arcadia a Pan Liceo
Sotto una fredda rupe era dicalo.
Poscia de l'Argilcto gli dimosha
La sacra selva; e d’Argo ospite il caso
Gli conta, e se ne purga c se ne scusa.
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1.1 B HO OTTAVO
<13
I
At Venus liaud animo ncquidqnam cxtcrrila matcr,
Laurenlumquc minis et duro mota tumultu,
Vulcanum alloquilur, thalamoqnc haec coniugis aureo
Incipit, et dictis dlvinum a Aspirai amorem:
Dum bello Argolici vastabant Pcrgama roges
Debita casurasque inimicis ignibus orces:
Non ullum auxilium miseria, non arma rogavi
Artis opisque tuae; nec te, carissime conionx,
Incassumve tuos volili exercere laborcs:
Quamvis et Priami deberem plurima nalis.
Et durum Aeneae flevissem saepe laborem.
None lo'is imperiis Hutulorum constiti! oris.
Ergo eadetn supplex renio, et sanctum milti numcn
Arma rogo gcnilrix nato. Te Alia Nerci,
Te potuit lacrimis Tilhonia flectere coniunx,
Adspicc, qui coèant popoli, quac moenia clausis
Fermo acuant porlis in me excidiumquc meorum.
Dixeral; et nivcis bine atquc bine diva lacerlis
Cundantem amplexu molli roret. Die repente
Vincalo voi, tstco.
A la Tarpeia rupe, al Campidoglio
Poscia l' addusse ; al Campidoglio or d' oro,
Che di spini in quel tempo era coverto,
Un ermo colle da i vicini agresti
Per la religion del loco stesso
Disino attor temuto e riverito :
Ch' a veder sol quel sasso c quella selva
Si paventava. E qui soggiunse Evandro :
In questo bosco, e là 've questo monte
È più frondoso, un dio, non si sa quale.
Ma certo abita un dio. Queste mie genti
D’ Arcadia lian ferma fede aver veduto
Qui Giove stesso balenar sovente,
E far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi
Qui su quelle rOine c qnci vestigi
Di quel due cerchi antichi. Una di queste
Città fondò Saturno, e P altra G ano,
Che Saturnia c Gianicolo Tur delle.
Iti colai guisa ragionando Evandro,
Se ne ginn verso il suo picciolo ostello.
E ne l’ andar, là V or di Buina ò il Foro,
Ov' è quella più florida contrada
De le Carine, ad ogni passo intorno
Udia greggi belar, mugghiare armenti.
Giunti clic furo, In questo umile albergo
Alloggiò, disse, il vincitore Alcide.
Questa fu la sua reggia. E tu v’alloggia,
E tu ’l gradisci, e le delitie e gli agi '
Spregiando, imita in ciò Tirinxio e Dio,
E del tugurio mio meco l’ appaga.
Cosi dicendo, il grand'ospite accolse
Ne l' angusta magione ; e collocollo
LA dove era di frondi e d' irta pelle
Di Libie' orsa atlappczzalo un seggio.
Venne la notte, e le fosc' ali stese
Avca di già sovra la terra ; quando
Venere come madre, c non in vano
Del suo tìglio gelosa, il gran tumulto
Veggendo c le minacce de' Laurenli,
Con Vulcan suo marito si ristrinse
Con gran dolcezza ; c nel suo letto d' oro,
Amor spirando, in tal guisa gli disse :
Caro consorte, inllnchè i regi Argivi
Furo a’ donni di Troia, clic per fato
Cader dovea, nullo da te soccorso
Volli, o da P arte tua : nè li richiesi
D’ ormi allor, nè di maerhine, nè d‘ altro
Per iscampo de’ miseri Troiani.
Le man, l' ingegno tuo, le lue fatiche
Oprar non volli indarno, ancor che mollo
Con Priamo c co' tigli obbligo avessi,
E molto mi premesse il duro alfanno
D' Enea mio Aglio. Or per imperio espresso
E de' Fati e di Giove egli nel Lazio
E Ira’ Rululi è fermo. A le, mio sposo,
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1 74
dell' eneide
Acccpil solitam llnmmam; nolusque mcdullas
Inlravil calor, cl labcfacla per ossa curami;
Non sccus alque olim (onilni quum rupia corusco
Ignea rima mirans pcrcurrit lumino uinibos.
Sentii, lacta dolis cl formac conscia, comuni.
Tum palcr aclcrno falur dcvinclus amore:
Quid caussas polis ci allo ? Fiducia ccssit
Qiio libi, diva, ilici ? Similis si cura fuissel,
Tum quoque fas nobis Teucros armare fuisscl;
Ncc palcr omnipolens Troiam, noe fata vclabaul
Slarc. dcccmque alios Priamum superasse per annos.
At nunc, si bollare para*, alque iiacc libi mcns esl:
Quidquid in arie mea possum promillcrc curae,
Quod beri ferro liquiduve polcsl dietro,
Quanlum ignes animacquc «aleni; absislc prccando
Viribus indubilarc luis. Ea «erba loculus
Oplalos dedii amplcius, placidumquc pctivil
Coniugis infusila grumo per membra soporem.
Inde, nbi prima quics medio iam noclis ahaclae
Curriculo eipuicral somnum; quum femina primum,
Cui lolcrare colo vilam lenuiquc Minerva
lmposilum, cinerem cl sopitos suscitai ignes,
Noelem addens operi; famulasquc ad lumina longo
Eiercel penso, castum ul servare cubile
Coniugis, cl possil parvos cduccre nalos:
liaud sccus ignipolcns, noe tempore segnior ilio
Mollibus e slralls opera ad fabrilia surgil.
insula Sicanium iuila lalus Acoliamquc
Erigilur Liparcn, fumanlibus ardua savis:
Quam sublcr spccus cl Cjclopum esosa caminis
Anlra Aelnaea (onanl, ralidique incudibus ictus
Ricorro, a le, mio venerando nume ;
E madre per un Oglio arme li chieggo ;
Quel clic da le di Nereo la figlia,
E ili Tìlon la moglie hanno impetrato,
Mira ’n quaufuopo io le li dileggio, e quanti
E clic popoli sono, a mia ruma
E de' mici congregali ; e qual fan d'armi
A porle chiuse orribile apparecchio.
Slava a questa richiesta in sé Vulcano
Riiroso anzi clic no ; quando Ciprigna
Con la tiepida neve e col vi»’ ostro
De le sue braccia al collo gli si avvinse,
E strinseln e baciollo. In un momento
La consueta fiamma gli s’ apprese,
E per l’ ossa gli corse a le midolle,
E per le vene al core ; in quella guisa
Che di corusca nube esce repente
l'na lucida lista, e lampeggiando,
Serpendo, il ciclo lutto empie di foco.
Senfi la scaltra, che sapea la forza
Di sua belili, die I’ a>ca preso e vinto;
E de F inganno si compiacque e rise.
E 'I buon marito, clic d' derno amore
Avoa il cor punto, le si volse, e disse:
A clic sì lungo esordio t 0»' è, consorte,
Ver me la fila fidanza ? lo fin d’ allora,
Se l' era a grado, avrei d' arme provvisti
I Teneri (noi; ne ’l Padre onnipotente.
Ni i Fali ci ridavano che Troia
Non si tenesse, e Priamo non fosse
Resialo ancor per (fiere allr" anni in vita.
Ed or, s’ a guerra 1' apparecchi, e questo
| È Ino consiglio, quel che l' arie puole
0 di ferro o di liquido melallo,
Quanto i mantici han fiato, e forza il foco ,
Io li promctlo. E lu con questi pricglii
i Cessa di rivocar la possa in forse
Del tuo volere, c'I mio de.-ir ciré sempre
Di far le toglie tue paglie e contente-
Cosi dicendo, disi'oso in braccio
La si recò; gioinne, e poscia in grembo
| Di lei placidamcnlc addormentossi .
Finito il primo sonno, e de la notte
Già corso il mezzo, come femminella
Che eoi fuso, o con l' ago, o con la spola
La sua vita sostenta e de' suoi figli ;
Che la nollc aggiungendo al suo lavoro,
E dal suo focolar pria che dal sole
Procacciandosi 'I lume, a la conocchia,
A P aspa, a l’ arcolaio esercitando
Sla le povere ancelle, onde mantenga
II rasto Idlo e i pargoletti suoi :
Tale, in lai tempo, e con lai cura a l'opra
Surse i) gran fabbro, e la fucina aperse.
Giace Ira la Sicania da I" un canlo :
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turno OTTAVO
175
Aaditi refcrunt gcmilum, slriduntque cavernis
Striclurac Chalybum, et fomncibus ignis anhelal;
Vulcani domus, cl Vutcania nomine Icllus.
Hoc lune ignipolens coclo dcsccndìl ab alto.
Perniai eicrcebanl vasto Cyclopes in antro,
Brontesque, Stcropesque, el nudus membra Pyrac-
mon.
Uis informalum manibus iam parte potila
Fulmen crai, toto genilor quac plurima coclo
Deiicil in terra*; pars imperfeela manebal.
Trcs imbris lorli radios, Ircs nubis aquosac
Addidcrant, rutili tres ignis cl alitis austri.
Fulgores nunc liorrilicos, sonilumque mclumquc
Blisccbanl operi, flnmmisque sequa ci bus iras.
Parte alia Marti currumquc rolasque volucres
Instabant, quibus ille viros, quibus cxcital urbes;
Acgidaque liorriferam, turbatne Palladi» arma,
Cerlatim squami» serpentoni auroque polibant,
Conncxasquc angue», ipsamque in pectore divoo
Gorgona, deserto vertentem lumina rollo.
Toltile cuncta, inquit, roeplosquc auferte labore»,
Àclnaci Cyclopes, et Ime ad veri ile nientem.
Arma acri facienda viro. Nunc viribus usus,
Nunc manibus rapidi», omni nunc arie magistra.
Praccipitatc inoras. Nec plora cffalus; cl illi
Ocius incubuere omnes, pnrilcrquc laborcin
Sortili. Fluii aesfivis, aurique melallum,
Vulnilicusquc chalybs vasta fornace liqucsciL
Ingctilem clipcum inrorinanl, unum oinnia conlra
Tela Latinorum; scplenosque orbibus orbes
Impediunt. Alii ventosi» follibus auras
Accipiunl rcddunlqtie; alii strideulia lingunl
Aera lacu; gcmil imposto» incudibus anlrum;
(Ili inter scsc multa vi brachia lollniil
In numerum, vcrsanlquc tenaci forcipe massa m.
E Lipari da l'altro un' isolctla
Gli* alpestra ed alla esce de Tonde c fuma.
Ha sotto una spelonca, c grolle intorno,
Clic di feri Ciclopi antri c fucine
Son da* lor fochi affumicati c rosi.
Il picchiar de T incedi c de* martelli
Ch* entro si sente, lo slridor de* ferri,
Il fremere e T bollir de le sue fiamme
E de le sue fornaci, d’ Elna in guisa
Intonar s* ode cd anelar si vede.
Quesla è la casa, ove qua giù s’adopra
Vulcano onde da lui Vulcania è della :
E qui per T armi fabbricar discese
Del grand* Enea. Slavati ne T attiro allora
Steropc c bronlo e Piracmonc ignudi
A rinfrescar T aspre saette a Giove.
Ed una allor n'avcan parie polita,
Parte abbozzata, con tre raggi attorti
Hi grandinoso nembo, Ire di nube
Pregna di pioggia, (re d'acceso foco,
E tre di vento impetuoso c fiero,
I tuoni v’aggiungevano c i baleni,
E di fiamme c di furia c di spavento
Un colai misto. Altrove erano intorno
Di Marie al carro, e le veloci ruote
Accozzavano insieme, ond* egli armalo
Le gelili c le città scuole e cominovc.
Lo scudo, la corazza c l’elmo e Tasta
Avcan ila T altra parte incominciati
Ih* T armigera Palla, c di commesso
La fregiavano a gara. Erano i fregi
Nel petto de la dea gruppi di serpi
Che d’ oro avean le scaglie, c cento intrighi
Facenti guizzando di Medusa iulorno
Al fiero teschio, che così com’era
Disanimalo e tronco, le sue luci
Volgca dintorno minacciose c torve.
Tosto che giunse, Via, disse a’Ciclopi,
Sgombratevi davanti ogni lavoro,
E qui meco n guarnir d’arme attendete
Un gran campione. E s'unqua fu mesliero
D’arte, di sperienza c di prestezza,
È questa volta. Or «'accingete a l’opra
Senz'nitro indugio. E ciò fu dello a pena,
Clic divise le veci e i magisteri,
A fondere, a bollire, a martellare
Chi qua chi là si diede. Il bronzo c Toro
Corrono a rivi: s’ammassiccia il ferro,
Si raffina l’acciaio; c tempre c leghe
In più guise si fan d’ogni metallo.
Di sette falde in selle doppi unite
Hicolle al foco c ribatlutc c salde
Si forma un saldo c smisurato scudo,
Da poter solo incontro a Tarmi tutte
Star dc’Lalini. Il fremito del vento
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DELL* ENEIDE
llacc palcr Acoliis propcrat doni Lemnius ori*,
Evandnim ci humili teclo lux suscitai alma,
Et matulini voliiorum sub culmine canlus.
Condurgli senior, tunicaquc imlucilur artus,
Et Tyrrliena pedum circumdal rincula plantis.
Tum Interi alque liumeris Tcgcacum subligat ensem,
Domila ab lacva panllicrae terga rclorquens.
Ncc non et gemini custodes limine ab alto
Praeredunl prcssumque canes comitanlur hcrilcm.
llospilift Aeneac sedem cl secreta pctebat,
Scrmonum mrmor et promissi muneris, heros.
Nec minus Aenrns se matulinus ngebal.
Filius Imic Pallas, illi comcs ibal Adiate*.
Congressi iungunt dextras, mediisque residunt
Acdibus, et licito tandem sermone rrmmtur.
Rex prior haec:
Maxime Teucrorum ductor, quo sospite nunquam
Rcs equidem Troiae victas nnt regna falebor;
Nobis ad belli auxilium prò nomine tanto
Exiguac viro». Mine Tusro claudimur amni,
llinc Ttululiis premi!, et murnm circumsonat armis.
Sed libi ego ingenles populos opulcntoque regnis
lungcrc castro paro, quam fors inopina salulcm
Ostentai; fatis Ime tc poscontibus after*,
llaud procul bine saio incolilnr fundala vetusto
Urbis Agyllinac sedes: ubi Lydia quondam
Oens, bello pracclora, iugis insedi! Etruscis.
Itane multos florenlem annos rex demde superbo
Imperio et saevis tcnuil Mercntius armis.
Quid mernorem infandas caedes, quid facta lyranni
E fiera ? DI capiti ipsius generique reservenl 1
Mortila quin eliam iungebal corpora vivis,
Componens manibusque manus atquc orìbus ora,
Tormenti grnus, et sanie taboque fluentes
Compir xu in misero longa sic morte necabal.
At fessi tandem cives infamia furenlcm
Armati circumsislunt ipsumque domumqtir,
Obtruncanl Melos, ignoro od fastigio butani,
llle inler caedes Rululorum clapsus in agros
Confugcre, cl Turni defendicr hospiiis ami».
Ergo omnis furiis surrexil Elruria iuslis;
Regem ad supplicium praesenti Marte reposcunt.
llis ego te. Aenea, ductorem millibus addam.
Toto namque fremimi condensae lilorc puppes,
Signaquc ferro iubenl; rctinel longa evus haruspcx
Fata cancns: 0 Maeoniac dclccla iuvenlus,
Flos vclerum vlrtusquc virimi, quos iuslus in boslern
Clic spira da’gran mantici, c le strida
Clic ne’laghi allunali, o su l’incudi
Battuti fanno i ferrigni un sol tuono
Ne l'antro uniti, di tenore in guisa
Corrispondono a’colpi dc’Ciclopi,
Ch'ai moto de le braccia or alle or basse
Con le tenaglie c co’martclli, a tempo
Fan concerto, armonia, numero c metro.
Mentre in Eoliu era a quest'opra intento
Di Lcnno il padre, ecco, sorgendo il sole,
Sursc al cantar dei mattutini augelli
Il vecchio E> andrò; e fuori uscio vestito
Di giubba con le guigge a'picdi avvolte,
Com'è Tirrena usanza. Avca dal destro
Omero a la Tegèu nel manco lato
Una sua Greca scimitarra appesa.
Avca da la sinistra di pantera
Una picchiata pelle, clic d'un (ergo
Gli si volgca su l'altro; e da ta ròcca
Scendendo, gli venian due cani acanti,
Come custodi, i suoi passi osservando.
In questa guisa il generoso eroe.
Come quei clic lenca memoria e cura
Di compir quanto avca la sera avanti
Ragionato c promesso, a le secrctc
Stanze del padre Enea si ricondusse.
Enea da l'altra parte assai per tempo
S'era levalo; e. solo in compagnia
L'un seco avea Pallunlc, e l’altro Arate.
Poscia che rincontrati c ’nsieme accolli
Si salutaro, alibi, tra loro assisi,
A ragionar si dicro. E prima Evandro
Cosi parlò: Signor, cui vivo, in vita
Dir si può che sia Troia, c che del tutto
Non sia caduta e vinta; in questa guerra
Quel clic poss’io per tuo sussidio è poco
À tanto affare. Il mio paese è chiuso
Quinci dal Tosco fiume, e quindi ha l'armi
Che gli suonan dc’RuluIi d'inlorno
Fin sulle porte. Avviso e pcnsier mio
E per confederali e per compagni
Darli una gente numerosa e grande
Con molli regni. In (at qui tempo a punto
Sei capitato, e tal felice incontro
Ti porge amica e non pensata sorte.
È non lunge di qui, su questi monti
D'Elruria, una famosa c nobil terra
Cli'è sopra un sasso anticamente ostruita.
Agillina si dice, ovc^ lor seggio
Posero (è già gran tempo) i bellicosi
E chiari Lidi; e floridi e felici
Vi fur gran tempo ancoro. Or sotto il giogo
Son di Mczcrizio capitali al fine.
A che di lui coniar le sccllcranze ?
A clic In ferità ? Dio le riservi
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LIBRO OTTAVO
117
Ferì dolor, et merita accendi! Mezentius ira;
Nulli bis Italo tantam subiungere gcnlcin:
Ezlernos optate duces. Tom Etnisca resedii
Hoc acios campo, monili* evienila divùm.
lpse oratore* ad ine regnique coronam
Cuni sccpiro misi!, mandatquc insignia 'farcito,
Succedam castris, Tyrrhenaquc regna capessam.
Sed inibì tarda gelu saeclisquc elTcta sencclus
Invidei impcrium, s (Tacque ad fortia vircs.
Nalum evhorlnrer, ni, mutua maire Sabclla,
Hinc parlcm patriac tralicrel. Tu, cuius et unni*
Et generi fata indulgcnl, qttcni numina poscunt,
Ingrederc, 0 TcucrAin alque Halum fortissime ductor.
llunc libi practcrca, spes et solatia nostri,
Paltanla adittngam; sub le loierare magislro
Slililiarn et graie Itlarlis opus, tua cernere facta
Assucscat, primis et le miretur ab anni*.
Arcadas buie cquiles bis centoni, robora pubis
Leda, dabo; lolideinquc suo libi nomine Pallas.
Per suo castigo c de' seguaci suoi.
Questo crudele insino a' corpi morti
Mescolava co' vivi ( odi tormento )
Clic giunte mani a mani e bocca a bocca,
In cosi miserando abbracciamento
Gli Iacea di putredine c di lezzo
Vivi ili lunga morte al Un morire.
1 cittadini afllitli c disperati,
E falli per paura al Un sccuri,
Tesero insìdie a lui, fecero strage
De' suoi, posero assedio, avventàr foco
A le sue case. Ei de le mani uscito
De gli uccisori, ebbe rifugio a Turno
Ch'or l' accoglie c 'I difende. Onde commossa
E per giusta ragione in furia vòlta
L’ Elruria tutta incontro al suo tiranno
Grida che muoia, c già con l' armi in mano
A morte lo persegue. A questa gente
Di molte mila condottiero c capo
Aggiungcrotli. E già d'armate navi
Son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede
Clic si spieghin l' insegne. Un vecchio solo
Aruspico c 'ndovino A, che sospesi
Gli tiene inOno a qui: Gente Meonia,
Dicendo, fior di gente antica c nobile.
Delirili' giusto dolor contro a Mczcnzio,
E degù' ira v’ incenda, incontro a Lazio
Non movete voi già; cb'a nessun Italo
Domar d'Italia una tal gente è lecito,
S' esterno duce a lanf uopo non prendesi.
Cosi paralo, c per timor confuso
Del vaticinio stassi il campo Etrusco;
E già Tarconle stesso a questa impresa
M’ invila, c già mandalo a presentarmi
Ha la sedia e Io scettro c l' altre insegne
Del Tirrcn regno, perch’io re ne sia,
Ed a l' oste ne vada. Bla la tarda
E fredda mia vccchicrza, e le mie forze
Debili, smunte c diseguali al peso
Fan di' io rifiuti. Esorterei l’aliante
Mio tìglio a questo impero, se non fosse
Clic nato di Sabclla, Italo anch’ egli
È per materna razza. Or questo incarco
Da gli anni, da la gente, dal destino,
Dal tuo stesso valore a te si deve.
E tu prendi, signor, eli’ abile c forte
Sei più d' ogni Troian, d' ogni Latino,
A sostenerlo. Ed io Fallante mio,
La mia speranza c 'I mio sommo conforto,
Manderò leco; che ’l meslier do l’ arme,
Che le fatiche del gravoso .Marte
Ne la tua scuola a tollerare impari:
E te da' suoi pritn'anni, c i gesti tuoi
Meravigliando ad imitar s'avvezzi.
Dugenlo cavalieri , il nervo e 'I fiore
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DELL’ ENEIDE
Vii ca falus crai, dcfixiquc ora Icncbaul
Acncas Anchisiadcs cl fidus Acliates,
Mullaquc dura suo tristi rum cordo pulabnnt,
Pii s'gnunj coclo Cytherca dodissot aperto.
Namquc improviso vibralus ab aclhcrc fulgor
Cum sonilu venit, cl ruerc omnia risa repente,
Tyrrhcnusquc lubae mugirc per acllicra clangor.
Suspiciunt: ilerum atquc iterum fragor increpat ingens.
Arma iuler nubem, coeli in regione serena,
Per sudum rutilare tident, cl pulsa tonare.
Obstupuerc aniinis alii; sed Troius beros
Agnovil sonituin cl divac promissa parenlis.
Tum memorai: Ne vero, hospcs, ne quaere profeclo,
Quem casum portmta ferant; ego poscor Olympo.
Hoc signum cecini! missuram dita rrealrii,
Si bcllum ingrucrcl; Vulcaniaquc arma per auras
Laturam auiilio.
■leu quantae miseris cacdes Laurcnlibus inslant I
Quas pocnas mihi, Turno, dabis ! quam multa sub
undas
Scula tirOtn galeasque et forlia corpora volvcs,
Tliybri pater ! Poscant acies, et fuedera rutnpanl.
Ilare ubi dieta dedit, solio se tollil ab alto;
Et primum Ilcrculcis sopilas ignilms aras
Escila!, hestcrnumquc Larcm parvosque Pcnales
Laclusadil: maclant Icctas de more bideutes
Evandrus paritcr, paritcr Troiana iuventus.
Post bine ad naics gradirne, sociosque resisi!:
Quorum de numero, qui sesc in bella sequanlur,
Praestanlcs sirlule Icgil; pars celerà prona
Ferlur aqua, segnisque secundo defluii amni,
Piunlia ventura Ascanio rerumque patrisque.
Dantur equi Tcucris Tyrrbcna pclcnlibus arva:
Dueunt cisorlem Aeucae; quem futi a Icouis
Pcllis obil tolum, praefulgens unguibus aurcis.
De' miei d' Arcadia, spedirò con Ini,
E dugcnlo altri il min Pollatile slesso
In suo nome daratli.
Avea ciò detto
Etandro appena, clic d' Anchise il figlio
E 'I lido Acolc stèr co’ volli a terra
Chinati. E da pcnsier gravi c molesti
Fòran oppressi, se dal cicl sereno
La madre Cilerca segno non dava,
Siccome diò. Citò tal per aria un lume
Vibrassi d' improvviso e con tal suono,
Che parve di repente il mondo tulio
Come scoppiando c rumando ardesse.
Ed In un lempo di Tirrene tube
Squillar ne l’aura alto concento udissi.
Alzaron gli occhi; e la seconda volta,
E la terza iterar sentirò il luono;
E vidcr li 've il ciclo era piò scarro
E più tranquillo, una dorata nube,
E d’ armi un nembo, che Ira lor percosse
Scintillando facean fremili e lampi.
Stupiron gli altri. Ha il Troiano eroe
Clic il cenno riconobbe c la promessa
De la diva sua madre, Ospite, disse.
Di saper non li caglia quel eh' importi
Questo prodigio: basta di’ ammonito
Soli io dal ciclo, c questo ò ’l segno, o ’l tempo
Clic la mia genitrice mi predisse;
Clic quantunque di guerra incontro avessi,
Allora ella dal cicl presta sarebbe
Con l'armi di Vulcano a darmi aita.
Oh quanta di voi strage mi prometto,
Infelici Laurenli 1 c qual castigo.
Turno, da me n'avrai! quanl'arml, quanti
Corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio !
Via, patto c guerra mi si rompa ornai.
Cosi detto, dal soglio allo levossi:
E con Evandro c co’ suoi Teucri in prima
)>' Ercole visitando i santi altari.
Il sopito carbon del giorno avanti,
Lieto desta c raccende; i Lari inchina;
I pargoletti suoi Penali adora,
E di più scelte agnello il sangue ofTrisce.
Indi torna a le navi, c de' compagni
Fatte due parli, la piò forte elegge
Per seco addurre a preparar la guerra;
L' altra seconda per lo (lume invia,
Che pianamente c srnz' alcun contrasto
Si rivolga ad Ascanio, e dia novelle
De le cose e del padre. A quei clic seco
In Etruria addueca, Insto provvisti
Furo i cavalli. A lui venne in disparte
Da tulli gli altri un palafreno eletto
Di pelle di leon lutto coverto
Che i velli avea di seia e l’ ugna d' oro.
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LIBRO OTTAVO
11 »
Fama volai parvam cubilo vulgata per urbcm,
Ocius ire cquilcs Tyrrlioni ad lilora regia.
Vola melu duplicanl malrcs, propiusque pcriclo
Il limor, el maior Martis iam appare! imago.
Tum pater Evandrus, doilram complexus cuulis,
llaerel, incxplelnm laerimans, ac lalia faiur:
0 mihi praclcrilo» reterai si lupilcr aunos,
Quali* eram, qiiuin primam ae-iem Pracncslc sub ipsa
Strati scutorunii|uc incendi viclor acervo;,
Et regoni bac llerilum destra sub Tartara misi!
Nascenti cui tres animas Fcronia matcr
(Horrcudum diclu) dederat. Terna arma movendo,
Ter leto slemendus orai: cui lune lamen omnrs
Abslulit liaec animas destra, et tolidcm esuit armis.
Non ego mine dulci amplesu divellcrcr usquam,
Nate, tuo; ncque flnilimo Mczcnlius unquam
lluic capili insullans tot terrò saeva dedissel
Funere, Iam multis viduasset civibus urbem.
At vos, o superi, et ditóni tu niasimc reclor
lupilcr, Arcadii, quaeso, miscrescite regis,
Et patria; andito prcccs: Si mimimi vostra
Incnlunieni Pallanla milii. si tata reservant,
Si visurus cum vivo, et vcnlurus in unum,
vitam oro; paliar quemvis durare laborcm:
Sin aliquein intandum casum, Fortuna, minaris,
Nunc, none o liceat crudelem abrnmpcre vitam,
l)um curac ambiguae, dum spes incerta futuri,
iium le, care pucr, mea sola et sera voluplns,
Complesu tcncn; gratior ne nuntius aures
Vulnerai. Ilaec gcnitor digressu dieta supremo ,
Fundcbal: famuli coliapsum in teda ferebant.
lamque adeo esierat porlis equitatus apertisi
Acneas inlcr primos et fidus Achales;
Inde olii Troiac proceres; ipsc agaiinc Pallas
In medio, chlamydc et pie li s conspcclus in armisi
Quali; ubi Oceani perfusus Lucifcr linda.
Quelli Veuus ante nlios astrorum diligi! ignes,
Eslulit os saerum coi to, lenebrasquc rcsolvil.
Stani pavidae in muris malrcs, oculisquc sequuntur
l’ultercaiu mibcm el fulgente; aere calcrvas.
Per la piccola lerra In un momcnlo
Si sparge il grido eli' a i Tirreni liti
No va lo stuol de' cavalieri in fretta.
Le madri paventose a i tempii intorno
ninnotcllaiio i voli; c già per tema
Più vicino il periglio, c più P aspetto
Sembra di Marte atroce. Evandro il figlio
Nel dipartir teneramente abbraccia;
Nè divello da lui nè sazio ancora
Di lagrimar gli dicci o se da Giove
Mi fosse, tìglio, di tornar concesso
Ora in quegli anni e ’n quelle forze, ond’ io
Sullo Preneste il primo incontro fei
Co' mici nemici, c vincitore i monti
Arsi de’ scudi; allor eli' Erilo stesso,
Lo stesso re con queste mani ancisi,
A cui nascendo avea Fcronia madre
Date tre vile c Ire corpi, c tre volto
( Meraviglia a contarlo I ) era mcslicro
Combatterlo c domarlo; cd io tre volte
Lo combattei, lo vinsi, c lo spogliai
D' armi c di vita; se tal, dico, io fossi,
Mai non sarei da le, figlio, diviso;
Mai non fura Mezcnzio oso d' opporsi
A questa barba ; nè per tal vicino
Vedova resterebbe or la mia terra
Di tanti cittadini. 0 dii superni,
0 de' supremi dii nume maggiore,
Pietà d' un re servo e devoto a voi,
E d' un padre che padre è sol d' un figlio
Unicamente amalo. E se da’ Fati,
Se da voi m' i Pallante preservato,
E s' io vivo or per rivederlo mai,
Questa mia vita preservate ancora
Con quanti unqua soffrir potessi affanni.
Ma se Fortuna ad infortunio il tragge,
CU' io dir non oso, ora, or, prego, rompelc
Questa misera vita, or eh* è la tema,
Or di' è la speme del futuro incerto;
E che le, tiglio mio, mio sol diletto
E da me desiato in braccio io tengo,
Ami eh' altra novella me ne venga
Cile 'I cor pria clic gli orecchi mi percuota.
Cosi 'I padre ne l' ultima partila
Disse ai suo figlio; e da l' ambascia vinto
Fu da' sergenti riportato a braccio.
A la campagna i cavalieri intanto
Erano usciti. Enea col Odo Acatc,
E co' suoi primi e>a nel primo stuolo.
Pallante in mezzo rispleudea no Panni
Commesse d‘ oro, rispleudea ne l' ostro
Clic Parme avean per sopravvcsla inlorne;
Ma via più risplendca ne' suoi sembianti
CIP cran di licro e di leggiadro insieme.
Tale è quando Lucifero, il più caro
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180
DELL’ ENEIDE
Olii per dumo?, qua prolima mela viorum,
Armali I e mi uni. Il clamar, et Ognune laclo
Quadrupedantc putrcni sonilu qualil ungula campum.
Est ingens gelidum lucus prope Cacrilis omnem,
Benignine palrum late saccr; undique colles
Incluscrc cari el nigra nemns abielc cingimi;
Silvano faina est veleres sacrasse Pclasgos,
Arvorum pccorisquc dco, lucumque dieraque,
Qui primi fines aliquaudo lialmere Latinos.
Ilaud procul bine Tarclio el Tyrrhcni luta lenebanl
Castra locis, celsoquc oninis de colle videri
Iam palerai legio, et lalis tendebai in arvis.
lluc palar Aeneas el bello leda iuvenlus
Succedimi, fessique et equos el corpora curanl.
Al Venus acllterios inlcr dea candida nimbos
Dona fercns aderiti ; natumque in valle reducta
DI procul egelido secretimi nuotine lidii,
Talibus affala est diclis, seque oblulit utlro:
En perfecta itici promissa coniugis arie
Menerà: ne mot: aul Laurenlcs, nate, superbo?,
Aul acrem dubilcs in proelia poscere Turnum.
Disii, el amplesus nati Cylltcrca pelivi!;
Arma sub adversa posuil radianlia quercu.
I le, dcae donis el tanto laelus Itonorc,
Esplori nequil, atquc oculos per singula volti!,
Miralurque, interque manus el brachia versai
Terribilem crislis galcam nammasque vomenlem,
Faliferumque enscm, loricam e» aere rigenlcm,
Sanguineam, ingcntcm, qualis quum caerula nubes
Solis inardcscit radiis longcquc rcfulgel;
Tum leves ocreas elcctro auroque recoclo,
Ilaslamque, el clipei non cnarrabile Icitum.
Illic res llalas, llomanoruntque Iriumphos,
Ilaud valum ignarus venlurique inscius aevi,
Fecerat Ignìpotens; illic genus omne futurae
Slirpis ah Ascanio, pugnataque in ordine bella.
Fccerat et viridi Tetani Mavorlis in antro
Procuhuisse lupam: geminos buie ubera circum
Ludcrc pcndcRlcs pueros, el lambere matrem
tmpavidos; illam tereti cervice rellesam
Mulccrc alternos, et corpora fìngere lingua.
Ncc procul Itine Romani, et raptaa sinc more Sabinas
Lume di Cilerea, da I' Oceano
Quasi da l’ onde riforbilo estolle
Il sacro rollo, a l' aura fosca inalba.
Slan le timide madri in su le mura
Pallide atlcntamcnlc rimirando
Quanto puon lungo il polveroso nembo
Oc l’ armale caterve; e i luslri e i lampi
Clic fnccan l' armi, Ira i virgulti e i dumi
Lungo le vie. Va per la schiera il grido
Che si cavalchi; e lo squadron già mosso
Al calpitar de la ferrala forma
Fa il campo risonar tremante c trito.
È di Cere vicino, appo il gelalo
Suo fiume, un sacro bosco antico e grande
D’ombrosi abcli, che da cavi colli
Intorno è citilo, venerabil mollo
E di gran liingc. fi fama clic i Pclasgi,
Primi del Laido occupato» esterni,
A Silvàn, dio de' campi e de gli armenti,
Consccràr questa selva, c con solenne
Itilo gli dcdicàr la festa c 'I giorno.
Quinci poco lontano era Tarconle
Co' Tirreni accampalo ; e qui dal campo
Giunti a la vista, là 've un allo colle
Lo scopria tutto, Enea co’ primi suoi
Fermossi, ovo i cavalli c i corpi loro
Già slanciti ebbero al fin posa e ristoro.
Era Venere in ciel candida e bella
Sovr' un etereo nembo apparsa intanto
Con l' armi di Vulcano; c visto il Aglio
Cli’ oltre al gelido rio per erma valle
Sen già da gli altri solitario e scevro,
Apertamente gli s' offerse, e disse :
Eccoli '1 don che da me, Aglio, attendi
Di man del mio consorte. Or francamente
Gli orgogliosi Lamenti e 'I fiero Turno
Sfida a baltaglia, c gli combatti e vinci.
E, ciò dello, l'abbraccia. Indi gli addila
D'armi quasi un trofeo, di' appo una quercia
Dianzi da lei tlcposle, incontro a gli ocelli
Facean barbaglio, e 'ncontro al sol più soli.
I)' un latito dono Enea , d' un tale onore
Lieto, c non sazio di vederlo, il mira,
L’ammira e’I traila. Or l’elmo in man si prende
E l’ diritti! ciuticr contempla c ’l foco
Che d' ogni parie avventa : or vibra il brando
Fatale; or ponsi la corazza avanti
Di lino acciaio c di gravoso pondo,
Che di sanguigna luce c di colori
Diversamente accesi era splendente :
Qual sembra di lonlan cerulea nube
Arder col sole c variar col molo.
Brandisce l’ asta; gli stinicr vagheggia
Nitidi e lievi, che fregiali c fusi
Snn di fin oro c di forbito elettro.
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LIBRO OTTAVO
181
Consessi! caveae, magnis Circcnsihus actis,
Addidcrat, subitoquc notuni consurgere bcllum
Romulidis, Talioque seni, Curibusque severi*.
Posi Idem, iiiler se posilo ccrtamine, reges
Armati Iovis anle aram, palerasque lenente*,
Stillarli, el coesa iungebanl fu ed ir a porca,
llaud procul inde cilae Metum in diversa quadrigai*
Dislulerant (al lu diclis. Albani 1 , mancres 1)
Haplabatque tiri mendaci* tiscera Tuilus
Per silvani, el sparsi rorobant sanguino vepros.
Ncc non Tarquinium eiectum Porsena iubebal
Accipcre, ingenlique urbein obsidione prcmebal;
Aeneadac in ferrimi prò libcrtale ruebanl.
Illuni indignami simdem, similemque minanti
Adspiceres, ponteni auderet quod veliere Cocles,
El lluvium vinclis innaret Cloelia rupiis.
In summo custos Tarpeiao Manlius arci»
Slabal prò tempio, el Capilolia celsa lenebal,
Romuleoque rcrcns horrebul regia culmo.
Atque lue aurati* volilans argenteus auscr
Poriicibus, Gallo* in limine adesso, canebat;
Galli per dunios aderant, arcemque Icticbanl,
Defunsi tenebri* et dono noctis optiate:
Aurea cacsaries ollis, atque aureo vesti*;
Virgalis lucent sagulis; tum lactea colla
Auro innectuntur; duo quisque Alpina coruscant
Gaesa marni, sculis proietti corpora longis.
Hic e.vsullanles Salios, nudosque Lupercos,
l.anigerosque apices, et lapsa ancilia coclo
Exluderai; castac ducebanl sacra per urbem
Pilentis inalres in mollibus. llinc procul addit
Tarlarcas eliam sedes, alta ostia Ditis,
Et sceleruin pocnos, el te, Calilina, minaci
Pendentem scopulo, Furiarumque ora Irenienlem;
Secrelosque pios; bis dantem lura Caloncm.
Ilacc inter tumidi late mnris ibat imago
Aurea: sed (luclu spumabanl caerula cono;
Et circum argento clari dclphines in orbem
Acquora verrebant caudis, aestumque secabanl.
In medio classes aerala*, Aclia bella,
Cernere eral; toluuique inaimelo Marte videres
Fervere Leticateli, auroque eiTulgcre fluclus.
llinc Augustus ageus italo* in proelia Ci» osar
Cuni Palribus, Populoque. Penolibus et magnis dt>,
Slans celsa in puppi: geniinas cui (empora flammas
Laeta vomunt, pairiumquc aperitur vertice sidus.
Parie alia venlis et di* Agrippa secundis
Ardutis agmen agcns: cui, belli insigne suporbum,
Tempora navali fulgcnt rostrata corona,
llinc opc barbarica variisque Antonius armis,
Victor ab Aurorae populi* el liiore rubro,
Aegyptum, viresque Oricmis, el uliima secum
Borirà vehil; sequiturque, nefas Acgyplia corrioni.
Ina omnes ruere, ac lolum spumare, reduclis
Convulsum reniis rostrisque Irideulibus, aequor.
VlRf.ll.lO VOL. UMICO
Maravigliando al fin sopra a lo scudo
Si ferma, e l' indicibile artificio,
Ond' era intesto, e l' argomento esplora.
In questo di commesso c di rilievo
Area fallo de' fochi il gran maestro
( Como de' vaticini! c del futuro
Presago aneli' egli ) con mirabil arte
Le battaglie, i trionfi e i fatti egregi
D' Italia, de’ Romani c de la stirpe
Che poi scese da lui. Dal figlio Ascauio
Incominciando, i discendenti lutti
E le guerre che fèr di rnano in mano
V avea del Tebro in su la verde riva
Finta la marnai nudrice lupa
In un anlro accosciata, e i due gemelli
Che da le poppe di s) fera madre
Lascivelli pendean, senza paura
Seco scherzando. Ed ella umile e blanda
Stava col collo ili giro, or I* uno or I’ altro
j Con la lingua forbendo e con la coda.
V era poco (olitati Roma novella
Con una pompa, e con un circo avanti
Picn di tumulto, ov* era un’ insolente
(tapina di donzelle, un darsi a l’ orme
Infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi.
E poscia infra gli stessi regi armali
Di Giove anzi a l'altare un tener tozze
In vece d’ armi in mano, un ferir d’ ambe
Le parli nn porco, c far connubi! e pace.
Nè di qui (unge, erano a quattro a quattro
Giunti a due carri otto destrier feroci,
Che qual Tulio imponea (stato non fossi
Tu sì mendace c traditore, Albano,)
III due parti Iraean di Mczio il corpo;
i E si coni* era tratto, i brani e T sangue
Ne moslravan le siepi, i carri e 'I suolo.
Vera, olirà a ciò, Porsenna, il rege Etrusco
Ctr imperiosamente da I’ esigilo
Rivocava i Tarquioii, e’n duro assedio
Ne tenca Roma clic del giogo schiva
S' avventava nel ferro. Avea nel volto
Scolpito questo re sdegno e minacce,
E meraviglia, che sol Code osasse
Tener il ponte; e Clelia, una donzella,
Varcar il Tebro, e scior la pairia e lei.
In cima de lo scudo il Campidoglio
Era formato, e la Tarpeia rupe,
E Manlio che del tempio e de la rócca
Stava a difesa; e la Romulea reggia
Che 'I comignolo avea di stoppia ancora.
Tra* portici dorali iva d’ argento
L’ ali sbattendo e schiamazzando un' oca
Ch’ aprin de* Galli il periglioso agguato :
E i Galli per le macchie e per le balze
De Feria ripa, da la buia notte
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DELI/ ENEIDE
1*2
Alla pelunl: p lago crcdas limare revulsas
Cycladas, aut moules concurrere monlibus allo*:
Tania mole viri lurrilis puppilms instarli.
Sluppea damma marni lelisque volatile fcrruni
Spargilur; arva nova Nrplunia cacde rubescunl.
Regina in mediis pairio vocat agmina sislro;
Necdum ctiam geminos a tergo rcspicil angues;
Omnigcnfìmquc deòin monstre, et lalralor Anuliis,
Conira Nopluniim, el Venerem, conlraquc Minervam
Tela lenenl. Sacvil medio in cerlaminc Mavors
Caelalus ferro, Irislesque ex aelticrc Dirae;
Et scissa gaudens vadil Discordia palla;
Quam oum sanguineo sequilur Bellona dagello.
Aclius haec cernens arcum inlendebal Apollo
Desuper: omnis eo lerrore Aegyptus, et Indi,
Omnia Araba, omnes verlebant lerga Sabaei.
Ipsa videbalur ventis regina vocatis
Vela dare, et laxos iam iomquc immilli' re funcs.
Ulani inler carde* paUcnlrm morie futuro
Fecerat ignipolens undis et lapygc ferri;
Conira aulem magno mocrrulem corpore Nilum,
Pandenlemque siuus, cl loia veste vocauleni
Caerulcum in gremium lalebrosaquc fluniina vicloa.
Al Caesar, triplici iitvcclus Romana Iriumplio
Moenia, db llalis votimi immortale sacrabat,
Maxima tcrcenlum lolarn delubro per Urbem.
Laelilia ludisque viae plausuque fremebaul;
Omnibus in leniplis inalrum eborus; omnibus arac;
Ante aras terram coesi shavcrc iuvenci.
Ipse, sedens niveo cuudeiilis limine Phoebi,
Dona rccognoscil populorum, aplalque superbis
Poslibus: incedunl vicine lungo ordine genles,
Quam variae linguis, babilu (ani veslis et armis.
Ilic Noinadum gcnus et discinclos Muleiber Afros,
llic l.elrgas Carasque sagitliferosque Gelonos
Finterai; Euphrates ibal iam mollior undis,
Evtrcmique hominum Morini Rlienusque bicorni*;
Indomitique Daliae, et ponlcm indignalus Araxes.
Talia per clipeum Vulcani, dona parenlis,
Miralur, rerumque ignarus imagine gaudel;
Allollens Rumerò faniaiuque el fata nepoluui.
Difesi, quatti quatti erano in cima
Ciò de la ròcca ascesi. A venti le chiome,
Avean le barbe d’oro : aveano i sai
Di lucid’ ostri divisali a liste,
E d* òr monili a ► bianchi colli avvolti.
Di forti alpini dardi nvea ciascuno
Da la destra una coppia, c ne’ pavesi
Slavati co i corpi rannicchiali e cimisi.
Quinci de’ Solii c de’ Luperei ignudi,
E de’ greggi de’ Flamini scolpilo
V'avea le tresche e i camici e i Iripudii,
Ed essi lutti o coi lor fiocchi in lesta,
0 con gli ancili, o con le tibie in mano :
Cui le sacre carrette ivano appresso
Coi santi simulacri e con gli arredi.
Clic tracan per le vie le madri in pompa.
E piò lunge nel fondo era la bocca
De la Tartarea tomba, c del gran Dite
La reggia aperta : ov' anco orati le pene
E i castighi de gli empii. E quivi appeso
Slavi tu scellerato Calilina,
Sopra d’ un ruuioso acuta scoglio
A gli spaventi de le Furie esposto.
E scevri eron da questi i fortunali
Luoghi de* buoni, a cui *1 buon Calo è duce.
Gonfiava in mezzo una marina d’ oro
Con la spuma d’ arginilo, c con delfìni
D’ argentino color, clic con le code
Givan guizzando, e cou le schiene in arco
Gli aurati flutti a loco a loco aprendo.
E i liti c ’l mare e T promontorio tulio
Si vedea di Lcucalc a l’ Azia pugna
Slar preparali ; c d una parie Augusto
Sovra d' un* alta poppa aver d’ itilo/ no
Europa, Dalia, Roma c i suoi Quiriti,
K’I Senato e i Penali e i grandi iddìi.
Di Ire stelle il suo volto era Incelile,
Due ne facca con gli occhi, ed una sempre
Del divo padre ne portava in fronte,
Ne l’ altro corno Agrippa era con lui.
Del marittimo stuolo invino duce,
Ch’alierò, e'I capo alteramente adorno
De la rostrata sua naval corona,
1 venti e i numi avea fausti e secondi.
Da 1‘ altra parie vincitore Anlonio
Di vèr P aurora c di vèr 1* onde rubre
Barbari aiuli, esterne nazioni
E diverse armi dal Calaio al Nilo
Tulio avea seco P Oriente addotto :
E l' Egizia moglie era con lui.
Milizia infame. Ambe ic parti mosse
Se uè glan per urlarsi, c d* ambe il mare
Scisso da’ remi c da stridenti rostri
Lacero si vedea, spumoso e gonfio.
Prcndean de l’alto i legni in Ionia altezza
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LIBRO OTTAVO
183
Clic Cicladi con Cicladi divelle
Parean nel mar gir a incontrarsi, o'n Icrra
Monti con monti : di si ralle moli
Avvenlavan le grilli c foco c ferro,
Onde il mar ludo era sanguigno c roggio.
Slava qual Iri la regina in mezzo
Col patrio sistro, c co’ suoi cenni il molo
Dava a la pugna: e non vedea (meschina I)
Quai due colubri le veniali da tergo.
L’ abbaiatore Anubi c i mostri ludi,
CIP cran suoi dii, contra Nettuno e conira
Venere e Palla armali cran con lei.
E Marie in mezzo, che nel rampo d* oro
Di ferro era scolpilo, or questi or quelli
A la zuffa infiammava : c T empie Furie
Co* lor serpenti, la Discordia pazza
Col suo squarciato ammanto, con la sferza
Di sangue tinta la rrudcl Bellona
Sgoininavan le genti ; c 1* Azio Apollo
Saettava di sopra : a gli cui strali
1/ Egillo c gl' Indi e gli Arabi e i Sobri
Dava» le spalle E già chiamare ì «enti.
Scioglier le funi, inalberar le vele
Si vedea la regina a fuggir «òlla.
Già del pallor de la futura morte,
Oik!' era dal gran fabbro il vollo aspersa,
In abbandono a Tonde, e de la Puglia
Ne giva al vento. Avea d' incontro il Nilo
Un vasto corpo, die sman ilo c mesto
Avvinti aperto il seno c steso il manto,
I latebrosi suoi ridotti offriva.
Cesare v'era ollln, clic trionfando
Tre volle in Roma entrava; e per Irerento
Gran tempii a'nostri dii voli immortali
Si vedean ronsccrnti. Eran le strade
Piene tulle di plauso, di letizia,
E di feste e di giuochi. Ad ogni tempio
Concorso di matrone, ad ogni altare
Villimc, incensi c fiori. Egli di Febo
Anzi al delubro in inaeslade'assiso
Riconoscca de' popoli i tributi,
E la candida soglia e lo superbe
Sue porle ne fregiava. Iva la pompa
De le genti da lui domate inlanlo
Varie di gonne, d'idiomi c d'anni.
Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera
In abito discinta; ivi un drappello
Di Lclegi, di Cari e di Geloni
Con archi e strali. Itifin da i liti estremi
I ftlorini condoni erano al giogo
E gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio
Giva TEufrale: ambe le corna fiacche
Portava il Reno: disdegnoso il ponte
Nel dorso si scolea TArmenio Arasse.
A tal da lauta madre avuto dono,
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DELL’ ENEIDE
m
E d'nn lardo macero Enea mirando,
Benché il velame del futuro occulte
(Ili tenesse le cose, ardire e speme
Prese e gioia a vederle; e de'nepoti
La gloria e i fati a gli omeri s'imposc.
LIBRO NONO
Atipie ca diversa ponilu* dum parte gcrunlur,
Irlm de coelo misi! Saturnia Inno
Audacem ad Turnurn. Luco tum forte parentis
Pilumni Turno* sacrata valle scd»*bat
Ad quem sic ro*co Tliaumantins ore locuta est:
Torno, quod optanti divtìm promittere nomo
A u derei, volvenda dies, en, attulit nitro !
Acneas, urbe, et soeiis, et classe rclirln,
Sceplra Palatini sedemque petit Kvnndri.
Nec salisi extremai Corythi penctravit ad urbe»;
Lydorumque mnnnm, collectos armai agrcBtcs.
Quiddubilas? Nunc tempus equos, nunc poscere
eurrus.
Rumpc moras omnes. et turbata orripe castra.
Disi!, et in coclnm paribus se suslulit alis;
Ingentomque fuga secuit sub niiliibns arcum.
Agitovi t iuvenis, dnplicesquc ad sidero palmas
Suslulit, et tali fugientem est voce secuius:
tri, dccus coeli, quis te niihi nubibus actnm
Dciulil in terras ? linde linee tam clara repente
Tempesta»? Medium video discedere coelum.
Palanlesquc polo stellas. Seqnor omino Ionia,
Quisquis in arma vocas. Et sic cITalus od undnm
Processil, sumnioque limisi! de gorghe lymplias,
Multa deos orans; oncravitque acltiera volis.
Mentre cosi da' suoi scevro e lontano,
Enea fa d’armi c di sussidii acquisto,
ili uno di concitar la furia c l ira
Di Turno unqua non resta. Erasi Turno,
Col pcnsier de la guerra al sacro bosco
Di Pilunno suo padre nllor ridono,
die mandala da lei di Taumanlc
fili fu la figlia in colai guisa a dire:
Ecco, quel che lu mai chiedere a lingua,
0 ’mpotrar da gli dei, Turno, poiessi,
Per se l'occasion li porge e ’l tempo. •
Enea, mentre da gli altri implora aita,
Le sue mura, i suoi legni e le sue genti
Lascia ora a le, se lu ’l conosci, in preda,
Ki co i migliori al Palalino Evandro
Se ifè passalo, e quindi è tic l’est remo
Penetrato d’Klruria. Ora è nel campo
De* Lidi, c favvi indugio, cd arnia agresti.
E lu qui baili, or che di carri c d’armi
E di preslesza è d'uopo? E che non prendi
1 suoi steccati, che sori or di tanto
Per l'assenza di lui turbati c scemi?
Poscia che cosi disse, allo su l'ali
La dea levossi; c Ira l'opachc nubi
Per entro al suo grand'arco ascese c sparve,
Turno che la conobbe, ambe alle stelle
Alza le palme; c nel fuggir con gli occhi
Soguilla c con la voce: Iri, dicendo.
Lume e fregio del ciclo, e chi li spiega
Or da le nubi? E chi qua giù li manda?
Ond’è l'aer si chiaro c sì tranquillo
Cosi rcpenlc? lo veggio aprirsi il cielo,
Vagar le stelle. 0 qual tu de'cclcsli
»
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LIBRO NONO
m
lamquc omnis campis exercilus ibat operila,
Divcs equum, dives piclai veslis el auri.
Messa pu s primas acics, postrema coèrcent
Tyrrhidae iuvenes; medio dui ogminc Turnus,
[ Verlilur orma lenona, el loto vertice supra csl ]
Ccu septem surgens sedalis omnibus alius
Per lacilum Gangcs, aul pingui Rumine Nilus
Quum refluii campis, el iam se condidil alveo.
Ilic subitarn nigro glomerari polvere nubem
Prospiciunl Teucri, ac tenebras insurgerc campis.
Primus ab adversa conclamai mole Caì'cus:
Quis glnbus, o rives, caligine volvitur atra ?
Ferie cili fermai, dote tela, scandite murns !
Ilostis adesl, eia. Ingenti clamore per omnes
Condunl se Teucri porlas, el moenia complent.
Namque ila discedens proeceperal optimus armi»
Aencas: si qua inlerea Fortuna fuissel,
Neu slruere auderent aciem, neu credere campo;
Castra modo el lulos scrvarenl agrore muro».
Ergo, elsi con Terre manum pudor iraque monslral,
Obiiciunl portas lamen, el praecepta facessunl,
Armalique cavia exspeclanl lurribus hoslem.
Turnus, ut ante volans lardum praecesserat agmen,
Vigilili leclis equilum comilatus et urbi
Improiisus adesl: maculis quem Thracius ni bis
Portai equus, crislaquc legil galea aurea rubra.
Ecquis crii, mecum, iuvenes, qui primus in lioslcm ?
En, ail: el iaculum allorquens cmitlit in auras,
Principium pugnae, el campo scse arduus inferi.
Clamore excipiunt sorii, fremituque sequuntur
Ilorrisono; Teucrùm miranlur incrtia corda;
Non acquo dare se campo, non obvia Terre
Arma virus, sed castra fovcre. Hoc lurbidus alque bue
Lustrai equo rnuros, adilumque per avia quacril.
Ac velini pieno lupus insidiata* ovili
Quum fremii ad caulas, ventos perpessus et imbres,
Nude super media; tuli sub malribus agni
Ralalum exercenl; ille asper et improbus ira
Sacvil in abscntes; colicela Alligai edendi
Ei lungo rabics, el siccae sanguine fauces:
llaud aliler Itatulo, rnuros el castra luenli,
Igncscunl irac; duris dolor ossibus artici;
Qua tentet ralione adilus, et quac via clausos
E.vculial Tcucros vallo, alque cflundal in acquor.
Classem, quac latori caslroruni adiuncla latebal,
Aggeribus scptnm circum el fluviaiibus uiulis.
Invadi!, sociosque incendia* poscil ovantes:
Alque munum pino flagranti fervidus implcl.
Tum vero incumbunl; urge! praesentia Turni;
Alque omnis faeibus pubes accingitur atris.
Sii, eira Tarmi m'invili; io lieto accetto
Un tanto augurio, e lo gradisco e ’l seguo.
Così dicendo, al fiume si rivolse;
N'attinse; se nc sparse; e preci c voti
Molle fiale al cicl porse e riporsc.
Erari già le sue genti a la campagna,
E de'cavalli il condollicr Messàpo
Di ricca sopravvcsla ornato c d'oro
M»vea davanti. I giovani di Tirro
Tcnean Tuliime squadre, c Turno in meno
Con tutto il capo a tutta la battaglia
Soprawanzando, armalo cavalcava
Per l'ordinanza. In colai guisa i campi
Primieramente inonda il Gange, o ’l Nilo
Con sette fiumi; indi ristretta c quelo
Correndo, entro al suo letto si raccoglie.
Qui d’improvviso d’un oscuro nembo
Di polve il cicl ravvilupparsi i Teucri
Scorgon da lungo, c ’nlorbidarsi i campi.
Calco il primo da l'avversa mole
Gridando, 0, disse, cittadini, un gruppo
\ér noi di polverìo nc laura ondeggia.
Ognuno a Tarmi; ognun a la muraglia:
Ecco i nemici. Di ciò corre il grido
Per tutta la città: cliiuggon le porle:
Empiuti le mura. Tale avea partendo
Dato il sagace Enea precetto e nonna,
Cb’in caso di rottura a campo aperta
Senza lui non s’ardisse o spiegar schiere,
0 far conflitto; c solo a la difesa
S'attendesse del cerchio. Ira c vergogna
Gli animava a la ruffii; editto e tema
Gli ritmica del duce. Ond’eolro armati
Ne le torri, in su'merli c ne'ripari
Aspettalo i nembi A lento passo
Procedca l'ordinanza; c Turno a volo
Con venti eletti cavalieri avanti
Si spinse, c d’improvviso appresenlossi.
Cavalcava di Tracia un gran corsiero,
Di bianche macchie il vario tergo asperso,
E ‘I suo dorato 6 luminoso elmetto
D'alto cimier copria cresta vermiglia.
Qui fermo: dii di voi, giovani, disse,
Meco sarà conira i nemici il primo?
E quel ch’era di pugna indizio c segno,
L'asta a l'aura avventando, alteramente
Trascorse il campo, ed ingaggiò bullaglia.
Con alte grida e con orribil voci
Fremendo lo seguirò i suoi compagni,
Non senza meraviglia diesi vili
Fossero i Teucri a non osar del pari
Uscirgli a fronte, non moslrarsi in campo,
Ferir da lungo, e di muraglia armarsi.
Turno di qua di lù turbalo c fiero
Si spinge, e scorre il piano, e cerchia il muro.
*
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DELL* ENEIDE
Diripuerc focos; pimiro feri tumida lumen
Tacda, et commixtam Vulcanus ad astra favillarci.
Quis deus, o Musar, lam saeva incendia Teucris
Averti! ? tanlos ratibus quis deputi! ignes ?
Iiicitc. Prisca fides facto, sed fama pcrennis.
Tempore quo primum Piirygia formabili in Ida
Acneas classerò, et pelagi potere alla parabai,
Ipsa dc&m fertur genilrix Berccyntia magnum
Vocibus bis affala tovcm: Da, naie, petenti,
Quod tua cara parrns domilo te poscil Olympo.
Pitica silva mihi, multos dilecta per anno*:
Lupus in aree fui! summa, quo sacra ferebant,
Migranti picea Irabibusque obsrurus accrnis:
Has ego bardanio imeni, quum classis cgercl,
bacia dedi; nunc sollicitam timor anxius urget.
Solve melus, alque hoc precibus sinc posse parcntem,
Ne cursu quassalac ulto neu turbine venti
Vincaulur. Prosit noslris in montibus ortas.
Filius buie conira, lorquet qui sidcra mundi:
0 genctrix, quo fata vocas ? aut quid polis istis ?
Blorlalinc manu faclac immortale carinae
Fas babeunt ? ccrtusque incerta pericula Udirci
Acneas ? Cui tanta dco permissa polestas?
Immo, ubi defunclac finem porlusquc tenebunl
Ausonios olim, quaecunque evaseril undis,
bardaniumque ducem Laurcntia vexerit arva,
Moriuletn eripiam formam, magnique iubebo
Acquoiis esse deas: qualis NercTa bolo
Et Galaica secant spumantem pectore ponlum.
Divorai: idquc ralum Slygii per ilumiiia fratria,
Per picc lorrenlcs alraque voragine ripas,
Adnuil, et nutu lotum tremefecil Olympum.
E d’entrar s'argomcnla ov’ancbc è chiuso.
Come rabbioso ed affamalo lupo
Al pieno ovile insidiando, freme
La notte, al vento ed a la pioggia esposto;
Quando sotto le madri i puri agnelli
Rclan sccuri, ed ei la fame e l'ira
Incontro a lor, che gli son lungo, accoglie;
Cosi gli occhi di foco e *1 cor di sdegno
Il llutulo infiammato, anelo e Doro
Va de’ nemici agli steccali intorno.
Ogni loco, ogni astuzia, ogni sentiero
Investigando, onde o co* suoi vi salga,
0 lor ne sbuchi, e ne gli tiri al piano.
Al fin l’ armala assaglie, eh* a' ripari
Da l’ un canto cotigiunla, entro un canale
U’ onda e d* argini cinta, era nascosta.
Qui foco esclama, e foco di sua mano
Con un ardente pino a’ suoi seguaci
Dispensa, e lor con la presenza accende :
Ondo (osto c le faci e i legni appresi.
Fumo, fiamme, faville c vampi e nubi
E volumi di pece al ciel li* andaro.
Bluse, ditene or voi qual nume allora
Scampò de* Teucri i legni, e come un lanlo
De la novella Troia incendio estinse.
Fama di tempo in tempo e prisca fede
IN' avvera il fallo, e voi conto ne ’l Tate,
bicon clic quando a navigar coslrello
Enea primieramente i suoi navilii
A formar cominciò nel bosco Ideo ;
D* Ida di Bcrecioto e de gli dei
La madre, al sommo Giove orando, disse :
Figlio, che sei per me de I* universo
Monarca eterno, a me tua cara madre
Fa quel eli’ io cliieggio, e lu mi devi, onore.
E nel Gargara giogo un bosco in cima
Da me diletto, cd al mio nume addillo
Già di gran tempo. Era d abeti c d’aceri
E di pini c di peci ombroso c denso :
Ma quando de l'armata ebbe uopo in prima
Il giovine Troiano, al magistero
Volenlicr de suoi legni il concedei.
Quinci uscir le sue navi ; e come figlie
Di quella selva, a me son sacre c care
SI eli’ or nc temo ; c del timor clic n’ aggio
Priego che m' associmi ; c ’l priego mio
Questo possa appo a le, che lanlo puoi,
Clic nè da corso mai, nò da fortuna
Sian di venti, o di flutti^ c di tempesto
Squassale o vinte ; e lor vaglia ohe nato
Son ne' miei monti. A cui Giove rispose :
Madre, a che stringi i Fati ? E qual, per cui
Cerchi lu privilegio ? A mortai cosa
Farò dono immortale ? E mortai uomo
Non sarà sottoposto a' risolti umani ?
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LIBRO NONO
187
Ergo adorai promissa dies, et tempora Parcae
Debita complerant: quum Turni iniuria Malrcm
Admonuil, ratibus sacris depcllere lacdas.
Hic primum nova lux oculis ofTulsil, et ingens
Visus ab Aurora coelum transcurrere uimbus,
Idaeiquc chori; lum vox borrendo per auras
Excidit, et Trouro Rultilorumque agniino compiei.
Ne trepidale meas, Teucri, derendere uatea:
Ne\e armate manus; maria ante cxurere Turno,
Quam sacras dabitur pinus. Vos ite aolulac,
Ile, deac pelagi ! Genelrix iubet; et sua quaeque
Continuo puppcs abrumpunt vincula ripis,
Delpliinumque modo demersis aequora roslris
Ima pclunt. (line virgineae ( mirabile monstrum ),
Quol prius aeratae sleleranl ad lilora prorae,
Heddunl se tolidem facies, ponloque ferunlur.
Obslupucre animis Rutuli; contcrrilus ipse
Turbalis Messapus equis; cunctatur et amnis
Rauca sonans, revocolquc pedem Tiberinus ab allo.
Al non audaci cessi! fiducia Turno;
llltro animos tollit diclis, atque increpat ultro:
Troianos haec monslra petunt; bis lupitcr ipse
Auxilium solilum eripuii; non tela, ncque ignes
Ex speda ni Rululos. Ergo maria invia Teucris,
Ncc spes ulta fugar; rcrum pars altera adcmta est:
Terra aulem in nostris manibus; tot millia gentes
Arma ferunl llalae. Nil me fatalia terreni,
Si qua Phryges prae se iactant, responsa deorum.
Sai fatis Venerique dalum, tcligere quod arva
Fertili* Ausoniae Trocs. Suoi et mea contro
Fata mihi, ferro scclcratam exseindero gentem,
Coniuge pracrcplu; ncc solos tangil Atridas
Iste dolor; solisque licei capere arma Mycenis.
Scd pcrilsse semel salis est. Peccare fuissel
Aule satis, pcnilus modo non gcnus onine perosos
Fcmineum. Quibus hacc medii fiducia valli,
Eil a qual de gli dei Ionio è permesso ?
Piti tosto allor clic saran giunte al (ine,
E che in porlo saranno, a quelle tutte
Clte scampale da I* onde il Teucro duce
Avrati ne* campi di Laurento esposto,
Torrò la mortai forma, e dee farollc,
Che qual di Néreo e Dolo e Cubica
Fendali co’ petti c con le braccia il mare.
Così detto, il torrente c la vorago
E la squallida ripa e 1* atra pere
D* Acheronte giurando, abbassò 'I ciglio,
E fé* tutto tremar col conno il mondo.
Or questo era quel dì, quest’ era il Uno
Da le Parche dovuto a i Tourri legni :
Onde lo madre Idèa conira V oltraggio
Si fé* di Turno, e gli sottrasse al foro.
Primieramente inusitata luce
Balenando rifulse. Indi un gran nembo
Di Coribanli per lo ciel trascorse
Di vèr l’Aurora ; ed una voce udissi
Gir empiè di meraviglia e di spavento
L’ uno esercito c 1’ altro : 0 miei Troiani,
Dicendo, non vi caglia a' miei novilii
Porger soccorso ; nè perciò nel campo
Uscite a rìschio. Arderà Turno il mare
Pria che le sacre a ntc dilette navi.
K voi, mie novi, itene sciolte; e dee
Siale del mare. Io genitrice vostra
Lo vi comando. A questa voce in quanto
Udissi a pena, s* allentar le funi
De* lor ritegni; c di delfini in guisa
Co i rostri si lufTaro. Indi sorgendo
( Mirabil mostro ! ) quante a riva in prima
Eran le navi, tante di donzelle
Si vider per lo mar sereni aspetti.
Sgomentanti i Rutuli; e Messàpo
Co* suoi cavalli attonito fermossi.
Il padre Tibcriu roco mugghiando
Dal mar fuggissi. Nè perciò di Turno
Cessò I’ audacia, anzi via più feroce.
Gli altri esortando e riprendendo, Ah, disse.
Di che temete ? Incontro a i Teucri stessi
Vengon questi prodigii; e loro ha Giove
De le lor forze esausti. Il ferro e *1 fuoco
Non aspellan de* Rululi : han del maro
Perduta e de la fuga ogni speranza.
Essi del mare infino a qui son privi ;
E la terra è per noi : tante son genti
D' Italia in arme. Nè lem' io de* vanti
Che de’ lor vaticinii e de’ lor fati
Da lor sì dànno. Assai de' Tati, assai
È l’ intento di Venere adempito,
Che son nel Lazio. E ’nconlro a i futi loro
Son anco i miei, clic lor del Lazio iodeggia,
Anzi del mondo questi scellerati,
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DELL' ENEIDE
18S
Fossarumquc inorar, Ioli discrimina parva,
Daul anintos. Al non viderunt inocnia Troiuc
Arpioni fu brini In marni considero in ignes?
Sod vo.% o lodi, ferro quis scindere valium
Apparai, et mcrum invadil iropidanlia castra ?
Non armis milii Vulcani, non mille carini*
Est opus iu Teucros. Addant se protenus omnos
Finisci socio*. Tenebras cl inerita furia
| Palladii, caesis summac rustodibus aicis)
Ne limoanl; nec equi cacca condemur iu alvo,
Luce, paloni, corlum osi igni ci re umd a re inuros.
I lami .-ibi rum Danais rein favo d pube Pelasga
Esse piitent, dccinium quos dislulil llcclor in annum.
None adco, melior quoniam pars acla dici,
Quod superesl, Indi bone geslis corpora rebus
Procurale, viri, el pugnain sperale parali,
lulerea vigilimi cxcubiis obsidcre porlas
fura dalur HI essa po, ol moenia cingere llammis.
Ilis seplcm, Rullilo muro* qui milite ameni,
Deledi; ast illos ccnleni quemque sequuuiur
Purpurei crislis iuvenes auroque corusei.
Disdimmi, varianlquc vice», fnsique per licrbam
Imlulgeut vino, d verlunt craleras acnos.
Collucenl ignes: nodem custodia ducil
lusonmeni ludo.
Ilare super e vallo prospeclanl Troes, el armis
Alla lenoni: ncc'non trepidi formidiuc porlas
Fxploraul, poulesque et propugnando iungtinl,
Tela gerunt. Inslanl Mneslhcus acerquc Scrcstus:
Quos pater Aenras, si quando ndversa vocarent,
lleclores iuvenum et rerum dedii esse magislros.
Omnis per muros legio, sortila pcriclum,
Excubal, exereelque ficea, quoti cuique luendum csl.
De Palimi donne usurpatori e drudi :
Gilè obli solo gli Atridi, c non solo Argo
N*hon duolo e sdegno. Oli ! basta ch'uni volta
Ne son periti. SI, se lor bastasse
D' aver in ciò sol una volta erralo.
Nuovo error, nuova pena. Or non aranuo
Ornai quest* infelici in odio afTallo
Le donne tutte, a (al di già condoni,
Clic non bau de la vita altra fidanza,
K questo poco e debile steccalo
Clic da lor ne divide ? E (auto a pena
Son lungc dal morir, quanto s* indugia
A varcar questa fossa. In ciò riposto
llan la speme e l'ardire. 0 non bau visto
Le mura anco di Troia, che costrutto
Pur per man di Nettuno, a terra sparso
E ’n cenere converse ? Ma chi meco
Di voi, guerrieri eletti, i che s' accinga
D’ assalir queste mura e queste genti
G*à di paura offese ? A me lor conlra
l>* uopo non son nc Farmi di Vulcano,
Nè mille navi. E vengane pur tutta
L* Elruria insieme. E non furtivamente,
Pi non di notte, coinè fanno i vili,
Il Palladio involando, e de la ròcca
I custodi uccidendo, assalirgli ;
Nè del cavallo ne P oscuro ventre
Mi appiatterò. Di giorno apertamente
I)' armi e di foco ringerogli iu guisa
Ch* altro lor sembri, ebe garzoni e cerne
Aver di Greci c di Pelasgi intorno,
Di cui P assedio inlino al decim' anno
Eltor sostenne. Or poscia clic del giorno
S* è buona parte inaino a qui pas-ala
Felicemente, il resto che n* avanza
Attendete a posarvi e ristorarvi,
A disporvi a P assalto; e ne sperale
Lieto successo. Indi a Mcssàpo incarco
Si dà, che sentinelle e guardie e fochi
Disponga anzi a le porle e 'nlorno al muro.
Ei selle e selle capitani egregi,
Hululi lutti, a quest* impresa elesse,
Con cento che n* avea ciascuno appresso
Di purpurei cimieri ornali c d* oro.
Questi, le mule variando c Poro,
Scorrevano a vicenda ; e ’ntorno a* fochi
Desti in su V erbe, infra le lazze c V urne
Traean la notte in gozzoviglie e ‘n giuochi.
Slavano i Teucri il campo rimirando
Da la muraglia ; e per timore armali
Visitavan le porle, e ’n su' ripari
Pacean bertesche e sferraloie c ponti.
Era Mneslco lor sopra e 'I buon Sereslo,
Che fur dal padre Enea nel suo partire
A guerreggiar, se guerra si rompesse,
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A
LIBRO NONO
180
Nisus crai porlac cuslos, accrrimus armis,
llyrlacides; comilem Aencae quem miserai Ida
Venatrix, iaculo cclcrcm ievibusque sagiliis:
£l iuxta comcs Euryalus, quo pulchrior allcr
Non fuit Aeneadtim, Troiana ncque induil arma;
Ora pucr prima signans intonsa iuvcnla.
His amor unus croi, pariicrque in bella ruebonl;
Tum quoque communi portam stallone tenebanl.
Nisus ail: Dine hunc ardorem mcnlibus addimi,
Euryatc, an sua cuìque deus (il dira cupido ?
Ani pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum
Mcns agitai mihi; nec placida contenta quiete est.
Cernis, quae Rutulos habcal fiducia rerum.
Lumina rara micant; sonino vinoque scpulli
Procubucrc; silent late loca. Percipe porro,
Quid dubitem, et quae nunc animo sententia sorgo!.
Aencan occiri omnes, populusqiie patresque,
Exposcunl, miltìque viros, qui certa rcporlent.
Si t'bi, quae posco, promittunt, (narri mihi facli
Fama sai est); tumulo videor reperire sub ilio
Posse viam ad muros et mocnia Pallantea.
Obslupuil magno taudum pcrcussus amore
Euryalus; simul bis ardentem afTatur amicum:
Mene igilur socium summis adiungere rebus,
Nise, fugis ? solum le in tanta pericula mitlam ?
Non ita me genitor, bcllis assuelus, Ophelles,
Argolicum tcrrorem inter Troiacquc lubores
Sublalum erudii!: nec lecum (alia gessi,
Magnanimum Aenean et Tata extrema sccutus.
Est bic, est animus lucis contemlor, et istuni
Qui vita bene credal emi, quo (endis, honorem.
Nisus od liacc: Equidcm de tc nil tale vcrebar;
Nec fas; non. Ila me rererat libi magnus ovantem
Iupiter, aut quicunquc oculis hacc adspirit aequis.
Scd si quis (quae multa vides discrìmine tali),
Si quis in adversum rapini casnsve deusve,
To supercsse velim; tua vita dignior oetas.
Sii, qui me raptum pugna, prclioTe rcdemtum,
Mandcl burno solita; aut si qua id Fortuna vetabit,
Absenli feral inrerias, decorclque sepulcro.
Neu mairi miserac tanti sim cSussa doloris:
Quae te, sola, pucr, raultis e malribus ausa,
Persequilur, magni nec mocnia curat Acestae.
file autem: Caussas nequidquam ncclis inancs,
Ncc mea iam mutala loco sententia cedit.
Acccleremus, ait. Vigile* simul cxcital. liti
Succedunt, servantque viccs; stalione rclicla
Jpsc comcs Niso graditur, regemque requirunt.
Vi ne i no voi. ciuco.
Per condollieri c per macslri eletti.
Già sulle mura, ovunque o da periglio,
0 da la voce eran disposti, ognuno
Tcnca il suo luogo.
Un de’ più fieri in arme,
Niso d* (rtaco il figlio, ad una porta
Era preposto. Da le cacce d’ Ida
Venne costui mandato al Troian duce,
Gran feritor di dardi c di saette.
Eurìalo era seco, un giovinetto
Il più bello, il più gaio c *1 più leggiadro,
Che nel campo Troiano arme vestisse, ;
Gli' a pena avea la rugiadosa guancia
Dei primo fior di gioventute aspersa.
Era tra questi due solo un amore
Ed un volere ; e nel meslier de V ormi
L'un sempre era con l'altro, ed ambi insieme
Stavano attor veggliiando a la difesa
Di quella porta. Disse Niso in prima :
Eurìalo, io non so se Dio mi forza
A seguir quel eli* io penso o se *! pensiero
Stesso di noi fassi a noi forza c Dio.
Un desiderio ardente il cor m* invoglia
D* uscire a campo, c far conira i nemici
Un qualche degno c mcmorabil fatto :
Sì di star pigro c neghittoso abborro.
Tu vedi là come sccuri ed ebbri
E sonnacchiosi i Rutuli si stanno
Con rari fochi e gran silenzio intorno.
L’occasione è bella, ed io son fermo
Di porla in uso : or in qual modo, ascolta.
Asconio, i consiglieri e'I popol lutto,
Per richiamare Enea, per avvisarlo,
E per avvisi riportar da lui,
Cercati messaggi, lo, quando a te promesso
Premio ne sia ( eh' a me la fama sola
Basta del fallo ) di poter m’ affido
Lungo a quel colle investigar sentiero,
Onde a Palladio a ritrovarlo io vada
Securamentc. Eurìalo a tal dire
Stupissi in prima ; indi d' amore acceso
Di tanta lode, al suo diletto amico
Cosi rispose : Adunque ne l’ imprese
Di momento e d' onore io da te, Niso,
Son cosi rifiutato ? E te poss' io
Lassar sì solo a si gran rischio andare ?
A me non diè questa creanza Oreltc
Min genitore, il cui valor moslrossi
Ne gli affanni di Troia, c nel terrore
De l’Argolica guerra. Ed io tal saggio
Non f ho dato di me, lece seguendo
li duro fato e la fortuna avversa
Del magnanimo Enea. Questo mio coro
É spregiatore, è spregiatore aneli’ egli
Di questa vita, e degnamente spesa
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IOO
DELI' ENEIDE
Celerà per lerras omnes animali» somno
Laxabanl curas cl cordo oblila labornm:
Duclores TeucrAm primi, delecla iuventus,
Consilinm summis regni de rebus habebanl,
Quid facerenl, quisvu Acneae ioni nunlius ossei;
Stani iongis adniii hostis, el scula lencnles,
Caslroruin el campi medio. Tum Nisus et una
Euryalus confcslim alacre? admillicr oranl;
Rem magnani, pretiumque morse foro. Primus lulus
Accepil,lrepidos, ac Nisum dicere iussit.
Tum sic Ilyrlacides: Nudile o menlibus aequis,
Acneadae, nere haec noslris speclentur ab annis,
Quae ferimus. Ruttili somno tinoque soluli
Coniicuere; locum insidiis conspcximus ìpsi,
Qui palei in bivio porlae, quae proxima pomo;
Inlcrrupli ignes, alerque ad sidera fumus
Erigilur; si Fortuna pcrmitlilis uti,
Quaesilum Aencan ad moenia Pallantca
Mot hic cum spoliis, ingenti caede persela,
Afrore ccrnelis. Nec nos via fallii eunles;
Vidimus obscuris primam sub valli bus urbcm
Venalu assiduo et totum engnovimus amnem.
Hic annis gravis alque animi maturus Aleles:
Di pairii, quorum seinper sub numine Troia est.
Non (amen omnino Teucros delerc paralis,
La tiene allnr die gloria se ne merchi,
E quel die cerchi ed a me nieghi, onore.
Soggiunse Niso : altro di le concetto
Non ebbi io mai, ni tal sci tu eh' io deggia
Averlo in altra guisa. Cosi Giove
Vittorioso mi ti renda e lido
Da questa impresa, o qual alleo sia nume
Clic propizio e benigno ne si mostri.
Ma se per caso o per desiino avverso
( Come sovente in questi rischi avviene )
io vi perissi, il mio contento in questo
È elle lu viva, si porcili di vita
Son più degni i tuoi giorni, e >1 perch'io
Aggia chi dopo me, se non con I 1 arme,
Almen con l' oro il mio corpo ricovre,
E lo ricopra. E s" ancor ciò m’ è tolto,
A I fi n sia chi d' esequie c di sepolcro
Lontan m' onori. Oltre di ciò, cagione
Esser non deggio a tua madre infelice
D‘ un dolor tanto : a tua madre clic sola
Di tante donne ha di seguirli osalo,
I comodi spregiando e ia quiete
De la città d' Accstc. A ciò di nuoio
F.urialo rispose : Indarno adduci
SI vane scuse ; ed io già fermo e saldo
Nel proposito mio pensier non muto.
AfTrelliamci a l' impresa. E, così detto,
Destò le sentinelle, e le ripose
In vece loro ; c I' uno e l' altro insieme
Se ne partirò, e ne la reggia andaro.
Tutti gli altri animati avean dormendo
Sovra la terra oblio, tregua e riposo
Da le fatiche e dagli affanni loro.
1 Teucri condottieri e gli altri eletti,
Clie de la guerra avean l' imperlo c 'I carco
S' erano c de la guerra e de la somma
Di lutto T regno a consigliar ristretti ;
E nel mezzo del campo altri a gli scudi.
Altri a Faste appoggiati, avean consulta
Di che far si dovesse, e ehi per messo
Ad Enea si mandasse. I due compagni
D‘ essere ammessi e ’ncontanentc uditi
Feccr gran ressa, e di poter sembiante
Cosa di gran momento, c di gran danno
Se s’ indugiasse. A Questa fretta il primo
Si fece Ascanio avanti ; e vólto a Niso
Comandò che dicesse. Egli altamente
Parlando incominciò : Troiani, udite
Discretamente : e quel che si propone
E si dice da noi, non misurate
Da gli anni nostri. I Ruttili sepolti
Se ne stan da la crapula c dal sonno ;
E noi stessi appostalo avemo un loco
Da quella porla che riguarda al mare,
Atto a le nostre insidie, ove la strada
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LIBItO NONO
191
Quum tiiles animos iuvenum et Iam corta tulìblis
Declora. Sic memorans, liumeros deilrasque lenebai
Amborum, et vullum lacrimi» atque ora rigabai:
Quae vobis, quac digna, viri, prò laodibus islis
Pracmia posse rcar solvi ? Pulcherrima primum
1)1 tnoresque dabunl veslri: tum celerà reddel
Actutum pius Aencas, atque inlegcr oevi
Ascanius, meriti tanti non immemor unquam.
Immo ego vos, cui solo salus genitore reducto,
Excipit Ascanius, per magnos, Nise, Pcnates,
Assaraciquc Larefn, ei canae penetrali.! Yeslae
Obtestor (quaccunquc mihi fortuna fidesque est,
In vcslris pono gremiis): revocale parcnlem,
Ilcddile conspeclum; mini ilio triste receplo.
liina dabo argento perfecta atque aspera signis
Pocula, devicta genilor quae cepit A rialto;
Et tripodas geminos, suri duo magna talenta;
Cratera antiquum. quem dal Sidonia Dido.
Si vero capere Italiani sceptrisquc potiri
Conligerit victori, et praedae ducere sortem:
Vidisti, quo Turnus equo, quibus ibat in armis
Aureus; ipsum illum, clipeum cristasque rubcnlcs
Excipiam sorti, iam nunc tua proemia, Nise;
Praelcrca bis sex gcnltor lectissima matrum
Porpora, caplivosque dabil, suaque omnibus arma,
Insuper bis, campi quod rev habet ipse Lalinus.
Te vero, mea quem spatiis propiorìbus netas
Insequilur, venerande pucr, iam pectore loto
Accipio, et coinitem casus compleclor in omnes.
Nulla mcis sinc le qiiaerelur gloria rebus;
Seu pacem scu bella gcrain; libi maxima rerum
Vcrborumque fides. Conira quem talia fatur
Kuryalus: Me nulla dies tam fortibus ausis
Dissimilem arguerìl; tantum: Fortuna sccunda
Aul adversa cadal. Sed le super omnia dona
Unum oro: gcnetrix Priami de gente vetusta
Est mihi, quam miserami lenuit non llia tellus
Mecum excedcntem, non moenia regis Arestac.
liane ego nunc ignaram huius quodcunqnc perieli est
Inquc salutatam linquo; Nox et tua lestis
Devierà, quod ncqucam Incrimos perferre parenti».
Al tu, oro, solare inopem, et succurre relictac.
liane sine me spem ferro lui: audentior ibo
In casus omnes. Percossa mente dederunl
Dardanidae lacrima»; ante omnes pulclter lulus;
Atque animum palriac strinsi ( pictatis imago.
Tum sic effatur:
Spondeo digna luis ingcnlibus omnia coeplis
Namque crii isla mihi genctrix, nomcnqoe Creusac
Solum dcfucrit, ncc partum grafia totem
Parva mane!. Casus factum quicunque sequentur:
Per caput hoc iuro, per quod pater ante solebai:
Quae libi polliceor reduci, rebusque secundis,
Hacc eadem matrique* tuae gcncriquc mancbunl.
Sic ait illacrimans; huroero simul cxuit cnsem
Più larga in due si parie. Intorno al campo
Sono i fochi interrotti : il fumo oscuro
Sorge a le stelle. Se da voi n’ è dato
D’ usar questa fortuna, c quest’ onore
Ne si fa di mandarne al nostro duce ;
Al Pallantéo n* andremo, e ne vedrete
Assai tosto tornar carchi di spoglie
De gli avversari nostri, e tutti aspersi
Del sangue loro. E non fia che la strada
Nc gabbi : chè più volle qui d’intorno
Cacciando, avemo e tutta questa valle
E lutto il fiume attraversato e scorso.
Qui d’anni grave e di pcnsier maturo
Alcte al cicl rivolto, 0 pairii dii,
Disse esclamando, il cui nume fu sempre
Propizio a Troia, pur del tutto spenta
Non volete che sia mercè di voi,
Poscia che questo ardire e questi cori
Ne’ petti a’ nostri giovani ponete.
E stringendo le man. gli omeri c ’l cotto
Or de l’ uno or de l’ altro, ambi onorava,
Di dolcezza piangendo. E qual, dicea,
Qual, gcnorosi figli, a voi darassi
Di voi degna mercede? Iddio , cb’è il primo
De gli uomini e supremo guiderdone,
E la vostra virtù premio a sè stessa
S o primamente. Enea poscia useravvi
Sua largitale, e questo giovinetto
Che d’un tal vostro morto avrà mai sempre
Dolce ricordo. Anzi io, soggiunse luto,
Che, senza il padre mio, la mia salute
Veggio in periglio, per gli dei Penati,
Per la casa d’Asséraco, per quanto
Dovete al sacro e venerabil nume
De la gran Vesta ( ogni fortuna mia
Ponendo, ogni mio affare in grembo a voi )
VI prego a rivocare il padre mio.
Fate ch’io lo riveggia; c nulla poi
Sarà di ch’io più tema. E già vi dono
Due gran vasi d’argento, che scolpiti
Sono a figure; un dc’più ricchi arnesi
Che del sacco d’Arisba in preda avesse
Il padre mio; due tripodi; due d’oro
Maggior talenti, cd un (azione antico
De la Sidonia Dido. E se n’è dato
Tener d’Italia il destato regno,
E che preda sortirne unqua mi tocchi,
Quello stesso deslrier, quelle stesse armi
Guarnite d’oro, onde va Turno altero,
E quel suo scudo, e quel cimier sanguigno
Sottrarrò da la sorte; e di già Niso,
Gli li consegno; c li prometto in nome
Del padre mio, che largiralti ancora
Dodici fra mill’allri delti corpi
Di bellissime donne, c dodici altri
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DELL’ ENEIDE
Aur.iluiu, mira quem feeeral allo i;raon
(ìmtsins, alquc liabilom vagina aplar.il diurna.
Dal Niso Mneslheus pollcm liorrcnlisqiic leonis
Evuvias; galcam fidus perinulal Aiolo*.
Protenns armali incedimi: quus immis ornilo*
Prlmorum manna ad porla* iuienumqnc scnumqiic
Prosequilur votis. Noe non cl pulclier ili in.,
Aulo anno* onimtimquc gerens ouramque virilern.
Multa patri mandala dabal portami*. Scd aurae
Oinnia disccrpunl, cl nubibus irrita donarli.
. Di giovani prigioni, c l'armi loro
Con essi insieme, e di Lalino slesso
l.a regia villa. Or le, mio venerando
Fanciullo, abbraccio, a gli cui giorni i miei
Van più vicini, lo le con lutto il core
Accetto per compagno c por Ira le I lo
In ogni caso; c nulla o gloria o gioia
Procurcrommi in pace unqua od in guerra.
Che non sii meco d'ngni mio pensiero
E d’ogni ben partecipe c consorle;
E ne le lue parole e ne' tuoi falli
Somma speme avrò sempre e somma fede.
Eurialo rispose: 0 fera, o mito
Che forluna mi sia, non sarà mai
Ch'io discordi da me: mai non uguale
Lo mio cor non vedrassi a questa impresa:
Ma sopra a gli altri tuoi promessi doni
Questo solo bram'lo. La madre mia
Che dal ceppo di Priamo è discesa,
E che per me seguire ha, la meschina I
Non pur di Troia abbandonalo il nido,
Ma 'I ricovro d'Acesle, c la sua vita
Slcssa ( a tanti per me l'ha rischi esposta )
Di qucslo mio periglio, qual eli' ei sia,
Nulla ha notizia; cd io da lei mi parlo
Senza clic la saluti, e che la veggia.
Per questa man, per questa nolle io giuro,
J Signor, che nè vederla, nè la picla
Soffrir de le sue lagrime non posso.
Tu questa derelitta poverella
Consola, le ne priego, e la sovvieni
In vece mia. Se lu di ciò m'sflldi,
Andrò con questa speme ad ogni rischio
Con più baldanza. Si commosser lutti
A lai parole, c lagrimaro i Teucri;
E più di lulli Ascanio, a cui sovvenne
De la pietà ch’ebbe suo padre al padre;
E disse al giovincllo: Io mi li lego
Per fede a tulio ciò che la grandezza
Di questa impresa c 'I tuo valor richiede.
E perchè mia sia la lua madre, il nome
Sol di Crei) sa, nuH’altro le manca.
Nè di picciolo merlo è ch'un lai figlio
N’aggia prudono; segua che che sia
Di questo fallo. Ed io per lo mio capo
Ti giuro, per lo qual solca pur dianzi
Giurar mio padre, cli'a la madre lua,
A tutta la lua stirpe si daranno
I doni slessi che serbar mi giova
Pur a le nel felice luo ritorno.
Cosi disse piangendo; c la sua spada,
Clic di mau di Licàonc guarnito
Avea d'avorio il fodro, c l’elsa d’oro,
Dislaccossi dal fianco, e lui ne cinse.
Mncstco al tergo di Niso un (ergo impose
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LIBRO «orso
193
Egressi superarli fossas, noclisque per umbram
Castra inimica pelunl, mullis tamen anle futuri
Exilio. Passim somno vinoque per licrbam
Corpora fusa videnl, arrcclos lilore currus,
fnter lora rolasque viros, sirnul arma tacere,
Yina sirnul. Prior lljrrtacidcs sic ore loculus:
Euryalc, audendum dcxlra. Nunc ipsa vocat rcs.
Uac iler est. Tu, nc qua manus se allollcrc nobis
A tergo possit, custodi, et consulc lungo.
Haec ego vasta dabu, et lato te limite ducam.
Sic memorai, vocemque prendi; simili cnsc suporbum
Rbamnetcm aggreditur, qui forte lapelibus allis
Exstruclus loto profiabal pectore somnum;
Bei idem, et regi Turno gralissimus auguri
Sed non augurio potuil depellere pesiere.
Trcs iuxta famulos temere intcr tela iacenlcs,
Armigerumquc Remi premi!, aurigamque sub ipsis
Cactus equi*; ferroque secai pcndenlia colla.
Tum caput ipsi aufert domino, truncumquc rclinquit
Sanguine singultantcm; atro tepefucta cruore
Terra torique madent. Ncc non Lamyrumque La-
mumque,
Et iuvenom Serranum, illa qui plurima nocte
Luserat, itisignrs facie, mulloquc iacebat
Membra dco victus; felix, si proleous illuni
Aequasset noeti ludum, in luccmque tutissct.
Impastila ceu piena leo per ovilia lurbans;
Suadel cnim vesana fames; mandilque Iraliitquc
Molle pccus mulumque inelu; fremii ore cruento:
Nec minor Euryali caedes: incensila ci ipsc
Perfurit; ac multam in medio sine nomine plcbcin,
Fadumquo, Ucrbesumquc subii, lUioetumquc, Aba-
rimque,
Ignaros; Rhoclum vigilantcm, et cuncla videnlcm;
Sed magnum mcluens se post cratcra tcgebal:
Pectore in adverso lotum cui comminus unsero
Condidit assurgenti, et multa morte recepii
Purpurcum: vomii illc animam, et cum sanguine mista
N ina refcrl moriens: hic furto fervidus instai,
tamque ad Mcssapi socios tendebat, ubi ignem
Dcficere extremum, et religalos rite videbat
Carperò gramen cquos: brcviier quum lalia Nisus
(Scnsil enim nimia caede atque cupidine ferri)
I Di villoso leone; c 1 fido Alclc
Gli scambiò l'elmo. Così tosto armati
Se n’uscir de la reggia; e i primi tulli
Giovani e vecchi in vece d'onoranza
j Fino a la porla con prcconii e voti
Gli accompagnaro. Il giovinetto Inlo
Con viril cura c con pensicr maturi
Innanzi agli anni, ragionando in mezzo
Giva d'cnlrambi; ed or l'uno ed or l'altro
Mollo avvertendo, molle cose a dire
Mandava al padre: le quai lutto al vento
Furon commesse, c dissipale a l'auro.
Escono al fine. E già varcalo il fosso,
Da le notturne tenebre coverti
Si mcllon per la via che gli conduce
Al campo de'ncmici, anzi a la morte.
Ma non morranno, clic macello c strage
Faran di molli in prima. Ovunque vanno
Veggion corpi di genti, che sepolti
Son dal sonno c dal vino. I curri vóti
Con ruote e briglie intorno, uomini cd otri
E tazze c scudi in un miscuglio avvolti.
Disse d'irlaco il figlio: Or qui bisogna,
Eurialo, aver core, oprar le mani,
E conoscere ìl tempo. Il cammin nostro
È per di qua. Tu qui ti ferma, c l'occhio
Gira per tutto, che non sia da tergo
Chi n'impedisca; cd io tosto col ferro
Sgombrerò 'I passo, c l'aprirò ’l sentiero.
Ciò cheto disse* Indi Rannctc assalse ,
Il superbo Rannctc, che per sorte
Entro una sua trabacca avanti a lui
In si* tappeti a grand'agio dormìa,
E russava altamente. Era costui
Al re Turno gratissimo, ed anch’egli
Regc e indovino; ma non seppe il folle
Indovinar quel ch'a lui slesso avvenne.
Tre suoi famigli, che dormendo appresso
Giaccan fra l'armi rovesciati a caso,
Tutti in un mucchio uccise, ed un valletto
Ch'era di Remo, c sotto i suoi cavalli
Lo stesso auriga. A costui trasse un colpo
Che gli mandò giù ciondolone il collo:
Indi al padron di netto lo ricino
Sì, che 'I sangue spicciando d'ogni vena,
La terra, lo stramazzo c 'I desco intrise.
Lamiro cstinse dopo questi c Larno,
E '1 giovine Serrano. Un bel garzone
Era costui, gran giocatore, e ’n gioco
Insino allora nvea sempre veglialo.
Felice lui per lo suo vizio stesso,
Se giocato c perduto ancora avesse
Tutta la notici Era a veder tra loro
Il fiero Niso, qual, da lame spinto,
Non pasciuto Icone, un picco ovile
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DELL' ENEIDE
191
Absistamus, ait; nani lui inimica propinqua!.
Pocuarum eihausluin salii esl; via racla per husles.
Multa virflm solido argento perfeela relinquunl
Armaque, cralcrasquc simili, pulclirosque lapelas.
Eoryalns plialeras Rliamnrlis et aurea bulli»
Cingala, Tiburli llemulo dilissimus olim
Quac niitlit dona, liospilio quum iungerelabscns,
Cacdicus; lite suo morien* dal habcrc in poli;
[ Posi inorleni bello Rullili puguaque pelili ]:
Jlaec rapii, alque humeris nequidquani fortibus apiat
Tuni galeam Messapi habilem crislisque decoram
induil. Eircdunl castri», et luta capcssunt
Interca praemissi equites ex urbe Latina, ~
r.clera dom legio campi» inaimela moralur,
Ibanl, et Turno regi responso ferebant,
Tercenlum, sculali omnes, Volscenlc magislro.
lamque proplnquabanl castri», niuroque subibant,
Quum procul lios larvo llectcìilcs limile cernunl;
El galea Euryalum subluslri nodi» in umbra
Prodidii immemorem, radiisque adversa refulsil.
Hauti temere esl visum. Conclamai ab agminc Volsecns:
Imbelle e per Umor già mulo assaglie,
Clic d'unghie armalo, c sanguinoso il dcnlc
Traendo c divorando ancidc e rogge.
Nè fe’slragc minor da l'altro canlo
EurValo, ch'acceso c furioso
Tra molla plebe molli sema nome,
E quasi sema vita a morte Irasse;
SI dal sonno erari violi: e de'nomati
Uccise Erboso, Fndo, Abari c Reio.
Onesto Reto era desio: onde reggendo
Con la mnrlc de gli altri il suo periglio,
Per la paura appo d'un'urna ascoso
Quatto e quelo si slava. Indi sorgendo
Gli fu T giovine sopra, c ’l ferro lutto
Entro al peno gl'immcrsc , c con gran parie
De la sua vita indietro lo ritrasse;
SI clic Ira'l vino e’I sangue, ond'era involta.
Gli usci l'alma di porpora vestila.
Con questa occasìon di buia none
E di furtivo agguato, il buon gorzonc
Fervidamente instava. E già rivolto
S’era contro la schiera di Mcssàpo,
Là’ve 'I foco velica del tulio estinlo,
E là 're i suoi cavalli a la campagna
Pasccan legali; allor clic Niso il vide
Clic da l'occisione c da l'ardore
Trasporlar si lasciava. E brevemente,
Non più, gli disse, chè’l nimico sole
Ne sorge incontra. Assai di sangue ostile
Fin qui s'è sparso; assai di largo avemo.
Moll'armi, moll'argenli c molfarnesi
Casinaro in dietro. I guarnimenti soli
Del cavai di Hanucte c le sue borchie
Euriato si prese, con un cinto
Rollalo d'oro, un prezioso dono
Clic Cedieo, un ricchissimo tiranno
A Remolo Tiburlc ospite assente
Fece in quel tempo. Remolo al nipote
Lo lasciò per Telaggio: e questi in guerra
Nc fu poscia da’ Rutuli spoglialo:
Quinci gli ebbe Rannelc, c quinci preda
Fur d'Eurialo al line: egli gravonne
I farli omeri indarno. Appresso in capo
S'adallA di Mcssàpo un lucid'clmo
D'allo cimiero adorno; e 'n questa guisa
Se nc parlian vittoriosi e salvi.
Intanto di Uurcnlo cren le schiere
Uscite a campo, e i lor cavalli avanti
Prcrorrcau l'ordinanza, cd al re Turno
Nc porlavano avviso. Eran trecento
Tutti di scudo armati; e capo c guida
N'ora Votante. Già vicini al campo
Scorgean le mura; quando fuor di strada
Videro da man manca i due compagni
Tener sentiero obliquo. Era un barlume
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LIBRO NOMO
495
Sialo, viri; quae caussa viac ? quive cstis in artnis ?
Quove tenclis iter? Nitrii illi tendere contro;
Scd celcrare fugam in silvos, et fiderò nodi.
Obiiciunt equiles sese ad divortia noia
Hinc alquc Itine, otnnemqnc abilitili custode coronanl.
Silva fuit, late dumis atque ilice nigra
Horrida, quatn densi romplcrant undiqne sentes;
Rara per occulto* lucebai semila callcs.
Euryalum tenebrae ramorum onerosaque praeda
Impediunt, fallilque timor regione viarum.
Nisus abil: iamque imprudens evasero! hosles,
Alque locos, qui post Albae de nomine dirli
Albani: lum rex stabula alla Latinus habebat.
Ut sletit, et frustra abscntem respexit amicum:
Euryalc, infelix qua le regione reliqui 7
Quave seqnar, rursus pcrplexum iter omne revolvcns
Kullacis -.iliae ? simili et vestigio retro
Observata legil, dumisque silentibus errai.
Audii cquos, audii slrcpilus et sigila sequentum.
Nec longum in medio lempus: quutn clamor ad aure*
Pervenil, ac videi Euryalum; quem iam manus omnia
Fraudo loci et noclis, subito turbante lumullu,
Oppressimi rapii, et conanicm plurima frustra.
Quid facial ? qua vi iuvenem, quibus audeat armis
Eripere ? An sese medio* morilurus in cnses
Infera!, et pulchram properet per vulnera mortem ?
Ocius adducto torquens bastile tacerlo,
Suspiciens altam Lunam, sic voce precatur:
Tu, dea, tu praesens nostro succurrc labori,
Aslrorum dccus, et nemorum Latonia custos;
Si qua luis unquam prò me pater Hyrtacus aris
Dona lulil, si qua ipse meis venatibus auxi,
Suspendive titolo, aut sacra ad fastigia fixi:
Unric sine me turbare globum, et rege tela per auras.
Dixerat, et loto connixus corpore fcrrum
Coniicit: basta volans noclis divcrbcrat umbra*,
Et venit aversi in tergum Sulmonis, ibique
Frangitur, ac fisso Iransil praecordia tigno.
Volvitur ille vomens calidurn de peclorc flnrncn
Frigidus, et longis singullibus ilia pulsai.
Diversi circumspiciunt. Hoc acrior idem
Ecce aliud stimma lelum librabat ab aure.
Dum trepidarli , iil basta Tago per lempus utrumque
Slridcns, traiecloque hacsit lepefacla cerebro.
Saevit atrox Volscens, ncc (eli conspicil usquam
Àuctorcm, ncc quo se nrdens immittcrc possi!.
Tu lamen interea calido mihi sanguine poenas
Persolvcs amborurn, inquii: simul ense recluso
Ibat in Euryalum. Tum vero cxlcrrilus, amens
Conclamai Nisus; nec se celare tenebria
Amplius, aul tantum poluil perferre dolorem:
Ale, me, adsum. qui feci, in me convertite ferrum,
0 Ruiuli, mea fraus omnis; nibil iste nec ausus,
Nec poluil; coclum hoc et conscia sidcra testor;
Tantum iufelicem nitnium dilexit amicum.
LA 'v'era l'ombra, c là Y era la luna,
A gli avversi suoi raggi la celata
Del mal accorto Furialo rifulse.
Di colai vista insospcltl Volscente,
E gridò da la squadra: Olà fermale.
Chi viva? A che venite? Ove n’andate?
Chi siete voi? La lor risposta incontro
Fu sol di porsi in fuga, c prevalersi
De la selva e del buio. I cavalieri
Ratto chi qua chi là corsero a'passi,
Circondarmi il bosco, ad ogni uscita
Posero assedio. Era la solva un'ampia
Macchia d'elei c di pruni orrida c folta,
Che avea rari i sentieri, occulti e stretti.
E gl’intrichi de* rami e de la preda.
Ch'era pur grave, c '1 dubbio de la strada
Tenean sovente Eurialo impedito.
Niso disciollo e lieve, e del compagno
Non s'accorgendo, ch'era in dietro assai,
Oltre si spinse. E già fuor de'ncmici
Era ne'campi che dal nome d'Alba
Si son poi detti Albani. Allor le razze
E le stalle v’avea dc’suoi cavalli
Il re Latino. E qui poscia ch'un poco
Ebbe il suo caro amico indarno atteso,
Gridando, Ab, disse, Eurialo infelice,
U' sei rimaso? U' più ( lasso I j ti trovo
Per questo labirinto? E tosto in dietro
Rivolto, per le vie, per Torme slesse
Di tornar ricercando, si rimbosca.
Erra pria lungamente, c nulla sente:
Poscia sente di trombe c di cavalli
E di voci un tumulto; e vede appresso
Eurialo fra mezzo a quelle genti,
Qual caccialo leone. E già dal loco
E da la notte oppresso si travaglia,
E si difende il poverello in vano.
Clic farà? Con clic forze, e con qual armi
Ha che lo scampi? Avvenlcrasri in mezzo
De’nemici a morir morte onorata?
Cosi risolve: e prestamente un dardo
S'adatta in mano; e vólto in vèr la Luna,
CITallor alto splcndca, così In prega:
Tu, dea, tu della notte eterno lume,
Tu regina de boschi, in tanto rischio
Ne porgi aita. Es'lrtaco mio padre
Per me de le sue cacce, io de le mie
Il dritto unqua TofTrimmo; e se l’appesi,
E se t’affissi mai teschio nò spoglia
l)i fera belva, or mi concedi ch’io
Questa gente scompigli, c la mia mano
Reggi c i miei colpi. E, ciò dicendo, il dardo
Vibrò di tutta forza. Egli volando
Fendè la notte, e giunse ove a rincontro
Era Sulmone; e rinvestì nel tergo
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196
DELL’ ENEIDE
Talia dieta dobal: sed viribus cnsis adaclus
Trnnsabiil costa», et candida pcctora rumpit.
Voliilur Euryalus lelo, pulchrosquc per arili»
It cruor, inque Immeroa cervia collapsa rccumbil:
Purpureus voluti quinti llos, succisus aratro,
Languescil moriens: laasove papavera collo
Dcmiscrc caput, pluvia quum Torte gravaulur.
At fiisusiriiit in medio», solumque per omnes
Volsccntem petit; in solo Volscenle moratur.
Quem circum glomerali liosles, hinc comminus at
que itine
Prolurbanl. Instai non sccius, ac rolat enscm
Fnlminenm; donec Rululi clamanti» in oro
Condidil adverso, et raoricn» animom abslulil liosli.
Tum super eianimcm scsc proiecit amicum
Coufossus, placidiiquc ibi demum morte quievit.
Fortunali ambo I si quid mea carmina possunt,
Nulla ilies unquam memori vos eiirnct aeio,
bum domus Aeneac Capitoli immobile savum
Accolet, impcriumquc pater Romanus iiabebit.
.Là 've pendei la larga: c ’l Terrò c l'asta
Passagli al petto, c gli trafisse il core.
Cadde Treddo il meschino; c con un caldo
Fiume di sangue, die gli uscio davanti
Fini la vita, c col singhiozzo il fiato.
Guardansi l'uno a l’altro; c tulli insieme
Miran d'intorno di slupor contusi
E di timor d'insidie. E l'uso intanto
Via più si studia: ed ecco un altro fiero
Colpo, ch'alea di già libralo, e dritto
Di sopra gli si spicca da l'orecchio,
E per l'aura ronzando in una tempia
Si conficca di Togo, c possa a l'altra.
Volscenle acceso d'ira, non leggendo
Con chi stogarla, al gioì ine rivolto,
Tu me ne pagherai per ambi il fio,
Disse, c strinse la spada, c vèr lui corse.
Niso a tal vista spaventalo, c Tuori
Escilo de l'agguato c di sé stesso
(Chè soffrir non poleo tanto dolore )
He, me, gridò, me, Rululi, uccidete,
lo son che 'I Teci: io son che questa Troda
Ilo prima ordito. In ine l'armi volgete;
Chè nulla ha contro a voi questo meschino
Osalo, nè potuto. Io lo vi giuro
Per lo eie! che n’è conscio e per le stelle,
Questo tanto di mal solo ha commesso,
Clic troppo amato Iva l'Infelice amico.
Mentre cosi dicea, Volscenle il colpo
Già con gran forza spiuto, il bianco petto
Del giovine trafisse. E già morendo
Eurialo cadea, di sangue asperso
Le belle membra, c rovescialo il collo,
Qual reciso dal vomero languisce
Purpureo fiore, o di rugiada pregno
Papavero ch'a terra il capo inchina.
In mezzo de lo stuol Niso si scaglia;
Solo a Volscenle, solo conira lui
Pon la sua nera. I cavalicr che intorno
Stavano a sua difesa, or quinci or quindi
Lo tenevano a dietro. Ed ei pur sempre
Addosso a lui la sua fulminea spada
Rotava a cerchio. E si fc' largo in tanto
Ch’alfin lo giunse ; e mentre clic gridava,
Cacciógli il ferro ne la strozza, c spinse.
Cosi non morse, che si vide avanti
Morto il nimico. Indi da cento lance
Trafitto addosso a lui, per cui moriva,
Giltossi ; c sopra lui contento giacque.
Fortunali ambiduel Se i versi miei
Tanto han di forza; nè per morte mai,
Nè per tempo sarà che 'I valor vostro
Glorioso non sia, finché la stirpe
D' Enea possederà del Campidoglio
L' imraobil sasso, finché impero c lingua
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Viclores praeda Bululi spoliisque politi,
Volsccnlem oxanimum flentcs in castra fcrebanl.
Nec minns in caslris luctus, lthnmnrte reperto
E.xsangui, et primis una lol cacdc perenni*,
Serranoque Numaquc. Ingerì* concursus ad ipsa
Corpora, scmincccsque viros, tepidaque recentem
Cacdc locuin, cl plenos spumanti sanguine rivos.
AgnosGunt spoiia inler se, galeamque nilentem
Messapi, et multo phaleras sudore receplas.
Et iam prima novo spargebat lamine terras
Tithoni croccum linquens Aurora cubile:
Iam sole infuso, iam rebus luce relectis,
Turnus in arma viros, armi* circumdalus ipse,
Suscilal; aeratasque acies in proclia cogil
Quisque suas, variisque aruunt rumoribus iras.
Quin ipsa arreclis (visu mirabile) in Iiaslis
Prodigarli capila, el multo clamore sequunlur,
Euryali et Nisi.
Aencadae duri murorum in parte sinistra
Opposucre acicm, (nam dexlcra cingitur amni),
Ingentesque lencnt fossa*, el lurribus allis
Stani moesti; simnl ora virùm praefixa movebant,
Nota nimis miseris, alroquc fluentia tubo
Interra pavidam volitans pennata per urbem
Nuntia Fama ruit, malrisqne allabitur aures
Euryali. At subitus miserae calor ossa reliquil;
Excussi manibus radii, revolulaque pensa.
Evolsi infelix, et, femineo ululalu,
Scissa comam, muros nmens atque agmina cursu
Prima petit: non illa virùm, non illa perieli,
Telorumque memor: coelum dehinc queslibus implei:
Hunc ego le, Euryale, adspicio? lune, illa senectae
Sera meae requics, potuisli linquerc solam,
Crudelis ? nec le, sub tanta pcriculo missum,
Affari extremum miserae dalB copia mairi?
Ileu, terra ignota canibus date praeda Latini*
Àlitibusquc tace. I nec te tua funere matcr
Produxi, pressivc oculos, aut vulnera lavi,
Veste legens, libi quam noctcs festina diesque
Urgebam, cl tela curas solabar aniles.
Quo sequar ? aut quae nunc artus, avulsaque membro,
El funus lacerum tcllus habet ? Hoc mihi de le,
Nate, refers ? hoc sum tcrraque marique secuta ?
Figite me, si qua est pietas; in me omnia tela
Coniicite, o Rutuli; me primam absumilc ferro:
Aut tu, magne pater divùm, miserere, tuoque
Invisum hoc deirude caput sub Tartara telo:
VlftClLIO VOL. calco
unno nono m wi
Avrà Y invitta e fortunata Roma.
I Rutuli con l'armi c con le spoglie
Pei due compagni uccisi il morto corpo
ÀI campo nc porlàr del duce loro :
Lacrimosa vittoria ! E non meno anco
Fu nel campo di lagrime e di lutto,
Allor che di Rannele di Sarrano
E di Numa la strage si scoverse,
E di tanl* altri ch* erari morti in prima.
Corse ognuno a veder ; citò parte spenti.
Parte eran mezzi vivi ; e caldo c pieno
E spumante di sangue era anco il suolo
Ove giacean quegl* infelici estinti.
Riconobbe tra lor le spoglie e I* cimo
E *1 cirnicr di Messàpo, e I guarnimcnti
Che con tonto sudor ricoverati
S’ erano a pena.
Era vermiglio e rancio
Fatto già de la notte il nero ammanto,
l.asciando di Titon I* Aurora il letto ;
E comparso era il Sole, e discoverto
Già *1 mondo lutto allor che Turno armalo
A I* arme, a V ordinanz a, a la battaglia
Concitò ’l campo ; c diede ordine e loco
Ciascuno a* suoi. Vendella, ira e desio
D'assalir, di combatter, di far sangue
Vedcansi in lutti. A due grand’ aste in cima
Conflccaron le teste ( orribil mostra I )
D* EurTalo c di Niso, c con le grida
Ne féro onta e spettacolo a* nemici.
I Teucri arditamente in su le mura
Da la sinistra incontra si mostraro;
Cliè la destra dal fiume era difesa.
E chi dalle trincee, chi da le torri
Slaian dolenti rimirando i teschi
Ne I* aste affissi polverosi c lordi,
Ch* ancor sangue gocciando eran pur troppo
Così lungo da’ miseri compagni
Raffigurati a le fallczze conte.
Sp cgò la fama le sue penne intanto,
E la trista novella in ogni parto
Sparse per la città, si ch* a gli orecchi
De la madre d’ Burraio pervenne.
Corse subitamente un gel per I* ossa
A la meschina ; e de le man le uscirò
Le sue tele e i suoi fili. Indi, rapila
Dal duolo c da la furia, forsennata
E scapigliata ne la strada uscio ;
E per mezzo de I* armi c de lo genti
Correndo, mugolando, senza tema
Di periglio e di biasmo, andò gridando,
E di questi lamenti il ciclo empiendo :
Ahi così concio, Euri'aio, mi torni ?
EurTalo sei tu ? Tu sei ’l mio figlio,
Ch’ cri la mia speranza e ’l mio riposo
’ 2G
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DELL’ ENEIDE
Quando aliter nequeam erudelcm abrumperc vilam.
Hoc flclu concussi animi, moeslusquc per omnes
Il gemitus; torpenl infraclac ad proelia vires.
lllam inccndenlem luctus Idacus et Actor,
llionci moniti) el multum lacrimautis luli,
Corripiunl, inlerquc manus sub lecla rcponunl.
Al tuba lerribilem sonilum procul aere canoro
Increpuil; sequilur clamor, coelumque rcmugil.
Acceleranl acla pariler testudine Votoci;
El fossas implere paranl, ac rellere valium.
Quaerunl para aditum, cl scalis adscendere muros,
Qua rara est acies, intcrlucelque corona
Non lam spissa viris. Telorum efTundcre conira
Omne genus Teucri, ac duris delrudere conlis,
Assueti longo muros defendere bello.
Saia quoque infesto volvebanl pondero, si qua
Possenl icctam acicm perrumpcre: quum (amen omnes
Fcrrc iuvat subter densa lesludinc casus.
Nec iam sufDciunt; nam, qua globus imminel ingens,
Immanem Teucri raolem volvunlque ruuntquc;
Quae slravil Hululos late, armorumque resoli!!
Nc l’ estreme giornale di mia vita ?
Ahi come cosi sola mi lasciasti.
Crudele ? E come a cosi gran periglio
N’ andasti, ansi a la morie, clic tua madre
Non li parlasse, oimè 1 1' ultima rolla,
Nè clic pur li vedesse ? Ali ! di' or li veggio
In peregrina terra esca di cani,
D' avolloi e di corvi. Ed io tua madre,
lo cui l’ esequie eran dovute e *1 duolo
D' un colai tiglio, non t'ho chiusi gli occhi,
Nè lavate le piaghe, nè coperte
Con quella veste che con tanto studio
T’ ho per trastullo de la mia vccchieira
Tessuta io stessa e ricamalo in vano.
Figlio, dove li cerco ? Ove ti trovo
SI diviso da te ? come raccolto
Le lue cosi sbranate c sparse membra ?
Sol questa parte del tuo corpo rendi
A la tua madre, che per esser teco
T' ha per terra e per mar tanto seguilo,
E seguiralli dopo morte ancora ?
In me, Rululi, in me lutti volgete
I vostri ferri, se pur regna in voi
Pielade alcuna. A me la morte date
Pria di' a nuli' altro. 0 tu, Padre celeste,
Miserere di me. Tu col tuo tèlo
Mi trabocca nel Tartaro e m' ancidi,
Poiché romper non posso in altra guisa
Questa crudele e disperata vita.
Da questo pianto una mcslitia, un duolo
Nacque ne’ Teucri, c tale anco ne l’ armi
Un languore, un timore, una desidia,
Che grami, addolorali e di già vinti
Sembravan tutti. Onde Attore ed Idèo,
Con quel di lei togliendo il pianto altrui,
Per consiglio del saggio llionéo,
E per compassion del buono lùlo
Che mollo amaramente nc piangea,
Tosto a braccia prendendola, ambedue
La porlaro a I* albergo.
Ed ecco intanto
Squillar s' ode da lunge un suon di trombe ,
Un dare a l’ arme, ed un gridar di genti
Tal, che ne tuona e ne rimugghia il cielo.
E veggonsi in un tempo i Volaci '.ulti
Sotto pavesi consertati c stretti
In guisa di testuggine appressarsi,
Empier le fosse, dirupare il vallo.
E tentar la salita, e por le scale
Là dove la muraglia era di sopra
Con minor guardia, e là 've raro il cerchio
Tralucea de la gente. Incontro a loro
I Teucri sassi, travi ed ogni télo
Awcnlaron dal muro ; e con le picche
Risospingendo, come il lungo assedio
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LIBRO NONO
199
Tegmina. Nec curaul caeco contendere Marie
Amplius audaccs Rulull, seti pellere vallo
Missilibus cenoni.
Parte alia horrendus visti quassabat Elruscain
Pinum et fumiFfros in Tt-rt Meientius ignes;
At Messapus, cquòtn dotnitor, Neplunia prole»,
Reseindil vallimi, et scalas in moenia poscil.
Vos, o Calliope, precor, adspirate caiicnti,
Quas ibi lune ferro strages, quae funcra Tiirnus
Edideril; quem quisque viruin deniiscrit Orco;
Et mecum ingente» oras evolvile belli.
Et meministis enim, divae, et memorare polcstis.
Turni crai vasto suspcclu, et ponlibtis alti»,
Opportuna loco; summis quam virihus omnes
Espugnare Itali, summaque evertere opum vi
Ccrlabant: Trocs conira tlcfendere sasis,
Perquo cavas densi tela inlorquere fenestras.
Princeps ardentem coniceli lampada Turuus,
Et ilammam affisi! laleri; quae plurima vento
Corripuil tabulas, et postibus Itami adesis.
T urbali trepidare inlus, fruslraquc malorum
Velie fugam. Dum se glomcranl, relroquc residuili
III parlcm, quae peste caret: lum pondero lurris
Procubuil subilo, et coclum tonai omne fragore.
Semincces ad tcrram, immani mole secula,
Confìxique suis teiis, et pectora duro
Transfossi tigno, veniuni. Vis unus Helenor,
Et Lycus clapsi; quorum priraaevus Helenor,
Maconio regi quem serva Licymuia furtim
Sustulcral, vctilisque ad Troiani miserai armis,
Elise levis nudo, parmaque inglorius alba.
Isque ubi se Turni media inlcr millia vidil.
Dine acics atquc bilie acies adslare Latina»;
Ut fera, quae, densa vcnanliim sepia corona,
Contra tela furi), seseque Itaud nescia morti
Iniicit, et sallu supra venabula fcrlur:
Hauti alitcr iuvenis medio» morilurus in liostes
Irruil; et, qua tela videi densissima, tendit.
Al pedibtis longc mclior Lycus, inler et liostes,
Inter et arma, fuga muros tenet, altaquc certa!
Prendere teda manti, sociAmque attingere destras.
Quem Turuus, parilcr cursu leloque seculus,
Inerepal bis victor: Nostrasnc evadere, dcmciis.
Insegnò lor di Troia, a la difesa
Si fermàr de' ripari ; e le pareti
E i pilastri e le torri addosso a loro
E sopra la testuggine gillando.
Gli scudi dissiparono e le genti,
Si che più di combattere al coverto
Non si curaro. Ma d' ogni arme un nembo
Lanciando a la scoperta, i bastioni
OfTcndcan de' Troiani. E d' una parte
Meteniio, formidabile a vedere,
Sen già con un gran pino acceso in mano
Lo sleccato infocando. Iva da l' altro
Il Ber Nessipn, di Nettuno il Aglio,
■lomalor de' corsieri; e scisso il vallo.
Scale, scale gridava, e per lo muro
Rampicando saliva.
Or qui m’è d' uopo,
Calliope, il tuo canto, a dir le prove,
A dir loccision, che di sua mano
Eem Turno in quel di; chi, quali, e quanti
A l'Orco ne mandasse. Ogni successo
Spiega di questa guerra in questa parte.
Tutto a voi. Muse, è conto; e voi la possa
E l'arte avete di contarlo altrui.
Era una torre di sublime alleila
Con bertesche e con ponti un sopra l'altro,
Loco opportuno. A questa eran d'intorno
Ili fuor gl'italiani, c dentro i Teucri;
K quei facean per espugnarla ogni opra,
E questi per tenerla. Avanti a tulli
Si spinse Turno; ed uno face ardente
Lanciovvi da l'un flanro, ove s'apprese
Con molla damma; cosi Aero il vento,
Cosi secchi e disposti erano i legni.
Ardca la torre da quel cauto, e Uentro
La gente per timor cercava indarno
Di ritrarsi dal foco: onde a la parte
Da l'incendio remota in un sol mucchio
Si ristrinsero insieme; c per quel peso
Da quel loto in un subito la torre
Quasi spinta incliinossi, aprissi e cadde.
Il cicl ne rintonò; la gente infranta,
Storpiata, sfracellata, infra i suoi legni
Da l’armi proprie inlissa, e lin ne l'aura
Moria c sepolta a terra se ne venne.
Soli due vivi, e per ventura intatti
Dal nembo della polvere, e dal fumo
Uscir nel campo: Elenorc fu l’uno,
Lieo fu l’altro. Elenore un garzone
Di prima barba, di Licinnia serva
E di Meonio re nato di furto,
E sotto Troia a militar mandalo
Furtivamente. E' si trovò com’ era
Pria nella terra lievemente armalo
Col brando ignudo, e con la targa al collo
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DELL' ENEIDE
Sperasti le posse inaiius ? Simili ampi! ipsum
Pendenlem, el magna muri cum parie rcvellil:
Qualis ubi aut leporem, aul camlenii Torpore cycnum,
Sustulil alla petcns pedi bus lovis armiger uncis;
Quaesilum aul mairi imillis balalibus ognuni
Marlius a stabuli* rapili! lupus, l’ndique clamor
Tollilur. Invadimi, el fossas aggere complenl;
Ardcntes laedas alii ad fasligia iactant.
lliotieus saio atque ingenti rragminc monlis
Lucetium, portac snbeuntem iguesquc ferenlem;
Emalhiona Ligcr, Coryuaenm slernil Asilas:
Ilio iaculo bonus, hic longe fallenlc sagilta;
Orlygium Caencus, victorem Carnea Turnu*;
Turnus liym, Cloniumquc, Dioxippum Promolumquc
El Sagarim, et summis slanlem prò lurribus Idan;
Privcrnum Capys. Dune primo levi* liasla Themillac
Slrinxerot: ille manum proieclo legni ine demens
Ad vulnus Yulit; ergo alis allapsa sagii la,
El laevo alliba csl lateri manus; abditaque intus
Spiramenta animnc letali valnerc rupi!.
Slabai in egregiis Arccnlis filius armis;
Pictus acu chlamydcra, el ferrugine clarus (libera.
Insigni» facie; genitor quem miserai Arcens,
Educlum malris luco, Symaclhia circum
Flumina, pinguis ubi el placabilis ara Palici.
Slridcntem fundam, posili» Mozcnlins linstis,
Ipsc ter adducla circum caput egil iiabrna;
Et media adversi liquefaclo tempora piombo
Diflìdil, ac multa porrccluni exlendil arena.
Tum prirnum bello cctcrcm inlendissc sagittali»
Dicilur, ante feras solilus lerrerc fugaees,
Ascanius, forlcinque monu (udisse Numanum,
Cui Perniilo cognomcn crai; Turniquc minorem
Gcrmanam nupcr limiamo sociatus habebat.
Is primam ante arimi digna atque indigna relalu
Vociferans, lumidusque novo praecordia regno
lbat, el ingcntem scse clamore fcrcbal:
Non pudcl obsidionc ilcrum valloquc teneri,
Bis capti Phrygea, el morii praelenderc muros ?
Eli, qui nostra sibi bello connubia poscunl 1
Quis deus Italiani, quae vos demenlia adegil ?
Non hic Alridae, nec fonili ficlor Ulixes.
Durum ab stirpe genus, nalos ad (lumina primum
Deferimus, saevoque gclu duramus el undis;
Venalu invigilarti pueri, silvasqne faliganl;
Fleclere ludus cquos, el spicula tendere corno.
Al paticns operum parvoque assuefa iuvenlus
Aut raslris Icrram domai, aul qualil Ofipida bello.
Oinne acYum ferro lerilur, versaque iuvcncùm
Terga faligamus basla: nec larda seneclus
Debilitai vires animi, niulalquc vigorem.
Canilicm galea premimus; semperque recentcs
Comportare iuval praedas, el vivere rapto.
Vobis picla croco et fulgenti murice vestis:
Dcsidiac cordi; iuval indulgere chorcis;
Bianca del ludo, come non dipinta
D’alcun suo fallo glorioso ancora.
Questi, vistosi in mezzo a laute genti
Di Turno e de' Lalini, come fera
Cb'aggia di cacciatori un cerchio intorno,
Muove incontro a gli spiedi, inconlr’a Panni;
Mosse là 've più folle cran le schiere,
E certo di morire a morie corse.
Ma Lieo in su le gambe assai più deslro
Infra l'armi e i nemici a fuggir vólto,
Giunse 8 le mura, ed aggrappossi in guisa
Che stcndea già le mani a' suoi compagni,
Quando Turno e co’ piedi c con la spada
Lo sopraggiuusc, c come vincitore
ltampognando gli disse: E clic, pensasti,
Folle, uscirmi di mano? E le man (osto
Gli pose addosso, c siccome dal muro
Petulca, col muro insieme a Icrra il trasse,
In quella guisa che gli adunchi ugnoni
Conira una lepre, o conira un bianco cigno
Stende l'augel di Giove, e'I marzio lupo
Da le reti rapisce un agncllcllo,
die dalia madre sia belalo invano.
Si rinnovàr le grida, c lutti insieme
0 le faci avventando, o 'I fosso empiendo,
Binfonavan l'assalto. Ilionéo
Con un pezzo di monte, a cui la pinta
Diè giu da’ merli, sovra al ponte infranse
Lut ezio eh’ a la porla era col fuco.
Ligcro uccise Einatione; Asilao
Uccise Corinéo, buon feritori
L’ uno di dardo, c I* altro di saetta.
Ortigìo da Ccnéo trafitto giacque;
Ccnéo da Turno: ammazzò Turno ancora
Ili c Promolo c Ctonio e Dfosippo,
E Sigari con Ida: Ida clic in allo
Stava d'un torrione a la difesa.
Capi aucise Priverno. Avea costui
Pria nel fianco una piccola ferita
Anzi una graffiatura, che passando
Fe* l’asta di Tendila: e’I male accorto,
Per su p»rri la mano, abbandonalo
Avea lo scudo; quando ecco volando
Venne una freccia die In mano c '1 fianco
Insieme gli confisse; e via passando
Penetragli al polmone, il mortai colpo
Sì lo spirar de l’anima gli tolse, - *
Clic non mai più spirò. Slavasi Arccnte,
D* Arconte il figlio, in $u* ripari ardilo
Egregiamente armalo, c sopra l’arme
j D una purpurea cotta era addobbato
Di ferrigno color, di drappo Ibero;
Un giovine leggiadro, clic dal padre
Eu nel bosco di Marie a l'armi avvezzo
Lungo al Simeto, u’ l’ara di Paiico
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LIBRO NONO
201
Et lunicac manicns, cl Imbonì rcdiinicula milrac.
0 vere Plirygiac, ncque cnim Pbrygcs, ile per alla
Dindyrna, ubi assuclis biforcai dal tibia ranium.
Tympaua vos buiusque vocat Bcrecynlia Matris
Idacac, sinilc arma viris, et cedile ferro.
Tinta non come pria disangue umano,
Più pingue c più placabile si mostra.
Mczenzio it vide; e l’altro armi deposte
Prese la Tromba, c con Ire giri intorno
Se ravvolse a la testa. Indi scoppiando
Allentò *1 piombo, che dal molo acceso
Squagliossi, e con gran rombo in una tempia
Il garzon percoiendo, ne l'arena
Morto quanto era lungo lo distese.
Ascanio che fin qui solo a la caccia
Ave» l’arco adopralo, or primamente
Oprollo in guerra, c col primiero colpo
Il feroce Nuotano a terra stese.
Remolo era costui per soprannome
Chiamato; e poco avanti avea per moglie
Presa di Turno una minor sorella.
Ei di questo favor, di questo nuovo
Suo regno insuperbito, altero e gonlio
Slava ne l’antiguardia, e con le grida
Si ringrandiva; c di lontano i Teucri
Schernendo, in colai guisa atlodicca:
Questo è l'onor che voi, Frigi, vi fate
D’un altro assedio? Un’altra volta in gabbia
Vi riponete? E pur col vostro muro,
E co i vostri ripari or da la morte
Vi riparate? E voi, che fate guerra
Per usurpare a noi le donne nostre?
Qual dio. qual infortunio, qual follia
V'ha condotti in Italia? E che pensate
Di trovar qui? Quei profumati Atridi,
0 ’l ben parlante Ulisse? In una gente
Avete dato che da stirpe è dura.
1 nostri figli non son nati a pena,
Che si tufTan ne’fiumi. A fonde, al gelo
Noi gfinduriamo, c gl’incalliamo in prima ;
Poscia per le montagne e per le selve
Fanciulli se ne van la notte c T giorno.
Il lor studio è la caccia; e ‘1 lor diletto
È’I cavalcare, c ’l trar di Tromba c d’arco.
La gioventù ne le fatiche avvezza,
E contenta del poco, o col bidente
Doma la terra, o con l’aratro i buoi,
0 col ferro i nemici. Il ferro sempre
Avcmo per le mani. Una sol* asta
Ne fa picca e pungclto. A noi vecchiezza
Non toglie ardire, e de le forze ancora
Non ci fa, come voi, debili e scemi.
Per canute che siati le nostre leste,
Veston celate, e nuove prede ogn’ora
Quando da’ boschi c quando da’ nemici
Addur ne giova, c viver di rapina.
Voi con l’ostro e co’fregi e co’ricami,
Con le colle a divisa c con le giubbe
Immanicatc c co i fiocchetti in testa
A che valete ? a gir cosi dipinti
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DELL* ENEIDE
202
Talia iaclanlem (licite, ac dira cancnlcm,
Non tulit Ascanius; ncrvoque obversus equino
Contcmiit (cium, divcrsaque brachia duccns
Oonstilii, anlc Iovem supplcx per rota precatus:
Jupiler omnipolcus, audacibus adnue cocplis.
Ipse libi ad tua tempia ferarn solcmnio dona,
Et staluam ante aras aurata fronte iuvencum
Candenlcm, parilerque caput cum maire ferentem,
Iam corno pelai et pedibus qui sparga! arenarli.
Audiil et codi Gcnilor de parte serena
Intonuil laevum; sonai una falifer arcus.
EfTugit horrcndum stridens addurla sagitla;
Pcrque caput Remuli venit, et cava tempora ferro
Traiicil. I, verbi* virtulem illude superbis.
Bis capti Pliryges liaec Kutulis responsi! remittunt.
Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore sequuntur,
Lacliiiaque frcmunl, animosque ad sidcra lollunt.
Aclberia Inni forte plaga crinitus Apollo
Desuper Ausonias acies urbemque vldebat,
Nube sedens, atque bis viclorcm alTalur (ulurn:
Macie nova virlulc, puer; sic itur ad astra,
Dls genite, et geniture deos. Iure omnia bella
Gente sub Assaraci fato ventura residenl;
Ncc te Troia capit. Simul, haec cflalus, ab alto
Actbcrc se mittil, spirantes dimovet auras,
Ascaniumque petit. Formam tum vertituroris
Antiquum in Bulen. Ilic Dardanio Anchisae
Armiger ante fuit, fidusque ad limina cuslos;
Tum comilein Ascanio pater addidil. Ibat Apollo,
Omnia longaevo simili», vocemquc, coloremquc
Et crines albos, et saeva sonoribus arma;
Atque bis ardcnlem diclis a ITatur lulum:
Sit satis, Aenide, telis impune Numanum
Oppctiisse tute; primam banc libi magnus Apollo
Concedii laudcm, et paribus non invidet armi*;
Celerà parce, puer, bello. Sic orsus Apollo
Mortales medio odspcctus sermone reliquil,
Et procul in tenucm ex oculis evanuit auram.
Agnovere deum proceres divinaque tela
Dardanidae, pbarelramquc fuga sensere sonanlcm.
Ergo avidum pugnac, diclis ac numine Plioebi,
Ascanium prohibenl; ipsi in ccrlamina rursus
Succcdunt, animasque in aperta pcricula millunt.
E così neghittosi ? A far balletti
Da donnicciole. 0 Frigi, o Frigiesse
Più tosto I In questa guisa si guerreggia 7
Via ne’ Dindimi monti, ove la piva
Vi chiama c *1 tamburino e 'I zufoletto.
E con quei vostri galli, anzi galline
Di Bcrccinto, ile saltando in tresca;
E V armi c*l ferro, che non fan per voi,
Lasciate a quei clic son prodi e guerrieri.
Non potè tanto orgoglio c tanto oltraggio
Soffrir d’ un folle il generoso Iulo,
| E leso l’ arco con la cocca al nervo,
Rimirò 'I cielo, e disse : Onnipotente
Giove, tu l' ardir mio, tu la mia mano
Fomenta e reggi. Ed io sacri e solenni
Ti farò doni : io condurrolti a l’ ara
Un candido giovenco che la fronte
Aggia indorata, e de la madre al pari
Erga la testa, e già scherzi c già cozzi
Con le -coma, c co’ piè sparga l’arena.
Giove, mentre dicea, tonò dal manco
Sinistro lato; e col suo tuono insieme
Scoccò I* arco mortifero di Iulo.
Volò l’ orribil télo, c per le tempie
Di Remolo passando, le trafìsse.
Or va’, t* Insuperbisci; or va’, deridi,
Scempio, 1* altrui virtù. Queste risposte
Mandano i Frigi che son chiusi in gabbia
A i Rutuli signor de la campagna.
Questo sol disse Ascanio; ed al suo colpo
Le grida i Teucri c gli animi in un tempo
Al cielo alzaro. Era il crinito Apollo,
Quando ciò fu, ne la celeste piaggia
Sovra una nube assiso, e d* allo il campo
Scorgendo de* Troiani c de gli Ausonii,
Come vede ogni cosa, visto il colpo
Del vincitore arderò, in vèr lui disse :
Ahi buon fanciullo, in cui virtù s’ avanzo I
Così cassi a le stelle. Or ben tu mostri
Che da gli dii sei nato, e eh' altri dii
Nasceranno da te. Tu sci ben degno
Ch* ogni guerra, che *1 Fato ancor minacci
A la casa d‘ Assàraco, s* acqueti
Per tua grandezza, a cui Troia è minore,
SI che già non ti cape. E, cosi detto,
Si fendè l’ aura avanti, c vèr la terra
Calossi, trasmutossi, c come fosse
Il vecchio Buie, al giovine accostossi.
Fu Buie in prima del Dardanio Ànchise
Valletto d’ arme e camerieri» c paggio,
E poscia per custode e per compagno
L* ebbe Ascanio dal padre. A questo vecchio
Mostrassi Apollo di color, di voce,
D’andar, di canutezza e d’ armatura
Simile in tutto; cd a 1* ardente Iulo
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LIBRO NONO
203
Il clamor lolis per propugnatila murisi
Inlentlunl aerea arcua, anienlaque torquent.
Sternilur ornile aolum lelis; lum acuta covaeque
Dant sonitum fliclu galcac; pugna aspera aurgit
Quanlus ab occasu veniens, pluvialibua Ilaeilis,
Vcrbcral imber humum; quam multa grandine nimbi
In vada praecipitanl, quum iupiter horridus aualris
Torquel aquosam hiemem, et coelo cava nubila rum-
pii.
Pondarus et Bitias, Idaeo Alcanore creli,
Quos lovis eduiit luco silvestri» laera,
Abielibus iuvenes palriis et montibus acquos,
Portoni, quae ducii imperio commiasa, recludunt
Frati armis, ultroque in > ila n L moenibus bosletn.
Ipai intus delira ac laeva prò turribus adstant
Armali Terrò, et cristi» capila alla coruaci;
Quales acriae liquenlia (lumina circum,
Sire Padi ripis, Alhesim seu propler amoenum,
Conaurgunt geminae quercua, intonsaque coelo
Atlollunt capila, et sublimi vertice nulanl.
Irrumpunl, aditus Rululi ut ridere palentes.
Continuo Quercens, et pulcher Aquicolus armis,
Et praeceps animi Tmarus et Mavortius Ilacmon,
Agminibus lotis aul versi terga dcderc,
Aul ipso portae posurre in limine vilam.
Timi magis incrcscunt animis discordibus irae.
Et iam coliceli Troes glomerantur eodem,
Et conferre manum et procurrere longius audcnl.
Fallo vicino, in tal guisa gli disse :
Bastili aver, d' Enea preclaro figlio,
Sema alcun rischio tuo Numano ucciso,
Di questa prima lode il grande Apollo
Ti privilegia, e non l' invidia il colpo,
Nè 'I paraggio de I* arco. Or da la pugna
Riiraggili. E, ciò dello, da la vista
De’ circoslanli si ritrasse anch’ egli,
E sormontando dissipossi e sparve.
Rassembrarono in Buie i Teucri Apollo,
E riconobber la faretra e l' arco,
Che ruggendo sonar anco s' udirò.
E fér al con le preci e col precello
D’ un tanto iddio, ch'Ascanio ancor clic vago
Fosse di pugna, se ne tolse al fine ;
Ed essi apertamente a ripentaglio
Misero in vece suo le vile loro.
Spargesi un grido per le mura in tanto
Per tutte le difese ; e tutti a gli archi,
Tulli a tirar, tutti a lanciar si diero
D' ogni sorte arme, c d' ogni parte il suolo
N* era coverto, quando altro conflitto
Cominciossi di scudi e di celale,
Una mischia di picche, una battaglia
Che erescea tuttavolla, rinforzando
Con quella furia die di pioggia un nembo
Vien da l' occaso allor che d’ oriente
Fan sorgendo i capretti a noi tempesta :
0 quando orrido e (orbo c d' austri cinto
E ’n grandine converso irato Giove,
D'alto precipitando, si devolve
Sopra la terra, e'I cicl rompendo inluona.
Pandoro c Bilia d' Alcanórc Ideo,
E d’ Idra sabatica sua moglie
Figli, in Ida acquistali, e d' Ida usciti
L' uno a F altro simile, ed ambldue
A quegli abeti ed a quei monti uguali
Ond’ cran nati, avean dal Teucro duce
Una porta in custodia. E confidali
Ne le forze e ne l' armi, a bello studio
La lasciaron aperta, ed a' nemici
Fér da le mura marziale invito.
Essi armati di ferro, un da la destra,
L' altro da la sinistra, a due pilastri
Sembianti, anzi a due torri che nel mezzo
Tengan la porla, con le teste in alto
E co' raggi de gli elmi i campi Intorno
Folgorando, squassavano i cimieri
Fin sovr’ ai merli. In colai guisa nate
Ne le ripe si veggon di Lequezio,
De l' Adige, o del Po due querce altere
Sorgere al cielo, e sventolarsi a l' aura.
Visto l' adito aperto, incontanente
Vi si spinsero i Butuli. E Quercento
Ed Aquicolo i primi armati e fieri,
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20 i
DELL’ ENEIDE
Duclori Turno, diversa in parie furenti,
Turbantique viros, perfertur nunlius, hoslcm
Fervere cacdc no^a, et porlas praebcrc palenlcs.
Deseri l inceplum, atque immani concitus ira
Dardaniam ruil ad portam frolresque superbos;
El primum Antiphaien. is cnim se primi» agebat,
’Jhcbann de maire nolhum Snrpedonis alti.
Conicelo sternil iaculo; volai Itala cornus
Aera per lenerum, slomaclioque india sub altum
Pcctus abil; reddil specus airi vulneris undam
Spumanlcm, et lino fcrrum in pulmone lepescil.
Tum Meropem alquc Erymanla manu, tum slcrnit
Àphidnum;
Tum Bilian ardenlem oculis, animisque frcmenleni,
Non iaculo; ncque cnim iaculo viiam illcdedisscl;
Scd magnino slridcns conlorla phalarica venit,
Fulmini» acla modo; quam nec duo laurea terga,
Nec duplici squama lorica fldelis et auro
Suslinuil; collapsa ruunt immania membra.
Dal tellus gemitum, cl clipcum super intanai ingens.
Talis in Euboico Baiarum litore quondam
Saica pila cadil; magnis quam molibus ante
Consirurtam ponlo iaciunt; sic illa ruinam
Prona Irahil, penilusque vadis illisa rccumbit;
Misccnl se maria, cl nigrae atlolluntur nrenae:
Tum sonilu Procbyla alla tremit, durumque cubile
Inarime lovis impcriis imposta Typhoco.
Ilio Mars armipolens animum viresque Lalinis
Addidii, et slimulos acrcs sub peclore verlit;
Immisilque Fugam Tcucris alruraque Timorem.
Undique conveniunt, quoniam data copia pugnae,
Bt llalorque animo deus incidit.
Pandarus, ut fuso germanum corpore cernii,
Et quo sii fortuna loco, qui casus agat res:
1/ ardito Tmaro e 'I bellicoso Enione
Tulli co’ lor compagni impelo fero ;
E tulli o Tur da' Teucri in fuga vólti,
0 ne l’ entrar di quella porla ancisi.
Giunto a gli animi infesti il sangue sparso,
S’ accrcbber P ire ; c de’ Troiani in lanlo
Tale un numero altronde vi concorse,
Clic prender zuffa, c tener campo osaro.
Turno sfogava il suo furore altrove
Conira i nemici ; quando un messo avanti
Gli comparve dicendo, che di Troia
Erano usciti, e slavan con le porte,
Quante cran larghe, a far strage c macello
De le sue genti. Ei tosto da quel canto
Lasciò r impresa ; c contro i due fratelli
A la Dardania porta irato accorse.
E primamente Aulitale ; che primo
Gli venne avanti, un giovine bastardo
I)i Sarpedontc, e di Tcbana madre,
Con un colpo di dardo a terra stese.
Colpillo ne lo stomaco, e passogli
Oltre al polmone, onde di caldo sangue,
Quasi d' un antro, dilagossi un fonte.
Meropc, Afldno cd Erimanto appresso
Uccise con la spada, un dopo I* altro
Come a caso iucontrógli. Atterrò Bizia
Dopo costoro, ma non già col dardo,
E men col brando ; eh* altro colpo er’ uopo
A si gran corpo. A costui, mentre infuria,
Mentre stizza per gli occhi avventa e foco,
Infocalo, impiombato c grave un télo
Scaricò di falarica, che in guisa
Di fulmine stridendo e percolendo
Lo giunse sì che nò lo scudo avvolto
Di due bovine terga, nè la fida
Lorica di due squame e d'òr contesta
Non lo sostenne. Barcollando cadde
La smisurata mole, e tal diè crollo
Che ’l lerren se ne scosse, c*l gran suo scudo
Gli tonò sopra. In tal guisa di Baia
Su l'Eiiboica riva il grave sasso,
Ch’è sopra Tonde a fermar Copre eretto,
Da Tallo ordigno ov’era dianzi appeso,
Si spicca c piomba, e fln ne Timo fondo
Rumando si tuffa, e frange il mare,
E disperge l'arena: onde ne trema
Precida cd Ischia, c il gran Tiféo se n'ange,
Cui si duro covile ha Giove imposto.
Qui Marte il suo potere e 'I suo favore
Volse verso i Latini. Animi e forze
Aggiunse loro, gl’incilò, gli accese;
E di tema e di fuga e di scompiglio
Diè cagione a'Troiani. E già ch’a pugna
S'era venuto, e de la pugna il nume
Era con loro, accolti d’ogni parte
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I.IRRO N0.\0
20.1
Portam vi mima converso meline (orqnel, Si ristringono i Ruttili, e fan testa.
Obnixtis latis humcris, multosqne suorum Pandoro, poi clic 'I suo fratello estinto
Mocnibus exclusos duro in certamine linquil; Si vide avanti, e la fortuna avversa,
Ast atios sccum includil recipitquc ruentes, A la porla con gli omeri appunlossi:
Demens, qui Rutulùm in medio non agniine regem
Videril irrumpentem, ultrnque incluscrit urbi:
Immanem velini pecora inler incrtia ligrim.
Continuo nova lux oculis rifulsi!, et arma
llorrendum sonuerc; tremunt in vertice cristae
Sanguincae, clipcusquc micantia fulmina mitili.
Agnoscunl far.lcm invisam atquc immania membra
Turbali subito Aeneadae. Tum Pandarus ingcns
Emicat, et morlis fraternac fervidus ira
Elfalnr: Non haec dotalis regia Amalac;
Nec muris cohibel patriis media Ardea Turnum.
Castra inimica vides: nulla hinc exire potestas.
Olii subridens sedato pectore Turnus:
Incipe, si qua animo virtus, et consere dexlram,
llic etiam inventum Priamo narrabis Achillcm.
Diierat. Illc rudem nodis et corticc crudo
Inlorquet summis adnixus viribus haslam.
Excepcre attrae vulnus; Saturnia lutto
Detorsit veniens; porlaeque inflgitur basta.
At non hoc tclum, mea quod vi dextera versai,
Elfugies; neque enim is teli nec vulneris auctor.
Sic ait, et sublalum alle consurgit in ensem.
Et mediam ferro gemina intcr tempora frontem
Dividi!, impttbesqne immani vulnere maias.
Kit sonus; ingenti concussa est pondere teliti,.
Collapsos artus atque arma cruenta cercbro
Sternit humi morlens; atque illi partibus aequis
lluc caput atque illue huntero ex utroque pependit.
DifTugiunt versi trepida forntidinc Troes.
Et, si continuo victorcm ea cura subissel,
Rumpere clauslra manu sociosqne immiltere portis,
Ullimus ille dics bello gentique fuisscl.
Sed furor ardentem caedisque insana cupido
Egil in adversos.
Principio Pltalerim et, succiso poplilc, Gygcn
Excipit; hinc raplas fugientibus ingerii haslas
In tergum: luno vircs animumque ministrai.
Addi! Uri ly m comitem, et confila Pltegea parma;
Ignaros deinde in muris Marlemquc cicntes,
Alcandrumque Haliuntque Noemonaquc Prytanimque
Lyncea lendenlem conira, soclosque vocantem,
Vibranti gladio connixus ab aggere dealer
Occupai; buie uno tleieclum comminus iclu
Cum galea longe iacuil caput. Inde ferarunt
Vaslatorent Amycum, quo non felicior alter
Ungere tela manu, ferrumque armare veneno;
Et Clylium Acoliden, et amicom Crcthea Musis,
Crclhea Musarttm comitem, cui carmina seroper
Et citharae cordi, numerosque intendere ncrvis;
Semper equos, atque arma virùm, pugnasque canebai
Vinsmo voi csico.
E si com'era poderoso e grande.
Con molla forza la respinse e chiuse,
Molli esclusi dc'suoi, che per la fretta
Rimaser nc le peste, e molti inclusi
Clt'eran nimici: c non s'avvide il folle,
Che dei nimici in quella calca ancora
Era lo slcsso re da lui raccolto
A far de' suoi, qual tra le greggi imbelli
Ircana tigre immane. Ei non più tosto
Fu centro, che raggiò da gli occhi un lume
Spaventevole c Acro, e farmi sue
Fieramente soDaro. Il suo cimiero
Me l'aura ondeggiò sangue, e dui suo scudo
Uscir fulgori c lampi. Incontanente
La sua faccia odiata e 'I suo gran fusto
Raffigurando, i Teucri si lurbaro.
1’aiidaro allor de la fraterna morte
Fervidamente irato, avanti a tulli
Oli si fc ’nconlro, e disse: E’ non è, Turno,
Questa la reggia clic Rassegna in dote
La tua regina; c non hai d'Ardea intorno
Le patrie mura. Me le forze entrato
Sci dc'nimici, onde scampar non puoi.
Or via, Turno ghignando gli rispose
Placidamente, via. se tanto ardisci,
Meco ti prova; citò ben tostamente
A Priamo dirai ch’ili questa Troia,
Come ancor ne la sua, trovossi Achille.
Ciò dello, gli avventò Pandaro un dardo
Di tutta forza noderoso e grave,
E di ruvida ancor corteccia involto.
L'aura lo prese, c la Saturnio Giulio
Deviò 'I colpo si che do la mira
Si torse, c nc la porta si confisse.
Non si cadrò questa mia spaila in fallo,
Disse allor Turno; tale è chi la vibra,
E tal fa colpo. Ed a ferire alzalo
L'invcst) nc la fronte, c gli divise ,
Le tempie, le mascelle e 'I mento ignudo
Ancor di barba, infili là’ ve s'appicca
Il collo al petto. Al suon de la percossa.
Al fracasso de farmi, a la rflina,
Che fòr cadendo quelle membra immani,
Tremò la terra, e nc fu d'atro sangue
E di cervella aspersa. Egli morendo
Giacque rovescio, e dechinò la testa
Parte a l'omero destro, e porle al manco.
Al cader di costui tal prese i Teucri
Tema c spavento, che dispersi in fuga
Sen giro. E s’era il vincitore accorto
D'aprir la porla c ili por dentro i suoi,
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DELL' ENEIDE
Tandem duclores, nudila caede suortim,
Conrcniunl Teucri, Mncstlicus acerque Sereslus;
Palantesquc riderli socio*, hostemque reception.
Et Mnrslheus: Quo deinde lugani? quo tenditi*? inquil.
Quo* alio* muro*, quae iani ultra moenin habetis?
Dnus limilo, cl ventri*, o cives, undique sacplus
Aggeribus, lantas strage* impune per urbem
Eilidcrit ? iuvenum primo* tot miseri! Orco ?
Non infelici* polriae, veterumque deorum,
Et magni Aeneac segnes miscretque pudelque ?
Talibus acccnsi tirmanlur, et agmine denso
Consistimi. Turno* paullalim eieedere pugna,
Et iluvium potere, ac parlcm, quae rlngitur amni.
Acrius hoc Teucri clamore incombere magno.
Et glomerarc manum. Ceti saevum turba leonem
Quum teli* premil infensi*; al territus ille,
Aspcr, acerba tuens, retro redii; et neque terga
Ira dare aut virtù* palitur, lice tendere conira,
lite quidem hoc cupiens, polis est per tela virosque:
Haud aliler retro dubbia vestigio Turnus
Improperata refcrl, et mens eiacstuat ira.
Quii) ctiam bis tum medio* invaserai liostcs;
Bis confusa fuga per muros agmina vcrtit.
Sed mnnus e castri* properc coil omnis in unum.
Nec contro vires audel Saturnia Iuno
Fora stalo quel giorno e de la guerra
E de'Troinni il line. Sla la furia
E l’ardor di combattere, c l'insana
Ingordigia di sangue nc'l distolse.
Onde seguendo, in Falari ed in Gigc
S'abbattè prima. A l'uno il petto aperse;
Sghcrretlò l'altro. A quei cli'erano in fuga
Con l'oste di color ch'cran caduti,
Feria le terga; c nuova occasione
Gli ponea tuttavia nuov'armi in mano :
Siccome ancor Giunon nuovo ardimento
Gli dava e nuove forze. Ali tra questi
Mandò per terra, c Fégea confisse
Con lo suo scudo. Derise in su le mura,
Mentre a'ncmici cren di fuori intenti,
Alio ed Alcandro e Prilanc c Nomonc
A Linceo, ch'osò di stargli a fronte
E chiamare i compagni, con un colpo.
Che di rovescio con gran forza diegli,
Uccise il capo, c l'avventò con l'elmo
Lunge dal busto. Dopo questi ancisc
Amico, un cacciator ch'era in campagna
Gran dislruttor di fere, e gran maestro
D'armar di tosco le saette e'I ferro :
E Clizio ancisc d'Eòlo il buon figlio,
E Crcléo de le Muse il caro amico
E 'I dilcllo compagno; che di versi
E di cetre c di numeri c di corde
Era sol vago; c di cantar mai sempre
0 d armi, o di cavalli, o di battaglie.
I condolticr dc'Tcncri udita al fine
De' suoi la strage, insieme s'adunaro
Mncstco e Scrcslo. E visti i lor compagni
Dispersi, c già 'I nimico in salvo addursi,
Gridando, Oh, disse Mneslco, ove fuggite?
Ove n'andate? E qual ridotta avelo
0 di mura o di silo altro clic questo?
Dunque un sol uomo, e d'ogui parte chiuso
In poter vostro, avrà, miei cittadini.
Senza alcun danno suo fallo di noi
N'e la nostra città s) gran macello?
Tanti dc'nostri giovani sotterra
Avrà mandati? E noi, noi non avremo
(SI codardi saremo) o de la nostra
Infortunata patria, o de gli antichi
Nostri Penali, o del gran nostro Enea
Nè pietà, nè rispetto, nè vergogna ?
Da questo dire accesi e rincorati
Si ristrinsero insieme. E Turno intanto
Da la pugna allentando in vèr la parie
Che dal fiume era cinta, a poco a poco
Apprcssossi a la riva, onde i Troiani
Con impelo maggior, con maggior giida
Gli furon sopra. E qual fiero Icone
Che da la moltitudine c da farmi
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LIBRO NONO
207
SufDccrc; aeriam coelo nani lupiter Inni
Demisil, gcrmanae hauti inolila lussa ferentem,
Ni Turnus ccdal Tcucrurum moenibus allis.
Ergo nec clipeo iuvenis subsislere tantum,
Noe delira vaici: inìeclis sic undique telis
Ohruitur. Slrepil assiduo cava tempora circum
Tinniti! galea, et saiis solida aera faliscunt,
Discussaeque iubae capiti; nec sudicit umbo
Ictibus; ingeminant haslis et Troes et ipsc
Kulmincus Hnesthcus. Tum tolo corpore sudor
Liquilur, et piccum ( nec respirare potestas )
Flumen agii; fessos quatil aeger anliclilus arlus.
Tum demum praeceps saltu sesc omnibus armis
In duvium dedil. Ilio suo cum gurgitc davo
Acccpit vcnicnlcm, ac mollibus exlulit undis,
Et laclum sociis ablula caede remisi!.
Si vede oppresso, Ira Rerczza e tema
Torvamente mirando, si ritira ;
Chè nè ’l valor, nè l’ ira gli consente
Volgere il tergo, ni de‘ cacciatori,
Nè di spiedi spuntar puole il rincontro :
Cosi Turno dubbioso o di ritrarsi,
0 di spingersi avanti, irato e lento,
Guardigno e minaccioso se n’ andava :
E due volte avventandosi nel mezzo
Si cacciò de* nemici ;ed altrettante
Gli ruppe, e salvo in dietro si ritrasse.
Al fine in un drappello insieme accolte
Le Teucre genti incontro gli si fero,
E di Saturno non osò la dglia
Di piò forza prestargli : chè dal cielo
Giove a la sua sorella area mandato
Iri a farne richiamo, c minacciarle,
Se Turno immantinente da le mura
Non uscia de’ Troiani. Or non potendo
Piò 7 giovine supplire o con la destra,
Ch’ era a ferir già stanca, o con lo scudo
Che di dardi c di frecce era coverto ;
L' elmo già spennacchialo, e l' armi tutte
Smagliale c fesse, con un nembo addosso
Di sassi per le lempie, e d' aste a' fianchi,
Già da Memmo incalzato, aifln cedette.
E come di sudor colava, ansava,
E quasi rifiatar piò non potea,
Con tutte l’ armi in dosso un salto prese,
E nel Tebro avventossi. Il biondo Tebro
Placido lo raccolse : c salvo e lieto,
E da l' occasion purgato e mondo,
Su l’altra riva a' suoi lo ricondusse.
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LIBRO DECIMO
Pandilur ih lecca domus omnipotcntis Olympi,
Conciliumquc vocìi divftm pater atque hominutn rex
Sidcream in sedem: terras unde arduus omnes,
Caslraquc Dardanidùm adspcctat, populosque Latino».
Considunt tcctis bipatentibus. Incipil ipso:
Coclicolae magni, quianam sentcnlia vobis
Ver$a retro, tanlumque animi» cerlatis iniquis ?
Abnucram bello Ilaliam concurrere Teucris.
Quae conira velilum discordia ? quis roclus aul hos
Ani Dos arma sequi, ferrumque lacessen* suasil ?
Advcnict iustum pugnae, no arcessite, tempus,
Quum fera Carthago Romani» arcibus olim
Exìtium magnum atque Alpes immiltet apcrlas:
Tum ccrtarc odiis, tum res rapuissc liccbit.
Pinne sinite; el placidum laeti componile foedus.
lupiter baec paucis; al non Venus aureo conira
Pauca refcrl:
0 pater, o Dominimi divùmquc aelerna poleslas !
(N'amquc aliud quid sit, quod iarn implorare queamus?)
Ccrnis ut insultcnl Rutuli, Turnusque feralur
Per medios insigni» equis, tumidusque secundo
Marie rual ? Non clausa tegunt iam moenia Teucros.
Quin intra porlas alque ipsis proelia misccnl
Aggeribus moerorum; cl inundanl sanguine fossac.
Acncas ignarus abest. Nunquarane levati
Obsidionc sinrs ? Muris ilerum immincl hoslis
Nasccnlis Troiae; lice non cxcrcitus alter,
Alque ilerum in Teucro» Aduli» surgil ab Arpis
Aprissi la magion celeste iutanto ;
E del cielo il gran Padre in cima ascese
Del suo cerchio stellalo. Indi mirando
La terra, e de’ Troiani e de’ Latini
Visio il conflillo, a sè degli altri dei
Chiamò 'I consiglio. E com'era da l'orlo
E da l' occaso la sua reggia aperta,
Hallo lutti adunali, assi»! e cheti,
Disse egli in prima :
Cittadini eterni,
Qual ?’ ha cagione a distornar rivolti
Quel eh' è già stabilito ? A che Ira voi
Con tanta iniquità tanto contrasto?
Non s' è da me già proibito c fermo
Che non deggian gli Ausonii incontro a'Teucri
Sorgere a farmi ? Che discordia è questa
Contro al divieto mio ? Qual ha timore
A la guerra incitati o questi, o quelli ?
Tempo vi si darà ben degno allora
Di guerreggiar ( non f affrettate or voi )
Che la fera Carlago aprirà l'Alpi,
Grave a Roma portando esizio e strage.
Allora a gli odii, al sangue, a le rapine
Larga vi si darà licenza e campo.
Or lietamente la tenzone e l’ armi
Fermate ; e sia tra voi concordia e pace.
Tal fece ragionando il gran monarca
Breve proposta. Ma non brevemente
Venere in questa guisa gli rispose :
Padre c re de’ celesti, c de* mortali
Eterna possa ( e qual altra maggiore
S' implora altronde ? ) ecco tu stesso vedi
L’ arroganza da' Rutuli, c quel fasto
Cou che Turno cavalca ; e vedi il vampo
E la ruina che si mena avanti,
Da la sua tracotanza e dal successo
Di questa pugna insuperbito c gonfìo.
Vedi i Teucri infelici, eh’ ancor chiusi
Non son securi ; e ’nlln dentro a le [►urte
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unno DECIMO
Kl9
Tjdides. Equidcm, credo, mea vulnera rcslanl;
El lua progenie? morlalia demoror arma t
Si sine pace lua, alque invilo numine, Troes
Italiani pcticre: luanl peccala; ncque illos
luveris ausilio. Sin lol responsa seculi,
Quae Superi Mancsque dakanl: cur nunc Ina quisquam
Vertero iussa polesl, aul cur nova conderc fata ?
Quid rcpelam ciuslas Erycino in lilore classes ?
Quid lempeslatum regem, venlosque furenlcs
Aeolia eveitos ? aut actam nubibus Irim f
Nunc ctiam Manes (haec internala manebat
Sora rerum) mosci: et supcris immissa repente
Alicelo, medias IlalAm bacchata per urbes.
Nil super imperio moveor: spcravimus iste,
Dum fortuna fuit: «incanì, quos vincere matis.
Si nulla esl regio, Teucris quam del lua conium
Dura: per eversac, gcnilor, fumanlia Troiac
Excidia obteslor: liceal dimillcrc ab armis
Incolumem Ascanium, liceal superessc nepolem.
Aeneas sane ignotis iactelur in undis,
El, quameunque viam dederil Fortuna, scqualur:
dune legcre, el dirae valeam subdueerc pugnae.
Est Amalhus, esl celsa mihi Paphus, alque Cvìliera,
Idaliaeque doinus: posilis mglorius armis
Eligai bic acumi Magna dilionc iubelo
Carlhago premal Ausoniam: nihil nrbibus inde
Obslabil Tyriis. Quid pcslem evadere belli
luvit, el Argolicos medium fugisse per ignee;
Tolque maria vaslaeque ezhausta pericula lerrae,
Dum Lalium Teucri reridivaque Pcrgama quaerunt?
Non satius, cineres patriae insedissc suprernos,
Alque solum, quo Troia fui! ? Xanlhum el Simoènta
liedde, oro, miscris; ilerumquc rosoliere casus
Da, pater, iliacos Teucris. Tum regia Inno
Acla furore gravi: Quid me alla silenlia cogis
Rumpcre, el obductum verbis vulgarc dolorcm ?
Aencan hominum quisquam divAmque subegil
Bella sequi, aul lioslom regi se inferre Lalino ?
Ilaliam fatis pelli! auclorìbus, rslo,
Cassandrae impulsus furiis: num liaqucrc castra
llorlati sumus, aul vilam commillere venlis?
Num pucro simun, mi belli, num credere murosf
Tvrrhcnamve fldem «ut genlcs agitare quielas f
Quis deus in fraudem, quae dura poteotia nostri
Egil ? Ubi hic Inno, demissave nubibus tris ?
Indignum est, Dalos Troiam circumdare Hammis
Nascenlem, el patria Turnum consislerc terra,
Cui Pilumnus avus, cui diva Venilia mater:
Quid, face Troianos atra vini Terre Lalinis ?
Arva aliena iugo premere, alque avertere praedas?
Quid, soceros logore, el gremiis abdueere paclas?
Pacem orare manu, praeflgere puppibus arma ?
Tu poles Aencan omnibus subducere GraiAm,
Proque viro nebulam el ventos oblondere inanes;
El pules in lolidem classeui convcrlcre Nymphas:
E 'n su' ripari e ’n su le lor difese
Son combattuti : e la lor propria fossa
E di lor sangue un lago Di ciò nulla
Il mio figlio non sa: tanto n’ è lungo.
Or non ila eh' una volta esca d' assedio
Questa misera genie? Ecco hsn le mura
De P altra Troia altri nimici attorno ;
Altro esercito in campo; un' altra volta
D' Arpi vico Diomede a' danni suoi.
Resta, crcd' io, eh' un' altra volta ancora
l i sia da lui ferita, e che di nuovo
Sia la tua figlia a mortai ferro esposta.
Signor, se conira la lua voglia i Teucri
Son vcnuli in Italia, è ben ragione
die sian puniti, e del tuo aiuto indegni :
Ma se traili vi sono, e s’è lor dato
Da gli oracoli lutti e de' celesti
E de gl’ inferni; qual può senno o forza
A Giove opporsi, e far nuovo destino ?
Cb’ io non vo' dir de le combuste navi
Su la spiaggia Ericina, nè de' venti
Che 'I re spinse d' Eolia a tempestarlo,
Nè d‘ Iri clic di qui fu già mandata
Per darle al foco. Infin da l’ Acheronte
Tratte Ita le Furie ( questa sol mancava
Parie de l‘ universo non tentala
A loro offesa ), d’ Acheronte, dico,
Ila tratta Alello a suscitar T Italia
Inconlr' a loro. Or, signor mio, non curo
Più d’ altro imperio. Io lo sperata allora
Ch'era più fortunata. Imperi e vinca
Or chi V aggrada. E s' anco non £ loco
Nel inondo, ove a la tua dura consorte
Piaccia che sian quest’ infelici accolli,
Per l’ incendio, Signor, per la rùina,
E per la solitudine ti prego
De la mia Troia, che ritrar mi lasci
Salvo da questa guerra Ascanio almeno.
Lasciami, padre mio, questo nipote
Mantener vivo; e se ne vada Enea
Ramingo, ovunque il mare o la fortuna
Lo si tramandi, lo lo terrò da l'aruii
Remolo ne' mici lochi, o d' Amatunla,
0 d' idalio, o di Pafo, o di Citéra,
A menar vita ignobile e privata,
Pur che sicura. E lu, come a te piace,
Comanda eh' a l’ Ausonia il giogo imposto
Sia da Cartago, si che più non l’ osti
In alcun tempo. Or che, padre, ne giova
Che da l' occisioni e da gl' incendi
De la lor patria e da lant' altri rischi
Sian già dei mare e de la terra usciti ?
E clic vai che da le sia lor promessa,
Da lor tanto ricerca, c già Dovala
Questa Troia novella, se di nuovo
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210
DELL’ ENEIDE
N'os aliquid Rullilo* conira iuvisse, nefandum est ?
Acneas ignarus abusi: iguaru* cl absil.
Est Paphus, Idaliumque libi, suol alla Cylhcra:
Quid graiidam belli* urbcm cl corda aspcra Itola* ?
Nosne libi fluias Phrygiac rea venere fundo
Conamur ? nos ? an miseros qui Troas Achilli
Obiccil ? Quac causa Tuil, cousurgerc ili arma
Europanique Asiamque, el foedera solvcrc furio T
Me duce Daulanius Sparlam espugnavi! aduller ?
Aut ego tela dodi, fovivc Cupidinc bella ?
Tuoi dccuil mctuissc tuis; nunc sera quereli*
llaiid iuslis assurgi*, el irrita iurgia iaclas.
Convien che cagglaf Assai meglio sarebbe
Che fosser Ira le ceneri e nel guasto,
Dove fu l'allra. A Xanlo, a Simòenla
Fa’ li prego, signor, che si radduca
Questa genie infelice, e che ritorni
A passar d'ilio i guai. Giunone allora
Infuriala, A che, disse, mi lenii.
Perdi' io rompa il silenzio, e mostri il duolo
Ch' ho portalo nel cor gran lempo ascoso ?
Qual è mai per lua fé sialo uomo, o dio,
Ch' Enea sfuriasse a cercar briga ? a farsi
Nemico il re Latino 7 Oh 'I Falò addotto
L’ ha ne l' Italia I Si, ma da le furie
C'è spinto di Cassandra. E chi gli Ita dato
Consiglio, io forse 7 ch* abbandoni i suoi ?
lo, clic dia la sua vita in preda a' venti 7
Io, che la cura e'I carco de la guerra
Lasci in man d’ un fanciullo 7 e che sollevi
I popoli Tirreni, e l’ altre genti
Clic si stavano in pace ? E quale iddio,
Qual mia durczia de’lor danni è rea 7
Qui die rileva o di Giunon lo sdegno,
0 d' Iri il ministero! Indegna cosa
È certo che da gl' Itali s' infesti
Questa tua nuova Troia. E degno e giusto
Sarà che Turno non si stia sicuro
Ne la sua patria terra? un tal nipote
Di Pilunno eh’ è divo, un tanto figlio
Di Venllia eh' è ninfa 7 E degna cosa
Ti par che muova Enea la guerra a Lazio ?
Ch' assalga, che soggioghi, che depreda
Le terre altrui? che l' altrui donne usurpi ?
Ch’ in man porli la pace, e che per mare
E per terra armi ? Tu potrai tuo figlio
Scampar da' Greci; tu riporre invece
Di lui la nebbia c 'I vento; tu la forma
Cangiar delle sue navi in altrettante
Ninfe di mare; ed io cosa nefanda
Forò se porgo a' Bululi un aiuto,
Per minimo che sia? Non v’ è tuo figlio
Presente; non vi sia : non sa; non sappia.
Sci regina di Pafo, d' Amatunla,
Di Citerò e d' ldalio : e che vai dunque
Provocando con l’ armi una contrada
Non tua, pregna di guerre? e stuzzicando
SI bellicosa gente? Ed io son quella,
lo, che l' afflitte lor fortune agogno
Di porre al fondo ? E perchè non piò tosto
Chi de' Greci a le man gli pose in prima ?
Chi prima fu cagion eh' a guerra addusse
L’ Europa c l’ Asia ? Chi commise il furto
Che fu de la rottura il primo seme ?
lo condussi l' adultero pastore
A l’ impresa di Sparla ? Io fui eli’ a l' armi,
lo di' a l' amor l' accesi. Allora il tempo
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LIBRO DECIMO
211
Talibus orabai Iuno: cunclìquc frcmcbanl
Coelicolac asscnsu vario; ccu fiamma prima
Quum deprensa frcmunl silvia, ci cacca volulant
Murmura, venturos naulis prodentia vcnlos.
Tum pater omnipolens, rerum cui somma potcslas,
Infit. Eo diccntc deflm domus alta silescit,
Et tremefacta solo tellus; siici arduus aelher;
Tum Zcphyri posucre; prcmil placida aequora ponlus.
Accipilc ergo, animi* alque liacc mea figile dieta.
Quandoquidcm Ausonios coniungi foedere Teucris
Ila ud licilum, ncc vostra capii discordia flneni:
Quac cuiquc est fortuna bodie, quam quisque sccat
spem,
Tros Rutulusvc fuat, nullo discrimine habebo;
Scu falis llalùm castra obsidionc Icnenlur,
Sivc errore malo Troiae monilisquc sinistris.
Nec Rululns solvo. Sua cuiquc ciorsa laborcm
Forlunamquc ferenl. Re* lupiler omnibus idem.
Falò viam invenient. Siygii per flumina fratris,
Per pice lorrenles alraquo voragine ripas
Adnuit, cl lolum nulu Iremefecit Olympum.
Hic linis fandi. Solio lum lupiler aureo
Surgil, coelicolac medium quem ad limina ducimi.
Inlerea Rutuli porlis circum omnibus inslant
Stemerc cacdc viros, el moenia cingere flammis.
At legio Aencadum vallis obscssa tcnelur;
Ncc spes ulta fugac. Miseri stani lurribus allis
NYquidquam, el rara muros cinvcre corona:
Asius Imbrasides, Ilicelaoniusquc Thyinoeles,
Assaraciquc duo. el senior cum Castore Thymbris,
Prima acies. Ilos permani Sarpcdonis ambo,
Et Clarus cl Tlicmon, Lycia comilanlur ab alta.
Feri ingcns lolo connixus corpore sa x uni,
Ilaud partem exiguam monlis, Lyrnesius Acmon,
Noe Clytio genitore minor, nec fralre lleneslheo.
Ili iaculis, illi cerlanl defendere saxis,
Molirique ignem, nervoque aplarc sagillas.
Ipsc inicr medio». Veneri» iustissima cura,
Dardanius capul, ecce, puer delcclus honcslum,
Qualis gemma, micat, fulvum quac dividii aururu,
Aul collo decus, aul capili; vcl quale per arlem
Inclusum buio, aul Oncia lircbinlbo,
Fu d'aver tema e gelosia de* tuoi,
Non or che le querele c le rampogne
Che ne fai, sono ingiuste c Iarde c vane.
Così Giuno dicca; quando fremendo
Gli dei tulli mostràr, che chi con questa
Consenlian, chi con quella. In guisa tale
S’ odono i primi venti entro una selva
Mormorar lungc, c non veduti ancora
Porgere a' marinai indizio e tema
Di propinqua tempesta. Allor del ciclo
Il sommo, eterno, onnipotente Padre
Riprese a dire. Al suo parlar chetossi
La celeste inagion; chctàrsi i venti,
E l' aria c P onde; e sola inflno al centro
Tremò la terra. Ei disse : Or clic gli Ausonii
Confederar co* Teucri nc si toglie,
E voi tra voi non v* accordale, udite
Quel eli* io vi dico, e i mici detti avvertite.
| Quella stessa fortuna quella speme.
Qual eli* ella sia, che i Rutuli o i Troiani
Oggi da lor faransi, io vi prometto
| Aver per rata, e non punto inchinarmi
Più da quei che da questi : c sia P assedio
| De* Teucri o per destino, o per errore,
0 per false risposte. E ciò dico anco
De' Rutuli. Il successo c buono e rio
Fia d’ una parte e d’ altra qual ciascuna
Per sè lo s’ordirà; Giove con ambi
Si starà parimente, e ’1 Palo in mezzo.
Cosi detto, il torrente c la vorago
E la squallida ripa e P atra pece
D* Acheronte giurando, abbassò *1 ciglio,
E tremar fé* col cenno il mondo lutto.
Finito il ragionar, suso lev ossi
Dei seggio d* oro; e gli fór tutti intorno
Corona c compagnia fino a P albergo.
L* esercito ile* Rululi stringendo
L' assedio, intanto, in su le porte c ’nlorno
Facca de la muraglia incendi c stragi ;
E i Teucri assediali, entro a i ripari
E sopra a i torrioni a la difesa
Siavan, miseri ! indarno; e senza speme
Di fuga un raro cerchio avean disteso
Su per le mura. Era de' primi Àso
D' Imbrasio il tìglio, e ’l figlio d'icclónc
Dello Timcle, e ’l buon Castore insieme
Col vecchio Tembro, ed ambi dopo questi
Di Sarpedonte i frati : e Chiaro, c Temo
Onor di Licia, c di Lirncsso Aminone.
Questi con un gran sasso era venuto
Su la muraglia, clic ’l maggior estollo
Era d’ un monte; cd egli era non punto
Minor del padre Clizio c di Mcncslo
Suo famoso fratello. Altri con sassi,
Altri con dardi, c chi con le saelle,
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212
DEM: ENEIDE
Lucei ebur; fusos cervi* cui laelea crincs
Accipit cl molli subneclens circulus auro.
Te quoque magnanimae viderunt, Ismare, gentcs
Vulnera dirigere el calamo* armare veneno,
Maconia generose domo: ubi pinguia culla
Excrccnlque viri, Pactolosque irrigai auro.
Ad Tu il el Mnesthcus, quem pulsi pristina Turni
Aggcrc mocrorum sublimcm gloria lollit,
Et Capys: bine nomcn Ganipanac ducilur urbi.
Pandite nunc llclicona, deae, canlusque movele;
E chi col foco a guardia eran elei muro.
In mezzo de lo schiere il vago Iulo,
Gran nipote di Dnrdano c gran cura
De la bella Ciprigna, il volto e ’l capo
Ignudo, risplendca qual chiara gemma
Che in òr legata altrui raggi dal petto
0 da la fronte; o qual da dotta mano
In ebano commesso, o in terebinto
Candido avorio a gli occhi s* appresenla.
Sovra al collo di latte il biondo crino
Avea disteso, e d* oro un lento nastro
Gli facea sotto e fregio insieme e nodo.
Isniaro, e tu fra si famosa gente
Con l’ arco saettar ferite e tosco
Fosti veduto, generosa pianta
Del Meonio paese, ove fecondi
Sono i campi di biade, e i fiumi d* oro.
Mnesteo v’ era ancor egli, a cui la fuga
Dianzi di Turno avea gloria acquistata,
Ond’ era fino ot ciel sublime e chiaro.
Eravi Capi, onde poi Capua il nome
E l' origine ha presa.
Avcan costoro
Tra lor diviso il carico e*l periglio
Di si dura battaglia. E 'n questo mentre
Solcava Enea di mezza notte il mare.
Egli, poiché d’ Evandro ebbe lasciato
L* amico albergo, e che nel campo giunto
Fu degli Elrusci, al rege appresontossi.
E cou lui ristringendosi, il suo nome,
Il suo legnnggio, la sua pairia, in somma
Chi fosse, die chiedesse, che portasse
Gli espose; e qual Mcienzio appoggio avesse,
E l'orgoglio di Turno, c l’ apparecchio
K l’ incostanza de I' umane coso
Gli pose avanti. A le ragioni aggiunse
Esempi e preci si, eh 1 immantinente
Tarcontc acconsentì. Slrinser la lega,
Unir le forze, cd appreslàr le genti
In un momento. Di straniero duce
Provvisti i Lidii, e già dal Fato sciolti
Salir sovra l'armata. E pria di tutti
Uscio d* Enea la capitana avanti.
Questa avea sotto al suo rostro dipinti.
Quai sotto al carro de la madre Idea,
Due che 'I legno Iracan Frigii leoni,
E d' Ida gli pendea di sopra il monte.
Amaro suo disto, dolce ricordo
Del patrio nido. In su la poppa assiso
Slava il duce Troiano : e da sinistra
Avea d’ Evandro il figlio, che tra via
1/ interrogava or del viaggio stesso
E de le stette, ed or de gli altri suoi
0 per terra o per mar passati affanni.
Apritemi Elicona, alme sorelle,
(Ili intcr scse duri ccrlamina belli
Conlulcranl: media Aencas Trota norie sccabat.
Namque ut, oh Evandro castri» ingressus Etruscis,
Regem adii, et regi memorai nomenque genusque;
Quidve pelai, quidve ipse forai; Mezcnlius arma
Quac sibi conciliel; violcnlaque pretore Turni
Edocet; humanis quae sii fiducia rebus
Admonet, imnmcelque prcccs: haud fll mora : Tarcho
lungil opcs, foedusque ferii; turo libera fati
Classem conscciulit iussìs gens Lydia divftm,
Esterno commusa duci. AeucTa puppis
Prima tcnct, rostro Phrygios subiuncla leoncs.
Immincl Ida super, profugis gratissima Teucris.
Hic magnus sedei Acneas, secumque volutat
Eventus belli varios; Pallosque sinistro
Afllxus lateri iam quacril sidera, opacac
Noclis iter, iam quae passus terraque marique.
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;
UDRÒ DECIMO 213
Qtiae mnnus inlcrca Tusris comiletur ab ori*
Aencan, ormelquc ratcs, pelagoquc vebalur.
Massico* aorala princops sorai aequora ligri:
Sub quo mille manus iuvrnum, qui moonia Clusl,
Quiquc urbem liquore Cosas: qu)s tela sngillae
Goryliquc levos humeris el lelifer arcus.
Una lorvus Abas: buie (otum insignibus armi*
Agmcn, et aurato fulgebal Àpollìne puppis.
Sexcentos illi (lederai Populonia maier
Eiporlos belli iuvenes; asl Uva Irecenlos
Insula, inexbaiislis Cbalybum generosa metollis.
Tertius, ille hominum divftmque inlerpres Asilas,
Cui pecudum fìbrae, coeli cui sidera parcnt,
Fi linguac volucrum, el praesagi lulminis ignes,
Mille rapii densos arie appio horrenlibus basii*,
llos parere iubenl Alpbeae ab origine Pisae,
Urbs Elrusca solo. Sequitur pnldierrimus Aslur,
Aslur equo fidens cl versicoloribus armi*.
Terccnlum adiiciunl (mens omnibus una sequendi ),
Qui Caerelc domo, qui sunl Minionis in arvis,
Et Pyrgi velerei, intcmpestacque Graviscae.
Non ego le, Ligurum durlor forliss ; me l*ello,
Tra risieri m, Cinyra et paucis comitale Cupavo,
Cuius olorinae surgunl de veri ice penane,
C.rimen, Amor, veslrum, formneque insigne paterna?.
Namque ferunt, luclu Cycnum Phaèihonlis amali,
Populeas inler frondes umbramque sororum
Duin cani!, et mocslum Musa solatur amorem,
Canenlem molli piuma duxisse senecioni,
Linqucntem lerras, et sidera voce sequenlcm.
Filius, acquale* comilaius classe caterva*,
Ingenlcm remi* Centaurum promovei; ille
Instai aquac, sa.vumque undis immane minalur
Arduus, el longa sulcal maria alia carina.
Ilio eliam patriis agmcn ciel Ornus ab oris,
Falidicae Manlus cl Tusci fìlius amnis,
Qui niuros mairisque dedii libi, Manina, nomen,
Manina, dives avis; sed non genus omnibus unum.
Gens illi Iriplcx, popoli sub genie qualerni;
Ipsa caput populis; Tu sco de sanguine vires.
Virgilio vol. muco
E cantale con me che genie c quanta
D* Klrnria Enea seguisse, c di clic parie,
E con qual armi, c come il mar solcasse.
Massico il primo in su la tigre imposto
Avea di mille giovani un drappello
Che di Chiusi e di Cosa cran venuti
Con I* arco in mano e con sacllc a' (lancili.
Appresso a lui seguendo il lorvo Abanle
Sodo l'insegna del doralo Apollo
Seicento n’ imbarcò di Populonia,
Trecento d' Elba, in cui ferrigna vena
Abbonda sì clic erano ancor essi
Dal capo a i piè tulli di ferro armali.
Asila il terzo, sacerdote e mago
Che di libre e di fulmini c d’ uccelli
E di stelle era interprete e ’ndovino.
Mille ne conducca, eh* un* ordinanza
Facean lulla di picche, e lutti a Pisa
Eran suggelli, a la novella Pisa
Che, già figlia d’ Àlféo, d'Arno ora è sposa.
Astore, ardito cavalicro c bello
E con bell’ armi di color diverse,
Vicn dopo questi con Irccenlo appresso
Di vari lochi, ma d'un solo amore
Accesi a seguitarlo. Eran marnimi
Da Cerclc e da i campi di Mignone,
Da i Pirgi anllchi e da 1* aperte spiagge
De la non salutifera Gravisca.
Di le non lacerò, Cigno gentile,
Di Cupavo dicendo, ancor che poche
Fosscr le grilli sue. Questi di Cigno
Era figliuolo, onde ne 1* elmo uvea
De le sue penne un candido cimiero
In memoria del padre, e de la nuova
Forma in eli* ei si cangiò, lua colpa, Amore.
Cbè de l’ amor di Faetonte acceso,
Come si dice, mentre clic piangendo
Slava la morie sua, mentre cb'a l'ombra
De le pioppo, che pria gti eran sorelle,
Sfogava con la Musa il suo dolore;
Fatto cantando già canuto e vèglio
In augel si converse, c con la voce
E con I* ali da (erra al cielo alzossi.
Il suo figlio co* suoi portava un legno
A cui tolto la prora c sopra l’ onde
Slava un centauro minaccioso e loivo,
Clic con le braccia e con un sasso in allo
Sembrava di ferirle, e via correndo
Col pello le Tacca spumose c bianche.
Ocno poscia venia, del Tosco fiume
E di Manto indovina il chiaro figlio.
Che le, mia patria, eresse, e che del nome
De la gran madre sua Manlun li disse;
Manlua d’allo legnaggio, illustre e. ricca,
E non d’ un sangue. Tre le genti sono,
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2li
DELL' ENEIDE
liinc quoque quHigenlos in so Mczenlius armai,
Quos patre Benaco velalus arumline glauca
Mincius infosla dticebal in acquora pimi.
Il gravis Aulestes, cenlenaque arbore flnrltim
Verberal assurge»*: spuma»! vada marmorc verso.
Hunc vchil immani* Trilon el ramila concila
Kxterrcns troia: cui laterum lenus hispida nauti
Frons hominem praefert, in prislin desimi alvus;
Spumea semifero sub peclorc niurmural unda.
Tol ledi proceres ler denis navibus ibanl
Subsidio Troiue, el campus salis aere secabanl.
Iamquc d es melo roncesseral, almaque corro
Nodivago Phoebe medium pulsabat Olympum:
Acneas ( neque enim mcmbris dal cura quiclem )
Ipse scdcns clavumque regii vclisquc minislral.
Alque illi medio in spalio elioni*, ecce, sunrum
Occurril comilum; Nymphae, qnas alma Cybcle
Numeri habere maris. Nymphasquc e navibus esse
lusserai, innabanl pariler, fluctusque serabant,
Qùol prius aeralae sleleranl ad lilora prorae.
Agnoscunl longe regem, luslranlquc elion i s.
Quarum quac fandi dottissima, Cymodorea,
Pone sequens delira puppiro lenel, ipsaque dorso
Emine!, ac lae*a lacitis subremigat undis.
Tum sic ignarum alloquilur: Vigilnsne, definì gens.
Acnca ? Vigila, et velis immille rudenles.
Nos sumus, Idaeae sacro de verlice pinus,
Nunc potagi Nympbnc. classis tua. Perfìdus ut nos
Praecipiles ferro Rutul us flommaque premebat,
P.upimus invilae tua vincula, teque per aequor
Quaerimus Itane Gcnclrix faciem miserala rcfccil.
Et dedii esse dea*, oevumque agitare sub undis.
Al pucr Ascauius muro fossisque lenetur
Tela inter media alque horrenles Marte Latinos.
Inni loca iussa lenel torli permixlus Etrusco
Àrcas eques. Medias illit opponere lumia*,
Ne caslris iungant, certa est sentenlia Turno.
Surge age, el Aurora socios veniente vocali
Primus in arma iube, el ciipeum cape, quern dedii ip'i
Inviclum ignipolens, alque oras ambili auro.
Crasi ina lux, mea si non irrita dieta pillar is,
Ingcnles Ruiulae speclabii caedis acervos.
Dixerat: et dexlra discedens impubi allam,
Ilaud ignara modi, puppim. Fugil illa per undas
Odor el iaculo et ventos acquante sagitta.
Inde aline colorali! cursus. Slupet insci us ipse
E de le Ire ciascuna a quattro impera.
Di cui lulle ella è capo, e tutte insieme
Sun con le forze de I’ Elruria unite.
Quinci ne tur contro Mezcnzio armali
Cinquecento altri; e Minrio mi tiglio alloro
Del gran BéTiaco fu dm gli condusse
Di verdi canne inghirlandato il Tronic.
Giva il superbo Auleste con un legno
Di cento travi il mar solcando in guisa
Clic spumante il face*, sonoro e crespo.
Premea lo spalle d* un Tritóne immane
Clic con la cava sua cerulea conca
Tremar si Tacca l' acqua e i liti intorno.
Dal mezzo in su, la fronte ispido e ’l menta
Sembra d' umana forma; c T ventre in pesce
Gli si rislringc, c col ferino pcllo
Fende il mar si clic rumoreggia e spuma.
Da quesii eleni croi, con queste genti
Eran 1* onde Tirrene allor solcale
In sussidio di Troia.
E già dal cielo
Caduto il giorno, era de E orla in cima
La vaga Luna, quando il Frigio duce
Or al limone, or a la vela intento
Co’ suoi pensicr vegliava. Ed ecco avanti
Nuotando gli si fa di Ninfe un coro.
Di lui prima compagne, c quelle stesse
Clic, già sue navi, da Cibele in Ninfe
Furo» converse, e dee falle del mare.
Tante in frolla ne gian per V onde a nuolo
Quante eran navi in prima. E di lontano
Riconosciuto il re, danzando in cerchio
Gli si strinsero intorno. Dna fra I* altre
La più di tulle accorta parlalrice,
Cimodocèa, la sua nave seguendo.
Con la destra a la poppa, e con la manca
Tacila remigando, il capo e il dorso
Solo a galla lenendo, d'improvviso
Cosi gli disse: Enea stirpe divina.
Vegli lu ? Veglia : il fune allenta, e ’l seno
Apri a le vele lue. De la lua classe
Noi fummo i legni e de la selva Idea,
E siamo or Ninfe. I Rullili col foco
N’ hanno c col ferro dipartite e spinte
Da’ tuoi nostro mal grado. Or le cercando
Siam qui venule. Per pietà di noi
La Berecinzia Madre in questa forma
N* ha del mar falle abitatrici e dee.
Ma ’l luo fanciullo Julo in mezzo a l’ armi
Si sla cinto di fos>a e di muraglia
Da’ feroci Lalini assediato.
I tuoi cavalli e gli Arcadi e gli Etrusci
Unitamente hanno già preso il loco
Comandalo da le. Turno disegna
Co' suoi d’ailmcr.'&rli, e porsi in mezzo
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L1BK0 DECIMO
215
Tros Aiicliisiadcs; aiiimos lanieri ornine kiilil.
Tum brevltor supera adspectuns conviva precalur:
Alma parens Idaea deùtn, cui Dimlyinu cordi,
Turrigeraeque uibes, biiugique ad frena (conca;
Tu inibì nunc pugnae priuceps, lu rile propinque*
Auguriuin, Plirygibusque adsi> pede, diva, secondo.
Tannini cfTulus; el interro revoluta ruebal
Matura iam luce dies, nuctcmque fuganti.
Principio soni* cdiril, sigua sequantur,
Alque animos apleot arinis, pugnaeque parchi se.
laniqtie in conspeclu Teucros liabet et sua castra,
Sloiis celsa ili poppi; clipetim quum deinde sinistra
Kvlulil ardenlein. Clamorem ad sidera tollunt
Dardnnidae e muri>; spes addila suscitai (ras:
Tela maini iaciunl. Quale* sub nubibtis airi*
Strymoniae dant signa grues, «Iqiie aelbera Irnnunl
Cum sonito, fugiuiilque nolo* clamore secuudo.
Al Rullilo regi ducibusque ea mira videri
Ausoniis; dorme versa» ad liiora puppes
llespiciunl, lotumque allibi clossibus oequor.
Arde! ape* capili, cristisque a vertice flannna
Fundilur, et vasi os limbo vomit aureus ignes:
Nuli seeus, ac liquida si quando nocle comclau
Sanguinei lugubre rubenl, aul Sirius arder:
llle silim morbosque ferens morlalibus aegris
Nascitur, et laevo contristai luminc coclum.
Ilaud lanieri audaci Turno fiducia ccssil
I. fiora proeeipere, et venienles pellere terra.
| Ultro animos lollil diclis. alque increpat ullro:]
Qnod voti» optasti*, ad est, perfringerc destra.
In manibus Mars Ipse, viri. Nunc coniugi* osto
Tra *1 rompo c loro Or via naviga, approda;
Sorgi tu pria che ’l sole, e sii lu ‘I primo
Ad ordinar le tuo genti a battaglia.
Prendi l' invitto c luminoso scudo
L>a Vulcuu fabbricalo e d' òr commesso.
Clic dimmi, se mi credi, alta e famosa
Farai lu strage de' nemici tuoi.
Ciò disse, e come esperta al legno iu poppa
Tal diè pinta al partir, die più veloce
Corse die dardi* o slral die ’l vculo adegui.
Dietro gli altri ofTretlàr si clic stupore
N* ebbe d' Aneli isc il figlio. K rincoralo
Da sì felice annunzio, al cielo orando
Div Giumente si rivolse, e disse :
j Mina di^a de gli dei gian genitrice,
Di Dindiino regina, die di torri
I Vai coronala e 'li su leoni assisa,
Te per mia duce a questa pugna invoco.
Tu rendi questo augurio e questo giorno,
j Ti priego, a i Frigit tuoi propizio e lieto.
Questo sol disse; e luminoso intanto
Si fece il mondo.
Fi primamente impose
Che ratto al segno suo ciascun ne gisse,
Ch’ ognun s’ armasse, ognuno a la battaglio
Si disponesse. E già venuto a vista
De’ Rullili e de’ Teucri, allo It-vossi
lu su la poppa; s* imbracciò lo scudo,
E lo vibrò sì eli’ ambedue raggiando
Empiè di luce c di baleni i compì.
Di su le mura la Dardnnia gente
Gioiosa intino al cicl le grida alzuro;
E soprngg uniti lu speranza a l' ira
A Irar di nuovo c saettar si diero
Con un rumor, qual sotto l’ atre nubi
Nel dar segno di nembi enei fuggirli
Fan le Slrimonie gru schiamazzo e rombo.
Mentre ciò Turno e gli altri Ausouii duci
Slavan meravigliando, ecco a la riva
Si fa pien d’ armi e di navilii il mare.
Enea di cima al capo e de la cresta
Del fino elmo spargea lampi e scintille
()* ardente, fiamma; e gran lustri e gran fochi
Raggiava de lo scudo il colmo e I* oro,
i Come uè la serena umida notte
j La lugubre e mortifera cometa
Sembra clic sangue avventi; o ’l Sirio rane,
Quando nascendo a' miseri mortali
Ardore c sete e pestilenza apporla,
E col funesto lume il ciel contrista. [me
Non meli per questo ha Turno ardire c spe-
D' occupar prima il filo, e da I* terra
Ributtare i nemici. Egli, animando
E riprendendo la sua gente, avanti
Si spinge a tulli, e grida: E< «o adempito
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DELL* ENEIDE
Quisque suae lectiquc m- mnr; nane magna referto
Facla, patroni laudes. L'Uro occurramus ad uudam,
Dum trepidi, epressisque labanl vestigi.! prima.
Àudenles Fortuna iuvat.
Hacc aii, et scruni versai, quos ducere contro,
Vcl quibus obscssos possi! concrcderc muros.
Inlerea Acnens socio» de puppibtis altis
Pontibus eiponii. Multi servare recursus
Languenti» pelagi, et brevibus se credere solili;
Por remos alii. Speculali!» litora Turrho,
Qua vada non spiranl. ncc frat ta remurmurat mula.
Sed mare inoffensum crescenti allnbilur aeslu;
Adverlit subito proras, sociosqtic precalar:
None, o leda mniius. validi» inrurnbilc rcrais;
Tollite, ferie ralcs; inimicom (indite rostri»
1 lane lerram, suleumque sibi prema! ipsa carina.
Frangere nec tali puppim siatiqnc recuso,
Arrepla tellure semel Quac tali» postquam
EITalus Tarcho: socii eonsurgere tonsis,
Spumantesquc ralcs arTis inferro l.atinis,
Doncc rostro lencnl siecum, et sedere rarinae
Omncs innocuae. Sed non puppis tua, Tarcho.
Namquo, indirla vadis, dorso dum pendei iniquo,
Atireps sostentata din, diiciusquc faligat:
Solv tur, alqnc viros medi» evponit in undis;
Fragmina remorum quos et duiloulia Iranstra
Impediunt, relratiilquc pedem simul umla rclabens.
Nec Tiirnum segni» rclinel mora; sed rapii acer
Tolam aciein in Teucro», et comm in lilore sistit,
Signa ramini Primi» lurmas invadi agreste»
Aeneas, omen pugnile, slraviique Ulitins,
Orciso Therone, virùm qui mavimus ultro
Aenean petit; buie gladio perque aerea sula,
Per tiiiii* ani sqiialcnlcm auro, lalus baurii apertimi.
Inde Lichau ferii, c&scriuni ium maire pcrcnilo,
Vostro maggior disio. P.ù non vi sono
Le mura in mezzo. In voi, ne le man vostre
La pugna e Marte e la vittoria è posta.
Or qui de la sua donna, de' suo* figli,
De la sua casa si rammenti ognuno :
Ognun d’ avanti si proponga i fatti
E le lodi de' padri. Alidiam noi prima
A rincontrargli, ittfln clic fonda e T un lo
Ce gli renile del mar noti fermi aurora.
Via, clfagli ardili è In Fortuna amica.
Dello cosi, va divisando come
Parte lor centra ne conduca, c parte
A I* assedio ne lasci.
Intanto Enea
Per disbarcare i suoi, le scafe e i ponti
Avea già presti. E di lor molti attenti
Al ritorno de' fluiti con un salto
Si lanciarono in secco; e chi eoi remi,
Chi con le travi nc F arena uscirò.
Tnrconlc, poi eli’ ebbe la riva lulla
Ben adocchiala, non là dove il vado
Disperava dei lutto, o dove l'onda
Mormorando frangea, ma dove chela
K senza intoppo avea corso e ricorso.
Voltò le prore; e, Via, disse, compagni,
Via, genie della, ile con lutti i remi
Di tulla forza, c si piagete i legni
Clic si facciati ua lor canale e stazzo.
Dividete co’ rostri e con le prore
Questa nemica terra; in questa lerra
Mi gittate una volta, c che che sia
Segua poi del navile. A questo pregio
Non curo del suo danno: aberri, e pera.
Al detto di Tarconte alto in su' remi
Levarsi; c si co’ rostri a’ Idi urlaro,
Ch’empiér di spuma il mar, di sabbia i campi;
E i legni ludi nc I’ asciutto infissi
Fermarsi interi. Ma non già, Tarconte,
Il legno luo, che d' una ascosa falda
Ebbe di sasso in approdando intoppo;
Dal cui dorso inchinalo, c dal mareggio
Lungamente battuto, al fin del tutto
Aperto c sconquassalo, in mezzo a I' onde
Le genti espose; c *1 peso c l’ imbarazzo
De Farmi, c gli armamenti infranti c sparsi
Del rollo legno, e ’l fluito che rediva
Le leunero impedite e risospinle.
Turno le schiere sue rapidamente
Al mar condusse, e tube in ordinanza
Su ’l lite incontro a’ Teucri le dispose.
Dicroti le trombe il segno. Il Troian duce
Fu che prima assali le torme agresti,
E si fc’ con la strage de’ Lalini
E con la morie di Tcronc in prima
Augurio a la vittoria. Era Teronc
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unno decimo
217
El libi, Plioebc, sacrimi, casus evadere ferri
Quod licuil parvo. Ncc longc, Cissea durum
Immancmquc Gyan, slerncnlcs ognuna clava,
Deiecii lelo: mini illos Ilerculis arma,
Ncc valulae iuverc manus, gcnilorquc Melampus,
Alcidae comes, usque grave* quum terra labore»
Praebuil. Ecce Phnro, voces dum iaclal inertes,
lntorqucns iarulum clamanti sislit in ore.
Tu quoque, llavenlcm prima lanugine malas
Dum sequeris Clylium infelix, nova gnudia, Cydon,
Dardania slralus delira, securus amorum,
Qui iuvenum libi sempcr crani, miserande, iacercs,
Ni frairum stipala cuhors forct obvia, Pilorci
Progenics, seplcm numero, seplenaque loia
Coniiciunt: parlim galea clipcoque resullant
Irrita; deflcxil parlim slringenlia corpus
Alma Venus. Fidum Aeneas atTatur Achalrn:
Suggcre leln milii; non ullum devierà fruirà
Torseril in Rululos, stelerunt quae in corporc Graiùm
lliacis campi». Tum magnani compii haslam,
El iacil: illa volans clipei Iransverbcral aera
Alaeonis, cl thoraca siniul cum pretore rumpil.
lime fraler subii Alcanor, fralrcmque rueulcin
Sustcnlal deliro: traicelo missa lucerlo
Prolinus basta fu gii, servatque cruenta lenorem;
Dcileraquc ci buincro ncrvis moribunda pepeudit.
Tum Numilor, iaculo fralris de corporc mplo,
Aencan pcliit: sed non el figere conira
Ksl licilum, magnique femur perslrimil Achalae.
llic Curibu», lidens primaevo corporc, Clausus
Advcnil el rigida Dryopcm ferii eminus basta
Sub meni uni, graviler pressa, parilerque loquenlis
Yocem nnimamqiie rapii, traicelo gullure; al ille
Fronte ferii lerram, el crussum vomii ore cruorem.
Trcs quoque TlireTcios B >reae de genie suprema,
El trcs, quos Ida» paler et patria Ismara miltit,
Per varios sterilii casus. Accurril Ualesus,
Àuruncneqiic manus; subii el Neplunia prole»,
Insigni» Mcssnpus equi». Espellere Icndunt
Nunc Ili, mine illi; cerlalur limine in ipso
Ausoniac. Magno discorde» actbere venti
Proclia ceu lollunt, animi» el viribus acqui»,
Non ipsi inier se, non nubila, non mare, ccdunl;
Ancep» pugna diu; stani obnixu omnia conira:
llaud aliler Troianac acies aciesque Laiinac
Concurruul, hacrcl pede pes, densusque viro vir.
Un di corpo maggior de gli altri tulli ;
E laido ebbe d' ardir che da sè slesso
luconlr' Enea si mosse. Enea col brando
Tal un colpo gli lras<c, che Io scudo,
Benché ferrato, c la corazza e I banco
Korogli insieme. Indi avventassi a Lica
Che da I* aperte viscere fu tratto
De la già morta madre, e pargoletto,
Preservato dal ferro, a le fu sacro,
Febo, padre di luce ; ed or morendo
Vidima cadde a Marie. Uccise appresso
Cisso feroce, e Già di corpo immane,
Ch* ambi di mazze armali ivan le schiere
De* suoi Teucri atterrando. E lor non valse
Nè d’ Ercole aver I* ormi, nè le broccia
D’erculea forza, nè che già Mdampo
Lor padre in compagnia d* Ercole fosse
Aliar che de la terra a soffrir ebbe
I duri alTaniii. A Faro un dardo trasse
Mentre gridando c millantando incontra
Gli si Tacca. Cotpillo in bocca a punto,
SI che lu chiuse e I* acchetò per sempre.
E lu, Cidon, per le sue mani estinto
Misero I giaceresti a Cliiin appresso
Tuo novo amore, a cui de* primi Bori
Eran le guance colorile a pena ;
Nè più stato saresti esca a gli amori
De* suoi simili, onde mai sempre ardevi ;
Se non che de* fratelli ebbe una schiera
Subitamente addosso. Erari costoro
Selle figli di Forco, e sette dardi
Gli avveniaro in un tempo. Altri de' (piali
Da T elmo e da lo scudo risospinti,
Altri furon da Venere sbattuti
SI eli* o vani, o leggieri il corpo a pena
Leccàr passando. In questa Enea rivolto,
Dammi, disto ad Acato, de gl' intrisi
Nel sangue Greco, c sodo Ilio provati ;
E non fìa colpo in fallo. Una grand* asta
Gli porse Acale in prima, ed ci la trasse
Si che volando nc lo scudo aggiunse
Di Méonc, e la piastra ond’era cinto
E la corazza e ’l pedo gli Indisse.
Alcanor suo fratello nel cadere,
Mentre le braccia al tergo gli puntella,
L* asta nel trapassare, il suo tenore
Continuando, insanguinala e calda
1 a destra gli confisse ; e dii le spalle
Pendè del frate, infin clic I* un già morto,
E I* altro moribondo, a lerra stesi
Giacquero entrambi. Numitóre il terzo
Da questo sconficcandola e da quello,
Laminila incontro Enea Di ferir iui
Non gli successe, ma del grande Acate
Grufliò la coscia lievemente, o scorse.
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DELL’ ENEIDE
Al piirlr ex alia, qua saia rnfanlia tate
Impulciai lorrens arbustaque diruta ripis,
A renda*. instino* aclcs inferro pedeslros,
I l vidil Palla* l.alio dare (erga acquari;
Aspern quis naturo lori dimillcre quando
Sua>ii equos: unum qtiod rebus resini e genio,
Rune prore, nunc dirti* virtulcm accendi! ainaris:
Quo fugili*. sodi ? Por vns el fonia farla,
Por duci» Evandri nnition, derirtnqur bolla,
Spemquo meam, pairiae qua e mine subii annida laudi
Fidile ne pedibu«. Ferro rumpenda por hoslos
E>1 via. Qua gioliti* ilio virftm donsissimus urgel,
Mac vos ol Pa I laura duerni patria alla reposc.il.
>u mina nulla premunì; mortali urgemur ab lioslo
Mortale*; lotidem nobis animaequo manusque
Eroe, mnris magna Claudi! no* tdiiice ponlus;
Dorsi inm lorra fugar. Pelago* Troiainne pelemusT
Ilare nil, el medili* donsos prorumpi! in liosles.
Obvius huic primum. futi* adducili* iniqui*.
Fi! Lagos: lume, magno velli! dum pontiere simun.
Intorto ligi! Irlo, discrimina rostis
Por medium qua spina dabal; haslamque rceeptal
Ossibus liaerenlom. Quom non super occupa! Ilisbo,
Ilio quidem hoc. sporans: nani Pallas ante rumimi,
Dum ruril, inrmi i u in crudeli morte sodali*,
Kiripil, alque oliscili tumido in pulimmo rocondil.
Itine Sllimelum polii, ol llliooii d - genie vollista
Anoliomolum, Ihulamos ausum incestare noverca*.
CI auso, il Sabino, ardilo c poderoso
Qui si mostrò con una picca in inailo,
E Driope iiuoslì nel primo incontro.
Glie n’appuntò noi gorgoglile, c piiisc
Tarilo ohe la parola c 'I Italo c P alma
In un gli tolse. Ed ei cadde boccone,
E per bocca giilò di sangue un fiume.
Carciossi avanti, c tre di Tracia appresso
Ilo la gente di lloren, e Ire de* figli
D* lduulo, alunni d* (smura e di Troia,
In variale guise a terra stese.
Venne a rincontro Alo o, e do gli Aurunci
Un* ordinanza. Di Nell uno il figlio
Me.ssapu i suoi cavalli avanti spinse.
Ed or questi sforzandosi, ed or quelli
l>i cacciare i nemici, in su I* entrata
Si couiLallca d* Dalia. E quai Ira loro
S* azzurrano a le volle avversi, « pari
Di contesa o di forza in aria i tèmi.
Elio nè lor, nè lo nugole, nè T mare
C odor si vede, e lungamente incerta
Sì la mischia travaglia, di' ogni cosa
D ogni parie tumultua e nonlraslu;
Tale appunto do’ Itululi c de* Teucri
Era la pugna, e si fu ra c sì slrella
Elie giunte si vedeau farmi con I* a. mi,
E le man con le mani, e i piè co* piedi.
I>* altra parie ove rap do e torrente
Avca il fiume travolti arbori e sassi,
Da loco malagevole impediti
Gli Arcadi cavalieri a piè smontar».
K no* pedestri assalti ancor non usi.
Da* Latini incalzali, avean le (erga
Già volto a l.azio, quando ( quel dio s* usa
In sì duri parlili) a lor rivolto
Fallante, or oon preghiere, or con rampogno.
Ah compagni, ah fratelli, iva gridando,
Dove fuggite? Per onor di voi,
Per la memoria di luuf altri vostri
Egregi falli, e por l’egregia fama
Per le villorie del gran duce Evandro,
E per la speme che di me conceda
A la paterna lode emula avete.
Non ponete ne’ piè vostra fidanza.
Col ferro aprir la strada ne conviene
Per mezzo di color che là vedete,
Clic più folti n* incalzano c più feri.
Per là comanda I* alla putria nostra
Che voi meco ri* andiate. E di lor nullo
È clic sia dio: son uomini ancor essi
Come siam noi; c noi eom* essi sverno
Il cor, le mani e farmi. E dove, dove
Vi salverete? Non vedete il mare
Clic v* è d’ avanti, c che la terra manca
Al fuggir vostro? E se per fonde ancora
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UlinO DECIMO
2I'J
Vos cliam, gemini, Rutulis ccriili-tis in arvis,
|);iucia, l.aridc Thymberquc, simillimn prole#,
Indiscreta suis gralusque parenlibus error;
At nunc dura dedii vobis discrimina Pallas:
Nam libi, Thymbre, caput Evandrius obstulil ensis:
Tc decisa suuni, Laride, desterà quaeril;
Semianimcsque micanl digiti, ferrumque relraclant.
Arcadas accensos moniti!, et praeclara luenles
Pacla viri, rnixlus d<dor et pndor armai m hosles.
Tum Pallas biiugis fugientem Ithoetea praeter
Traiicit. Hoc spalium, tanlumque morae full Ilo.
Ilo namque procul validam direnerai liaslam:
Quam medius Rhoeteus intercipit, optime Teiilhra,
Te fugiens, fratremque Tyrei»; curruque volul us
Caedit scmianimis Hutulorum calcibus aria.
Ac vclut, optato veutis aeslate coorti»,
Dispersa immiltit silvis incendia pastor;
Correplis subito mediis, exlenditur una
Horrida per lalos acies Vulcani» campos;
llle sedens victor flammns despectal ov«nles;
Non aliler sociAin virlus coil omnis in unum,
Teque iuval, Palla. Sed belli# acer llalesus
Tendil in adversos, seque in sua colbgil arma.
Ilio mactat Ladona, Plieretaque, Dcmodocumque:
Strymonio dcitram fulgenti dcripil ensc
Elatam in iugulum; saxo ferii ora Tlioantis,
Ossaquc dispersil cerebro permixla cruento.
Fata cancns silvis genitor cclarat Hulesiim;
Ut senior loto canentia lumina solvfl,
Iniecere manum Parcae, lelisquc sacranml
Evandri. Quetn sic Pallas petit onte prccatus:
Da nunc, Thybri pater, ferro, quod missile libro,
Fortunam alque vinm duri per peclus Ilalesi.
linee arma exuviasque viri tua quercus habebil.
Audiil illn deus: dum levi! (maona llalesus,
A oca dio infeliv telo dai pcclus inermum.
At non cacdc viri laida pedonila Lausus,
Pars ingcns belli, siili! ngmina: primus Abantem
Opposilum inlerimit, pugnae nodumque mnramquc.
Slernitur Arcadiae pruina; sternuti tur Et r usci;
Et vos, o Graiìs imperdita corpura, Teucri.
Agmina concurrunt ducibusque et vinbus aequis.
Estremi addensent acies; ncc turba (noveri
Tela manusque sinit. Dine Pallas instai et urget,
Itine conlra Lousus (nec niuitnm discrepai aelas),
Egrcgii forma: sed quis fortuna negaral
In patriam reditus. Ipsos concorrere pa«sus
Haud laineu intcr se magni regnatur Olympi
Mox illos sua fata mancnt maiore sub lioslc.
Fuggiste, alfln dove n* andrete ? a Troia !
E, così detto, in mezzo de’ più densi
E de’ più formidabili nemici
Anzi a tulli avventossi. E Lago il primo
Per sua disavventura gli s* oppose.
Slava costui chinato, e per ferirlo
Divelto area di terra un gran macigno,
Quando lo sopraggiunse, c ne In schiena
I ra costa e costa il suo dardo piantogli ;
Si che tirando e d menando a pena
Ne lo ritrasse. Islum, di Ungo amico,
Menlr* egli in cift s* occupa, ebbe speranza
Di vendicarlo, e ’ncoidra gli si mosse:
Ma non gli riuscì ; citò meni' e incauto,
Dal dolor trasportalo c da lo sdegno
Del suo morto compagno, infuriava,
Ne la spada del giovine infll/nssi
Da T un de’ fianchi : onde Iralìlto c smunto
Ne fu di sangue il cor, d’ ira il polmone.
Poscia Stendo uccise ; uccise appresso
Anclicmolo. Costui fu de I* antica
Stirpe di Reto, incestuoso amante
Di sua matrigna. E voi, Laride e Timbro,
Figli di Dauco, ambi d’un parto nati,
Per le sue man cadeste. Eran costoro
Sì I’ un del lutto a l’ altro somigliante.
(.he dal padre indistinti e da la madre
Faccan lor grato errore e dolce inganno.
Sol or Pallante ( alti I troppo duramente )
Vi fé’ diversi : eli’ a te ’l capo netto.
Timbro, recise ; n le, I. aride, in terra
Mandò la destra. E questa anche guizzando
Te per suo riconobbe, e con le dila
Strinse il luo ferro, e ’l brancicò più volle,
(ìli Arcadi da* conforti e da le prove
Accesi di Pallante, e per dolore
E per vergogna di furor s’ arniaro
Conira i nemici. Seguitò Pallante ;
Ed a Reléo ch’era fuggendo in volta
Sopra una biga, nel passargli a canto
Trasse d’ un’ asta ; e tanto Ilo il’ indugio
Ebbe a la morie sua, eh’ ad Ilo indritio
Era quel colpo in prima. Ma Ib lèo
Venne di mezzo, e ricevei lo in vece
D’ altri colpi, che dietro minacciando
(ìli veniali Teucro c Tiro i duo buon frali,
Elie gli eran sopra. Traboccò dui curro
Mezzo tra vivo c morto, e calcitrando
De’ Rululi battè 1* amica terra.
Come il pastor ne’ dolci estivi giorni
A lo spirar de’ venti il foco accende
In qualche selva : che diversamente
lo sparge in prima; e con diversi incendi
Subito di Vulcau ne va la schiera
Ciò eh* è di mezzo divorando in guisa
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DELL* ENEIDE
Cir un sol divento; ed ci stassi in disparte
Del fatto altero, e di veder gioioso
La vincitrice fiamma, e V arso bosco :
Così 'I valor de gli Arcadi ristretto
Per soccorrer l’aliante insieme unissi.
Ma ’l bellicoso Aléso incontro a loro
Si ristrinse ancor ei con l’armi sue,
E Ladrone e Demódoco o Feretro
Uccise in prima. Indi a Slrimonio un colpo
Trasse di spada che la destra mano,
Mentre con un pugnai gli era a la gola,
Gli recise di netto. E si d' un sasso
Ferì Tountc in volto, che gl’ infranse .
Il teschio tutto, e ne schizzàr col sangue
L’ ossa e ’l cervello Era d’ Aléso il padre
Mago c 'mimino; e del suo figlio 'I fato
Avca previsto; onde gran tempo ascoso
In una selva il tenne. E non per questo
Franse il destino; chè già vèglio a pena
Chiusi ebbe gli occhi, che le Parche addosso
Gli dier di mono: onde a morir devoto
Fu per I* armi d' Evandro. Incontro a lui
Mosse Fallante in colai guisa orando:
Dà , Padre Tebro, a questo dardo indrizzo,
Fortuna e strada, ond'i» nel petto il pianti
Del duro Aléso : e *1 dardo e le sue spoglie
A tc fìan poscia in questa quercia appese.
Udillo il Tebro : c mentre Aléso aita
Porgendo ad Imiion, lo scudo stende
Per coprir lui, sè stesso discoverse
Al colpo di Pallanlc, c morto cadde.
I*auso, che de la pugna era gran parte,
Visto al cader d' un sì degno campione
Caduta la contesa e I* ardimento
De le schiere Latine, egli in sua vece
Tosto avanti si spinse c rinfrnncolle.
E prima di sua mano Abante ancise,
Ch' era di quella zuffa un duro intoppo,
E de' nemici il più saldo sostegno.
Or qui strage si fa d* Arcadi insieme,
K de* Toschi, c di voi Troiani intatti
Ancor de’ Greci. E qui d* ambe le parti
Tutti con lutti ad affrontar si vanno.
Pari le forze e pari i capitani
Son d' ambi i lati; e quinci e quindi ardenti
Si ristringono in guisa che gli estremi
Fanno ancor calco e’mpedimenlo a’ primi.
Da questa parte sta Pallanlc, e Lauso
Da quella, i suoi ciascuno inanimando,
Spingendo c combattendo. E V un diverso
Non è mollo da 1* altro nè d* elafe,
Nè di bellezza; c patimento il Tato
A ciascuno ha di lor tolto il ritorno
Ne la sua patria. E non però tra loro
S* aflronlàr mai ; chè T regna lor celeste
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unno DECIMO
221
Inlcrca soror alma monel succurrere Lauso
Turnum; qui volucri curru medium secai agmoii.
Ul vidil soeìos: Tcmpus dcsislcrc pugnae;
Solus ego in Pallanta feror; soli milii Pallas
Dcbctur; cupcrcm ipse parens spcelalor adcssel.
Ilacc ait; el socii ctsscrunl acquore iusso.
Al. Kululfim abscessu, iuvenis lum, lussa su|>«rba
Miralus, slupel in Turno, corpusque per ingens
Lumina volvil, oblique truci procul omnia risu;
Talibus cl diclis il conira dieta lyrannl:
Aul spoliis ego iam raplis laudabor opimis,
Aul telo insigni. Sorli pater aequus ulrique est.
Tollc minas. Kalua medium procedit in aequor.
Frigidus Arcadibus roil in praecordia sanguis.
Desiluil Turnus biiugis; pedes apparai ire
Comminus. Ulque leo, specula quum ridii ob alla
Stare procul campis medilanlem in proelia laurum,
Advolat; haud alia esl Turni venienlis imago,
liunc ubi contiguum missae fore credidit baslac.
Ire prior Pallas, si qua fors adiurel ausum
Viribus imparibus, magnumque ita ad aclhera Tallir:
Per palris iiospilium, et mensas, quas advena adisti,
Te precor, Alcide, coeplis ingcniibus adsis.
Cerna! semineci sibi me capere arma cruenta;
Victorcmquc ferant morienlia lumina Turni.
Audiit Alcidcs iuvenein, magnumque sub imo
Corde premi! gemilum, lacrimasquo cITudit inanes.
Tum Genitor nalum diclis alTalur amicis:
Stai sua cuique dies; breve et irreparabile leraipus •
Omnibus est vi toc: sed ramaio estendere faci».
Hoc virtulis opus. Troiac sub mocnibus allis
Tot guati cecidere definì; quii) uccidi! una
Sarpcdon, mea progcnics. Elioni sua ’l urnum
Fata vocant, mclasquc dati pervciiit ad aeri.
Sic ait, atque oculos Rululorum reiicit arvis.
At Pallas magnis cmiilit viribus hastam,
Vaginaquc cava (ulgcntem dcripit enscm.
llla volans, humcris surguni qua legmina summa,
Incidi!, atque, viam clipei molila per oras.
Tandem etiam magno strinili de corpore Turni.
Ilic Turnus ferro pracilium robur aculo
In Pallanta diu librans iacit, alque ila Tatui;
Adspice, num mage sii nostrum penetrabile tclum.
Duerni; at clipcum, tot ferri terga, lol aeris
Quum pellis lotiens obeal circumdaU lauri,
Vibrami medium cuspii Iransverberal iciu,
Loricaeque moras el peclus perforai ingens.
■Ile rapii calidum frustra de vulnere telum:
Una eadcmque via sanguis animusque sequunlur.
Corruit in vulnus; sonilum super arma dedere;
Et terram lioslilcm moriens petit ore cruento.
Quem Turnus super adsistons:
Arcadcs, liaec, iuquii, memores mea dieta refcrlc
Virgilio voi. csico.
Riserbava la morie d' ambedue
A nemici maggiori.
In questo meno
La Ninfa, che di Turno era sorella,
il suo frate avvcrliscc, che soccorso
Procuri a Lauso. Ond'ci tosto col carro
Le schiere attraversando, a' suoi compagni
Giunto die fu, \ ia, disse, or non è tempo
Che voi piti combattiate, lo sol nc vado
Contro Pallanle: a me solo è dovuta
La motte suo : così il suo padre stesso
V" intervenisse, e spellalor nc fosse.
Detto eh' egli ebbe, incontanente i suoi,
Siccome imposto avea, del campo uscirò.
Pallanle, visti i Rullili ritrarsi,
E lui sentendo, che con tanto orgoglio
Lor comandava; poscia che 'I conobbe,
Lo squadrò lutto, e stupido fcrmossi
A veder si gran corpo. Indi feroce
Gli ocelli intorno girando, a i detti suoi
Cosi rispose : Oggi o d' opime spoglie, .
0 di morte onorala il pregio acquisto.
E'I padre mio ( tal è d' animo invino
Inconlr' ogni fortuna, o buona o rea
Che sia la mia ) nc porrò 'I coro in pace.
Via, che d' altro è meslier clic di minacce.
E, ciò detto, si mosse, e Dero in mezzo
Prcsentossi del campo. Un gel per t' ossa
E per le vene a gli Arcadi nc corse.
E Turno dalla biga con un salto
Lanciossi a terra; eh' assalirla a piedi
Prese consiglio. E qual nero leone
Che, veduto nel pian da lunge un loro
Con le corna a battaglia esercitarsi,
Dal monte si dirupa c rogge c vola.
Tal fu di Turno la sembianza a punto
Nel girgli incontro. Il giovine, che meno
Avea di forze, s' avvisò di tempo
Prender vantaggio, e di provare osando
S' aver potesse in alcun modo amica
Almcn fortuna; e già eli' a tiro d' asla
S’ cran vicini, al ciel rivolto disse :
Ercole, se li fu del padre mio
L'ospizio accetto, c la sua mensa a grado,
Allor che peregrin seco albergasti,
Dammi, li prego, a tanta impresa alta,
SI che Turno egli stesso in chiuder gli occhi
Veggio, e senta morendo ch’a me tocca
Vincere c spogliar lui d’ armi c di vita.
Uditlo Alcide, e per pietà che n' ebbe
Nel suo cor se nc dolse e lagrimonne.
Quantunque indarno. E Giove per conforto
Del tiglio suo, cosi seco nc disse :
Destinato a ciascuno ò il giorno suo ;
E breve in tulli e lubrica e fugace
2'J
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222
DELL’ ENEIDE
Evandro: Qualem mentii, PalLinla remino.
Quisquis honos tumuli, quidquid solamcn humandi csl,
Largior. Houd illi stnbunt Aenei'a parvo
Hospilia. Et laevo pressit pede, lalia fatua,
Ezanimem, rapiens immania pondera belici,
Imprcssumque nefas: una sub nocle iugali
Coesa manus iuvenum fonde, tlialamique cruenti;
Ouac Clonus Eurytidcs multo caelateral auro:
Quo nunc Turnus orai spolio gaudctque potitus.
Moscia mens liominum fati sorlisque futurae,
Et servare modum, rebus sublata sccundis 1
Turno lempus erit, magno quum oplavcril emlum
Intactum Pallanla, et quum spolia isla diemque
Odcril. Al socii multo gemitu lacrimisque
Imposilum scuto referunt Pallanla frcqucnles.
0 dolor alque decus magnum rediture parenti I
llaec le prima dies bello dedit, hacc cadem auferl,
Quum lamen ingentes Butulorum linquis acervos !
E non mai reparabilc sen sola
L’ umana vita. Sol per fama è dato
A gli uomini che siau vivaci e ciliari
Più lungamente. Ma virtulc è quella
Che gli fa tali. E non per questo alcuno
È che non muoia. E quanti ne morirò
Sotto il grand' Ilio, eh’ cran nati in terra
Di voi celesti? E Sarpedonle è morto
Cir era mio figlio; e Turno anco morrà ;
E già de la sua vita è giunto al fine.
Cosi disse, e da' Rullili confini
Torse la vista, Allor l’aliante trasse
Con gran forra il suo dardu, c'I brando strinse
Incontro a Turno. Investi ’1 dardo a punto
Là ’ve’l braccial su l'omero s'aflìbbia,
E tra 'I suo groppo e l'orlo de lo scudo
Come strisciando, di si vasto corpo
Lievemente afferrò la pelle a pena.
Turno, poiché T nodoso e ben ferrato
Suo frassino brandito c bilanciato
Ebbe più volte, Or prova tu, gli disse.
Se T mio va drillo, e se colpisce c fora
Più del tuo ferro: c trasse. Andò ronzando
Per l’aura , e con la punta a punto in mruo
Si piantò de lo scudo. E tante piastre
Di metallo e d'acciaio, e laute cuoia
Ond'era cinto, c la corazza c'I petto
Passogli insieme. Il giovine ferito
Tosto fuor si cavò di corpo il télo;
Ma non gli valse, cliè con esso il sangue
E la vita n'uscio. Cadde boccone
In su la piaga, e tal diè d'armi un crollo.
Che, ancor morendo, la nimica terra
Trepida ne divenne e sanguinosa.
Turno sopra il cadavere fermassi
Alteramente, e disse: Arcadi, udite,
E per me riportate al vostro Evandro,
Che qual di rivedere fa meritato
Il suo Pallante, tal glie ne rimando;
E gli fo grazia, che d'esequie ancora
E di sepolcro e di qual altro fregio.
Che conforto gli sia. Torni e l'onori;
Ch'assai ben caro infino a qui gli costa
L'amicizia d'Enea. Cosi dicendo,
Col manco piè calcò l'estinto corpo:
E d'oro un cinto ne rapi di pondo.
D'artificio e di pregio, ove per mano
Era del buon Eurizio istoriata
La fiera notte, c i sanguinosi letti
Di quell'empie fanciulle, in grembo a cui
Fur già tanfi in un tempo e frati e sposi
Sotto fè d'imeneo giovani ancisi.
Di ques'a spoglia altero e baldanzoso
Vasscne or Turno. 0 cieche umane menti,
Come siete de'fati e del futuro
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LIBRO DECIMO
221
. Poco avvedute! E come olirà ogui modo
Ne'felici successi insuperbite!
Tempo a Turno verrà ch'ogni gran cosa
Ricompreria di non aver pur tocco
Pallente; e le sue spoglie e 'I di clic l'ebbe
In odio gli cadranno. Il morto corpo
Nel suo scudo composto i suoi compagni
Lciàr dal campo, e con solenne pompa
E con molli lamenti, e mollo pianto
Lo riportaro al padre. Oli qual, Pallanlc,
Tornasti al padre tuo gloria e dolore!
Ch'uria stessa giornata, ch'a la guerra
Ti diede, a lui ti tolse. Oh pur gran monti
Lasciasti pria di tuoi nemici cslinlil
Ncc iam lama mali tanti, sed ccrlior auctor Corse la fama, anzi il verace avviso
Advolal Acneae, tenui discrimine leti A l'orecchio d'Enea d’un danno tale
Esse suos: Icmpus, versis succurrcre Teucris. E d’un tanto periglio, che già vólto
Provima quaeque metit gladio, lalumquc per agmen
Ardens limilem agii ferro; le, Turno, superbtim
Caedc nova quaerens. Pallas, Evandcr, in ipsis
Omnia sunt oculis; mensae, quas ad vena primas
Tunc adii!, dcitraeque datac. Snlmonc crealos
Quatuor Ilio iuvenes, lotidem, quos educai Ufcns,
Vivcnles rapii, inrerias quos immolet umbris,
Captivoquc rogi perfundal sanguine flammas.
Inde Mago procul infensam contenderai haslam.
Ille asfu subii; et tremebunda supcrvolal basta;
Et grnua amplcclens effalur talia supplei:
Per palrios Manca, per spes surgenlis luti
Te precor, hanc ammani serves natoque palriquc.
Est domus alla; iaccnl penilus defossa talenta
Cadali argenti; sunt auri pondera facti
Infecliquc milii. Non Ine Victoria Tcucròm
Vcrtilur; aut anima una dabil discrimina tanta.
Divorai. Acneas conira cui talia reddit:
Argenti alque auri memoras quae multa talenta,
Gnalis parco luis. Belli commercia Turnus
Sustulit ista prior iam tum Pallanlc peremlo.
Iloc patris Anchisae Manes, hoc sentii lulus.
Sic fatus galeoni lacta lenel, atque refleza
Cervice oranlis capulo tcnus applicai cnsem.
Kec procul Haemonìdes, Pliocbi Triviaequc saccrdos,
Infula cui sacra redimibat tempora villa,
Totus collucens veste alque insigmbus armis.
Quem congressus agii campo, lapsumquc supcrslans
Immolai, ingenlique umbra tcgil; arma Scrcslus
Leda refert humeris, libi, rei Gradivo, tropacum.
Inslaurant acies Vulcani stirpe crcatus
Caeculus et veniens Marsorum monlibus Umbro.
Dardanides conira furil Amuris cnsc sinislram
Et lotum clipei ferro deicccrat orbem.
Dixerat ille aliquid magnum, vimque affore verbo
Credideral, coeloque animum forlasse ferebat,
Canitiemque sibi et longos promiserai aiiuos.
Tarquilus evsullans ronlra fulgcnlibus armis,
Era il suo campo in fuga. Incontanente
Si fa col ferro una spianata intorno;
Poscia s'apre una vio, di le cercando,
Turno, e’I tuo rintuzzar cresciuto orgoglio
Per la vittoria di Pallanlc ucciso.
Pallanlc, Evandro e raccoglierne loro
E le lor mense, ove con tanto amore
Forcslicr fu raccolto, e la contralta
Già tra loro amistà d'avanli a gli occhi
Si vedea sempre. E per onore a l'ombra
De l'amico, e per vittima al grand'Orco
Molli giovani avea già destinati
Vivi sacrificar sopra al suo rogo;
E di già ne Tacca quattro d'Ufenlc
Addur legati, c quattro di Sulmona.
E Ira via combattendo, incontra Mago
Tirò d’un’ asta, a cui sotto chinossi
L’astuto a tempo si clic sopra al capo
Gli trapassò divincolando il colpo;
E ratto risorgendo, umilemenlc
Gii abbracciò le ginocchia, c cosi disse:
Per tuo padre, c tuo figlio mi conserva.
Di gran iegnaggio io sono, gran tesori
Tengo d’argento sotterrali o d'oro
In massa c’n conio. La vittoria vostra
Solo in me non consiste. Una sol’alma
In cosi grave c grand’aDar clic monta?
Rispose Enea: Le Ine conserve d'oro
E d'argento conserva a'iìgli tuoi.
Questi mercati ha Turno primamente
Tolti fra noi, poi ch'ha Pallanlc ucciso.
Ed al mio padre ed al mio figlio in grado
Fia-la tua morte. Ciò dicendo, a l'elmo
La man gli stese; c poiché gli ebbe il collo
Chinalo al colpo, insiilo a l'elsa il ferro
Pie la gola gl’immcrse. Indi non lungo
Emonide incontrando, un sacerdote
Di Febo c di Diana, il fronte adorno
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DELL’ ENEIDE
224
Silvicole Fauno Dryopo quem Njmpha creami,
Obvins ardenti scsc obtulit: ille rrducla
Loriram clipeique ingens onus impedii basta;
Turo caput orantia ncquìdqiiam, et multa paranlis
Dicere, deturbai terree, truncumquc lepenlem
Provolvcns, super liaec inimico pectore falur.
Islic nune, mclnende, iaec ! Non le optima maler
Condet burnì, palriovc onerabil membra sepulcro:
Alilibus linquerc feris; aul gurgile mersum
linda terel, pisccsque impasti vulnera lambent.
Prolenus Anloeum et bueam, prima agmina Turni,
Pcrsequilur, Forlcmque Piumoni, fulvumquc Camcrtem,
Magnanimo Volseente solum; dilissimus agri
Qui Tuit Ausonidòm; et lacilis reguatil Arayclis.
Acgaeon qualis, ecntum cui bracbia dicunl,
Cenlenasque rnanus, quinquaginta oribus ignem
Pccloribusquc arsisse, Ioiia quum Fulmina eontra
Tot paribus slrcperet clipcis, tot stringerei enscs:
Sic loto Acneas desaevil in acquorc victer.
Ut semel inlepuil mucro. Quin ecce Niphaci
Quadriiugcs in equos adversaque pectore tendil.
Alquc illi, longe gradienlcm et dira Fremcntcm
Ut videre, melu versi retroque rucnlcs
EFTundunlque ducem, ropiunlquc ad lilora currus.
Intcrea biiugis inrert so Lucagus albis
In medios, Fraterquc 1-iger; sed Frotrr habenis
Flcctit equos, striclum rotai aecr Lucagus cusem.
Ilaud tuli! Acneas lanlo Fervore rurenles:
lrruil, adversaque ingens apparili! basta.
Cui Ligcr:
bon biomedis equos, non currus ccrnis Achilli,
Aul Phrygiac campos: nune belli Finis cl nevi
His dabilur lerris. t esano (alia late
Dieta volani Lìgerì: sed non et TroTus licros
Dieta parai conira; iaculum nani torquet in hoslem.
Lucagus ut pronus lendcns in verbera telo
Admouui! biiugos; proieclo dum pede loevo
Aplal se pugnar; subii oras basta per imas
Fulgenlis clipei, lum laevum perForal ingucn;
Eicussus curru moribundus volvilur arvis.
Quem pius Aencas dictis alTolur amaris:
Lucagc, nulla tuos currus Fuga segnis equorum
Prodidii, aut vanne vertere c« hoslibus umhrac.
Ipsc rolis saliens iuga deseris. liaec ita Fatua
Arripuit biiugos. Fralcr Icndcbal inermes
Infidi» palina», curru dclapsus codem:
Per te, per qui te talcm gcmicreparcntes,
tir Troiane, ainc hanc ammani, et misererò precanlis. !
Pluribus oranti Aencas: Ilaud (alia dudum
Dieta dabas. Morere, et fralrcm ne deserc Fralcr.
Tuui, lalcbras animar, pectus mucrone rccludil.
Talia per eampos edebat Funcra duclor
Dardanius, lorreutis aquae vcl lurbinis atri
More Fureria. Tandem erompimi, cl castra rclinquunt
Ascanius puer cl ncquidquam obscssa iuventus.
Di sacra benda, c tulio rilucente
Di vesti c d'armi, addosso gli si scaglia.
Fuggc Emonide, c cade. Enea gli P sopra,
Lo sacrifica a l'ombra, c d'ombra il copro.
Poscia de Tarmi, clie'l mesebino a pompa
Porli» più ch’a difesa, il buon Screslo
Lo spoglia, e per troFeo le appellile in campo
A le, g an Marte. Ecco di nuovo intanto
Cecolo, di Vulean l'ardente figlio
E 'I Marso Ombron ne la battaglia entrando,
E rimettendo le lor genti insieme,
Spingonsi avanti. Enea da l'altra parte
Infuriava. Ari Ansurc avventossi,
E T manco braccio con la spada in terra
(iiltógli e de lo scudo il cerchio intero.
Gran cose area costui cianciate in prima
E roncepule; e d’adempirle ancora
S'era promesso. Arca Forse anco in ciclo
Riposti i suoi pensieri, e s'augurava
Lunga vita c felice. E pur qui cadde.
Poscia Tarqoilo ardente, e d'armi cinto
Fulgenti e ricche, incontro gli si fece.
Era costui di Fauno montanaro
E de la Ninfa 1) lupe creato,
Giovine fiero. Enea parossi avanti
A la sua furia, c pinsc l'asta in guisa
Glie lo scudo impcdigli e lo coreica.
Allora indarno il misero a pregarlo
Si diede. E mentre a dir molto s'alTaiina
Per lo suo scampo, ei con un colpo a terra
Gillógti il capo: e travolgendo il tronco
Tiepido ancor sopra gli stette, o disse:
Qui con la tua bravura le ne stai,
Tremendo c formidabile guerriero.
Rè di lerra tua mBdre li ricopra.
Pii di tomba t'onori. A i lupi, a i corvi
Ti lascio, o che la piena in alcun fosso
Ti tragga, o che nel fiume, o che nel mare
Ai Famelici pesci esca li mandi.
Indi muove in un tempo incontro a l.ica,
E segue Anteo, che ne le prime schiere
Eran di Turno. Assaglie il forte Ruma,
Fere II biondo Camene. Era Camerle
Figlio a Volseente, generoso germe
Del magnanimo padre, e de’ più ricebi
b' Ausonia tutta: in quel tempo reggea
La taciturna Amido. In quella guisa
Clic si dice Egcòn con cento braccia
F. cento mani, da cinquanta bocche
Fiamme spirando c da cinquanta pelli,
Esser già stato col gran Giove a fronte,
Quando eontra i suoi Folgori e i suoi tuoni
Con altrettante spade ed altrettanti
Scudi tonava c Folgorava aneh' egli;
In quella stessa Enea per Dillo ’l campo,
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1JBB0 DECIMO
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lunoiiem interra coni pellai lupiler utlro:
0 germana milii atipie raderli gratissima rumimi,
Ut rebare, Vcnns (ncc le sementili fallii)
PoictT una volta il suo ferro fu caldo,
Contra tulli vincendo infuriossi.
Ecco Niféo su quattro corridori
Si vede avanti : e contra gli si spinge
SI rùinoso, e tal fa lor fremendo
Tema e spavento, che i deslricr rivolli
Lui col carro traboccano, c disciolti
Scn vanno e vóti imperversando al mare.
Lùcago intanto e Ligcri, due frali
Con due giunti cavalli ambi in un tempo
Gli si fan sopra. Ligcri, a le briglie
Scdca per guida, e Lùcago rotava
La spada a cerchio. Enea non sofTcrcndo
La tracntama, a la già mossa biga
Pianlossi avanti; c Ligcri gli disse :
Enea, tu non sei già ron Diomede,
Nè con Achille a questa volta a fronte :
Nè son questi i cavalli e’I carro loro.
Di Lazio è questo, e non dc’Krigii il campo.
Qui finir ti convicn la guerra c i giorni.
Queste vane minacce e questo vento
Soffiava il folle. Enea d'altra risposta
Non gli diè clic de T asta. E mentre avanti
Spinge I' uno i destrieri, c l' altro al colpo
Si sta chinato, c col piè manco in atto
Di ferir lui, la sua lancia a lo scudo
Entrò sotto di Lùcago, e nel manco
Lato ne l' inguinaia il colse a punto,
E giù dal carro moribondo il trasse.
Indi ancor egli motteggiollo, c disse ;
A te nè paventosi, nè restii
Son già, Lùcago, stali i tuoi cavalli.
Tu da te stesso un si bel salto hai preso
Fuor del tuo carro. E, ciò detto, a i destrieri
Diè di piglio. Il suo frale uscito intanto
Dal carro stesso, umile e disarmato
Slcndea le palme in tal guisa pregando :
Deli per lo tuo valore c per coloro
Clic ti fèr tale, abbi di me. Signore,
Pietà, che supplicando in don ti chieggo
Questa misera vita. E seguitando
La sua preghiera, a lui rispose Etica :
Tu non hai già così dianzi abbaialo.
Muori; e morendo il tuo frale accompagna.
E con queste parole il ferro spinse,
E gli apri 'I petto, e f alma ne disciolsc.
Mentre cosi per la campagna Enea
Strage facendo, c di torrente in guisa
E di tempesta infuriando srorrc,
Ascanio c la Troiana gioventute
Indarno entro a le mura assediati
Saltano in campo.
Ed a Giunone intanto
Così Giove favella : 0 mia diletta
Sorella e sposa, ecco testé si vede
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226
DELI.’ ENEIDE
Troiana? sustenlal opes, non vivida bello
Delira viris, aniniusque feroi, paticnsque perieli.
Cui Iuno submissa: Quid o, pulcherrime comuni,
Sollicilas aegram cl lua irislia dieta limenlcm ?
Si inibì, quac quondam lucrai, quamque esse decebai,
Vis in amore forel ! Non Irne milii namque nepares,
Omnipoiens, quin el pugnae subducere Turnum,
Et Dauno posseni incolumem servare parenti.
None pcreat, Tcucrisquc pio del sanguine pocnas,
Ilio tamen nostra deduci! origine nomen,
Piiumnusquc illi quarlus pater; et tua targa
Saepc manu mullisquc oneravi! limine donis.
Cui rev aellierii breviter sic fatus Olympi:
Si mora praesenlis lidi lempusque caduco
Oratur imeni, meque boc ita ponere sentisi
Tolte fugo Turnum, atque instantibus eripc falis.
llacteuus indulsissc vacai. Sin ullior islis
Sub precibus venia ulta latet, lotumquc moveii
Hutarive pulas belluini ?pes pascis inanes.
Et Iuno allacrimans; Quid si, quod voce gravaris,
niente dares, atque hacc Turno rata vita mancrctl
Nunc mancl insontem gravis ciilus, aul ego veri
Vana feror. Quod ut o potius formuline falsa
Ludar. cl in melius tua, qui potes, orsa rcflectas I
llacc ubi dieta dcdil, coclo se prolcnus alto
Misi!, agens bieniem, nimbo succinola, per auras,
Iliacamque aciem et Laurcntia castra pelivi!.
Tum dea nube cava tenuem sine viribus umbram
In faciem Acneac (visti mirabile monslrum)
Dardaniis ornai telis; clipeumque iubasque
Divini assimulat capiti»; dal inania verba;
Dal sine mente sommi, grcssusque cfllngil cuntis:
Morte obita quale» fama est volitare figuras,
Aut quac sopitos dcludunt somnia scnsiis.
Al prìmas laela ante acies eisullal imago,
Irrilatipie virum telis, et voce laccasi!.
Instai cui Tumus, stridenlemque eminus liastam
Coniirii; illa dato verlit vestigio tergo.
Tum vero Acncan eversimi ut cedere Turnus
Credidii, atque animo spem lurbidus hausit inanem:
Quo fugis, Aenea ? Tlialamos ne deserc paclos;
Ilac dabilur delira lellus quacsila per undas.
Tatia vociferans sequilur, striclumquc coruscal
Miicronein; nec fcrre videi sua gaudio venlos.
Forte ratis celsi cornimela crepidine sali
Evposilis stabal scali», cl ponte parato;
Qua rei Clusinis advectus Osinius oris.
lluc scse trepida Acneac fugicnlis imago
Conilcil in latebra?; nec Turnus segnior instai;
Evsupcrolquc moras, et pontcs transilit allos.
\is proram atligerat: rumpil Saturnia funem,
Avulsamquc rapii revoluta per aequora navem.
[ lllum aulem Aencas absentem in proelia poscil;
Olivia multa virùm dcmitlil corpora morti. ]
Tum levis hauti ultra lalcbras iam quacrit imago;
Cora' ba la tua credenza e'I tuo pensiero
Verace incontro, e come Cilerea
Sostenta i Teucri suoi. Vedi coni - essi
Non son nè valorosi, nè guerrieri,
E i cor non hanno a i lor perigli eguali.
A cui Giunon tutta rimessa. Ah, disse.
Caro consorte, a che mi strali c pugni,
Quando è pur troppo il mio dolor pungente,
E pur troppo lem' io le tue puliture ?
Ma se qual era, e qual esser potrebbe,
Fosse or tcco il poter de l’ amor mio,
Teco che tanto puoi, do le negato
Non mi fòro, signor, eh' oggi il mio Turno
Fosse do la battaglia c da la morte
Per me sottratto e conservalo al vecchio
Dauno suo padre. Or péra, c col suo sangue,
Clic pur è pio, la cupidigia estingua
De’ suoi nemici. E pur aneli' egli è nato
Dal nostro sangue : c pur Pilunno è quarto
Padre di lui : da lui pur largamente
Gli aitar molto fiate e i tempii tuoi
Son de’ suoi molti doni ornali e 'carelli.
Cui del ciel brevemente il gran Motore
Cosi rispose : Se indugiar la morte,
Ch' è già presente, e prolungare i giorni
Al già caduto giovine C aggrada
Per alcun tempo, e tu con questo inteso
1.' accetti, va' tu stessa, e da la pugna
Sottrailo e dal destino. A tuo contentu
Fin qui mi lece. Ma se in ciò presumi
Ancor più di sua vita, o de la guerra,
Clic del tutto si mule o si distorni,
In van lo speri. A cui Grano piangendo
Soggiunse ; E clic saria, se quel che in voce
Ti grava a darmi, olmeti nel tuo secreto
Mi concedessi ? E questa vita a Turno
Si stabilisse ? già che indegna e cruda
Morte gli s’ avvicina, o eh" io del vero
Mi gabbo. Tu che puoi, signor, rivolgi
La mia paura e i tuoi pensieri in meglio.
Poscia che cosi disse, incontanente
Dal ciel discese, e con un nembo avanti
E nubi intorno, occulta infra i due campi
Sopra terra colossi. Ivi di nebbia.
Di colori e di vento una figura
Formò ( cosa mirabile a vedere I )
In scmbiania d' Enea; d’ Enea lo scudo,
La corona, il cimiero e l' armi tutte
Gli finse intorno, c gli diè il suono e T moto
Propri di lui, ma vani, e sema forze
E senza mente; in quella stessa guisa
Clic si dice di notte ir vagabonde
L’ ombre de' morti, c che i sopiti sensi
Son da' sogni delusi e da fantasme.
Questa mentila imago anzi a le schiere
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LIBRO DECIMO
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Sed sublime volans nubi se itnmiscuil alrae:
Quum Turnum medio inlerea feri aequorc turbo.
Respicil ignarus rerum, ingralusquc saluti»,
Et dupliccs cum voce maiius ail sidera tendi!:
Omnipotcns genìtor, lanton' me crimine digoutn
Duiisli, et lales voluisti Dipendere poenas ?
Quo feror ? unde abii 7 quae me fuga, quemve reduce!?
Laurenlesne itcrum muros aul castra videbo ?
Quid manus illa virùm, qui me meaque arma seculi?
Quosne <nelas) omnes infamia morte reliqui ?
Et nunc palanles «ideo, gemitumque cadentum
Accipio. Quid ago ? aul quae iam satis ima debiscat
Terra mihi ? Vos o potius miscrcscilc, «enti I
In rupes, in saia (rolens vos Turnus adoro)
Ferie ratem, saevisque vadis immillile Syrlis,
Quo ncque me Rululi, ncc conscia fama sequalur.
llacc memorans, animo nunc bue, nunc Ructual illue;
An sese mucrone ob tantum dedecus amens
Induat, et crudum per costai exigat ensem;
Fluctibus an iaciat tnediis, et litora nando
Curva pelai, Teucrùmque iterum se reddat in arma.
Ter conatus utramque viam: ter maiima luno
Conlinuit; iuvcncmque animi miserata repressi!.
Labitur alla secans flucluque aesluque sccundo;
Et patria anliquam Dauni defertur ad urbeni.
Lieta insultando, a Turno s’ appresenla ,
Lo provoca e lo sfida. E Turno incontra
Le si spinge c l' affronta : c pria da lungo
Il suo dardo le avventa, al cui stridore
Volg' ella il tergo e fugge. Ed ci so-pinlo
Da la vana credenza, e da la folle
Sua speme insuperbito, la persegue
Con la spada impugnala : e dove, c dove,
Dicendo, Enea, tcn fuggi ? ove abbandoni
La tua sposa novella ? Io di mia mano
De la terra fatale or or l'investo,
Che tanto per lo mar cercando andavi.
E gridando l' incalza, c non s' avvede
Che quel che segue c di ferir agogna,
Non è che nebbia che dal vento è spinta.
Era per sorte in su la riva un sasso
Di molo in guisa; ed un navilc a canto
Gli era legalo, che la scala e T ponte
Avea su 'I lilo, onde ne fu pur dianzi
Osinio il re di Chiusi in terra esposto.
In questo legno, di fuggir mostrando,
Ricovrossi d' Enea la tinta imago,
E vi s’ ascose. A cui dietro correndo
Turno senza dimora infurialo
Il ponte ascese. Era a la prora a pena,
Che Giunon ruppe il fune c diede al legno
Per lo travolto mare impeto c fuga.
Intanto Enea, di Turno ricercando,
A battaglia il chiamava. Ed or di questo,
Ed or di quello c di molti anco insieme
Facca strage c scompiglio; e la sua larva,
Poiché di più celarsi uopo non ebbe,
Fuor de la nave uscendo alto levossi,
E con l'atra sua nube unissi, e sparve.
Turno cosi schernito, e già nel mezzo
Del mar sospinto, indietro rimirando
Come del fatto ignaro, e del suo scampo
Sconoscente e superbo, al cicl gridando
Alzò le palme, e disse: Ah dunque io sono
D'un tanto scorno, onnipotente padre,
Da te degno tenuto? A tanta pena
M' hai riservalo? Ove son io rapilo?
Onde mi pano? Chi cosi mi caccia?
Chi mi rimcna? E fla eli’ un'altra volta
Io ritorni a Laurcnlo? e ch'io riveggia
L’oste più con qucst'occhi? E che diranno
i mici seguaci, e quei clic m'han per capo
Di questa guerra, che da me son tulli
(Ahi vitupero I) abbandonati a morte?
E già rotti gli veggio, e già gli sento
Gridar cadendo. 0 me lasso I che faccio ?
Qual à del mar la più profonda terra
Che mi s'apra e m'ingoi? A voi più tosto,
Vènti, incresca di me. Voi questo legno
Fiaccale in qualche scoglio, in qualche rupe,
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*28
DELL’ ENEIDE
Al lovis inforca monili* Mezcntius ardcn»
Sur.cedil pugnac, Teiierosquc invadit ovante».
Concurrutil Tyrrhcnoe ocics, alque omnibus uni,
Uni ndiisque viro tdisque frequenlibus installi.
Illc, vclut rupe*, vaslum quoe prodii in acquor,
Obvia ventorum furiis, exposlaque pomo,
Vim cunctnm alque minas perfori coeliquc marisque
Ipsa immola manens: prolem Dolichaouis Hebrum
Sterilii Immi, cum quo Lalagum, Palmumque fu
gacem :
Scd Lalagum saxo alque ingenti frogmine monti»
Occupai os fnciemquc adversam; poplitc Palimim
Succiso voi vi segnem sinit; ormaque Lauso
Donai Labore liumeris, cl vcrlice figero crislas.
Noe non Evanlliem Phrygium, Paridisque Mimantn
Acqualcm comiiemquc: una quom nocle Tbeano
In lucem genitori Amyco dedii, el face praegnans
Cissei's regina Parili: Pari» urbe paterna
Occubal; ignarum Laurens Label ora Mimanla.
Ac velili illc canum morsu de monlibus alti*
Actus apcr, multo» Vesulu» quem pinifer annos
Defcndit, multosve palus Laurenlia, silva
Paslus arundinca, poslquam inlcr relia vcnlum esl,
Substitil, infremuilquc ferox, el inhorruil armos:
Noe cuiquam irasci propiusque accedere virlus;
Scd iaculi* tulisque procul clamoribus instane
lite aulem impavido* parte* cunctalur in ornile»,
Denlibii3 infrendens, et tergo deculil haslas:
Haud alitcr, iustae quibus esl Mezcntins irai;,
Non ulti est animus strido concurrerc ferro;
Missilibus longe et vasto clamore lacessunt.
Venerai antiqui* Corythi de finibus Acron,
Graius homo; infeclos linquens profugus bymenaeos:
llunc ubi miscentem longe media agmina vìdil,
Purpurcum pennls el paclae coniugi» oslro:
Impaslus stabula alta leo ccu saepe peragrans,
(Suadcl enim vesana fame») si forte fugaccm
Ch’io stesso lo vi dileggio: o ne le sirli
Mi seppellite, ove mai più non giunga
Hululo clic mi veggio, o mi rinfacci
Questa vergogna e questa infamia, ond'io
Sono a me consapevole c nimico.
Cosi dicendo, un laulo disonore
In sè sdegnando, e di sè slesso fuori,
Slrani, diversi e torbidi pensieri
Si volgea per la mente: o con la spada
Passarsi il pollo, o traboccarsi in mezzo,
SI com’era, del mare, e far notando
Prova, o di ricondursi ond’era (olio,
0 il ‘aiTogarsi. E Luna c l'altra via
Tentò tre volte; c tre volle la dea,
Di lui mossa a pietà, ne lod slolse.
Dal turbine e dal mar cacciato intanto
Si scorse il legno, clic del padre Dauno
A l'antica magion per forza il trasse.
Mezenzio in questo mentre che da l’ira
Era spinto di Giove, ardente e Itero
Entrò nella battaglia, e i Teucri assalse
Che già *1 campo tencnn superbi c lieti.
Da l'altro canto le Tirrene schiere
Mossero incontro a Ini. Contro lui solo
i S’unir tulli dc'Toschi c gli odii c farmi:
Ed egli, a tulli opposto, alpestre scoglio
Sembrava, che nel mar si sporga, e i fluiti,
E i vènti minacciar si senta intorno,
E non punto si crolli. Ognun cli'avanli
0 l’ardir gli mandava o la fortuna,
A' piè si distonica. Nel primo incontro
Ebro di Dolicóo, Là lago c Palmo
Tolse di mezzo. Ebro passò fuor fuori
Con un colpo di lancia; il volto c 'I lesch’o,
Un gran macigno a Làlago avventando,
Infranse lutto: ambi i garelli a Palmo,
Clfavanti gli fuggia, tronchi di netto,
Lasciò che rampicando a morir lunge
A suo bell'agio andasse; ma de farmi
Spogliollo in prima, c la corazza in collo
E felino in lesta al suo Lauso ne pose.
Uccise dopo questi il Frigio Evante;
Poscia Mimante eli’ era pari a Pari
Di nascimento, e d’ ornar seco unito
| D’ Amico nacque, e ne la stessa notte
Teona la sua madre in luce il diede,
Che diè Paride al mondo Ecuba, pregna
Di fatai fiamma. E par l’ un d' essi ucciso
Fu ne la patria, e f altro sconosciuto
Qui cadde. Era a veder Mezenzio in campo
Qual orrido, sannulo, irto cignale
| In mezzo a’ cani allor clic da' pineli
Di Vcsolo, o da’ boschi o da' pantani
Di Laurcnlo è caccialo, ove moli’ anni
Si sia difeso ; eh' a le reti aggiunto
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LIBRO DECIMO
Conspexil cuprea!», aut surgeulem in comua ccrvoni,
Gaudcl, hlans immane, comasquc arrcxit, et hoerel
Visceribus super incumbens; la vii improba tcler
Oro cruor:
Sic ruit in densos alocer Mczenlius hoslcs.
Slcrnilur infelii Acron, et calcibus atram
Tundil liumum exspirans, infraclaque tela cruentai.
Atque idem fugienlem liaud est dignalus Oroden
Sternere, nec iacta caecum dare cuspide vulnus:
Obvius adversoque occurril, seque viro vir
Contulil , hauti furio nielior, sed fortibus armis.
Tum super abicctum posilo pede nixus et basta:
Pars belli liaud lemncnda, viri, lacci allus Orodes.
Conclamarli sodi laetum paena seculi.
llle aulem exspirans: Non me, quicunquc es, inulto,
Victor, nec longum laetabero: te quoque fata
Prospeclanl paria, atque eadem mot arva tenebis.
Ad quem subridens mix la Mezcntius ira:
Nunc morerc : asl de me divùm pater atque homi*
num rei
Villerii- Hoc dicens eduxit corporc lelum.
Olii dura quies oculos et ferreus urgel
Somnus; in aeternam clauduniur lumina noclem.
Caedicus Alcailmum obtruncat, Sacralor Jlydaspcn;
Parlheniumque Rapo el praedurum viribus Orscn:
Messa pus Cloniumque Lycaotiiumquc Ericetcn;
Illuni infrenis equi lapsu lei Iure iacenlem,
llunc peditem pedes. Et Lycius processerai Agis:
Quem (amen liaud expers Yaterus virimi» avilac
Dciicil ; at Tbronium Salius, Saliumquc Nealces,
Insigni» iaculo el longe fallente sagilla.
Virgilio vol. unico
Si ferma, arruffo gli omeri, c fremisce
Co’ denti in guisa clic non è chi presso
Osi affrontarlo, ma co' dardi solo,
E con le grida a man salva d* intorno
Gli fon tempesta. Così contro a lui
Non s* arrischiando le nemiche squadre
Stringere i ferri, le minacce c l’ armi
Gli avventavan da lunge ; ed ci fremendo
Stava intrepido c saldo, c con lo scudo
Sbaltea de Paste il tempestoso nembo.
Di Cónto venuto a questa guerra
Era un Greco bandito, Acron chiamalo,
Novello sposo che, non giunto ancora
Con la sua donna, a le sue nozze il folle
Avea Tarmi anteposte. E in quella mischia
D'ostro e d’ór riguardevole c di penne,
Sponsali arnesi e doni, ovunque andava
Per le schiere, facci strage e bar ulta.
Mezeuzio il vide ; c qual digiuno c fiero
Leon da forno stimolato, errando
Si sla talor sotto la mandra, c rugge ;
Se poi fugace damme, o di ramose
Coma gli si discopre un cervo avanti.
S’allegra, apre le canne, arruffa il dorso,
Si scaglia, ancide e sbrana, e’1 ceffo c Pugne
D’ atro sangue s' intride ; in tal sembiante
Per mezzo de lo stuol Mczenzio altero
S* avventa. Acron per terra al primo incontro
Nc va rovescio ; e P armi e. ’l pollo infranto,
Sangue versando, e calcitrando spira,
Morto Acrone, ecco Orode, che davanti
Gli si lolle. Ei lo segue ; c non degnando
Ferirlo in fuga, o clic fuggendo occulto
Gli fosse il fcrilor, Io giunge e'I passa,
1/ incontra, lo provóca, a corpo a corpo
Con lui s’ azzuffa, clic di forze e d'armi
Più valca che di furto. Al fin l'atterra,
E P asta e ’l piè sopra gP imprime, c dice:
Ecco Orode è caduto. Una gran parie
Giace de la battaglia. A questa voce
Lieti alzaro i compagni al elei le grida :
Ed ci tncnlre spirava, Oli, disse a lui,
Qual che In sii, non fia senza vendetta
La morie mia : nè lungamente alierò
N’ andrai; cliè dietro a me nel campo stesso
Cader convienti. A cui Mczenzio un riso
Tratto con ira, Or sii tu morto intanto,
Rispose, e quel che può Gìoyc disponga
Poscia di me. Così dicendo, il tèlo
Gli divelse dal corpo, ed ci le luci
Chiuse al gran buio ed al perpetuo sonno.
Ccdico uccise Aleuto. Sacralóre
Uccise Idaspe. A due la vita tolse
Rapo, a Partenio ed al gagliardo Orsoue,
Mcssapo aneli’ egli a due !a morte diede:
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DF.I I/ ENEIDE
130
lam gravi* acquattai luctus et mutua Mavors
Funeri, coedebant pariler pariterque ruebant
Victores victique; ncque bis fuga noia, ncque Illis.
Di lovis in Ipclis ira ni misrrantur inanem
Ambonim, et lantos mortalibus esse labores;
Itine Vcnus. bine centra spretai Saturnia luno.
Pallida Tisipbone media inter millia saevit.
Al vero ingentem quatiens Mezenlins hastam
Turbidus ingreditur campo. Quam magnus Orion,
Quunt pedes incedi! medii per maiima Nerei
Stagna viam scindens, Immero supereminct undas;
Aul, summis referens annosam montibus ornimi,
Ingrcditurque solo et caput inter nubila condii:
Talis se vaslis inferi Mezrntius armis.
Iluic conira Aeneas, speculatus in agmine longo,
Obvius ire parai. Manel impertcrrilus ilio,
Iloslcm magnnnimum opperiens, et mole sua stai;
Alque cetili» spalium emensus, quanlum sntis basine:
Destra, mibi deus, et telum, quod missile libro,
Nunc adsinl ! Voveo praedonis corpore raplis
Indutum spoliis ipsum te, l.ause, tropaeum
Aencac Divi!, stridcnlemquc eminus hastam
lniicil, illa \olans clipeo est escussa, proculque
Egrcgium Autoreti latus inter et ilia lìgi»;
Herculis Antoren comitem, qui missus ab Argis
llaeserat Evandro, atque Itala consederat urbe.
Slernitur infcliz alieno vulnere. coelumque
Adspicil, et dulces moriens reminiscitur Argos.
Tum pius Aeneas hastam iacit: illa per orbem
Aere cavum triplici, per linea terga, trihu'quc
T ransiil inleitum tauris opus, imaque sedi!
Inguine; sed vires baud pertulit. Ocius enscm
Ameas, viso Tyrrbeni sanguine laetus,
Eripit a Temine, el trepidanti fervidus instai.
Ingemuit cari gravilcr genitoris amore,
Ut vidit, Lausus; locrimaequc per ora volutae.
Ilio morlis durac casum, tuaque optima facta,
Si qua (idem tanto est operi latura veluslas,
Non eqnidem, nec te, juvenis memorande, silebo.
lite pedem referens, et inulilis, inque ligatus
Cedcbat, clipeoquc inimicum bastile trabebat.
Prorupit iuvenis, seseque immiscuit armis;
lamque assurgenlis dextra plagamquc ferenlis
Acneoe subiil mucronem, ipsumque morando
Suslinuit; socii magno clamore sequunlur,
Dum genitor nati panna prolectus abiret;
Tclaque coniiciunt, prolurbantque eminus hoslem
Missilibus. Furit Aeneas, tectusque tenel se.
A Ctonio da cavallo , ad Kricete,
Cir era pedone, a piede. Agi di Licia
Movendo incontro a lui, fu da Valero,
De' suoi degno campione a terra steso:
Per man di Salio cadde Tronio, e Salio
Per ninno di Neolcc, die di dardo
Era gran feritore e gronde arderò.
I)' ambe le parti erano Morte, e Marte
Del pari; c parimente i vincitori
E i vinti ora cadendo, ora incalzando,
Seguian la zulTa; nè viltà, nè fuga
Nè di qua, uè di là vedeansi ancora.
L' ira, la pertinacia e le fatiche
Erano e quinci e quindi ardenti e vane.
E di questi e di quelli avean gli dei,
Che dal cicl gli vedean, pietà e cordoglio.
Slava di qua Ciprigna e di là Giuno
A rimirargli; e pallida fra mezzo
Di molte mila infuriando andava
La nequitosa Erinni. Una grand' asta
Prese Mezenzio un'altra volta in mano,
E turbalo squassandola, del campo
Piantossi in mezzo, ad Orlon simile
Quando co* piè calca di Néreo i flutti,
E sega l’ onde, con le spalle sopra
A l’ onde tulle; o qual da' monti a l’ aura
Si spicca annoso corro, e 'I capo asconde
Infra le nubi. In tal sembianza armalo
Slava Mezenzio. Enea tosto che’l vede
Ratto incontro gli muove. Ed egli immolo
Di coraggio e di corpo, ad aspettarlo
Sta qual pilastro in sè fondato e saldo.
Poscia di' a tiro d' asta avvicinato
Gli fu davanti, 0 mia destra, o mio dardo,
Disse, che dii mi siete, il vostro nume
A questo colpo imploro : ed a te, Lauso,
Già di questo ladron le spoglie e 1' ormi
Per mio trofeo consacro. E, così detto,
Trasse. Stridendo andò per l' aura il tèlo;
Ma giunto, c da lo scudo in altra parte
Sbattuto, di lontan percosse Antere
Fra le costole e'I fianco, Anlor d' Alcide
Onoralo compagno. Era venuto
D'Argo ad Evandro : c qui cadde il meschino
D* altrui ferita. Nel cader le luci
Al cirl rivolse, e d’ Argo il dolce nome
Sospirando, le chiuse. Enea con l' asta
llcn tosto a lui rispose. E lo suo scudo
Percosse anch'egli, c l'interzate piastre
Di ferro e le tre cuoia e le Ire falde
Di tela, ond' era citilo, inflno al vivo
Gli passò de la coscia Ivi fermossi,
Chè piò forza non ebbe. Ma ben tosto
Ricovrò con la spada, e fiero c lieto,
Visto già del nemico il sangue in terra
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turno DECIMO
231
Ac velut, eflìisj si quando grandiue nimbi
Praecipitanl, oiunis campii dilTugil aralor,
Omnis el agricola, et loia laici arce vialor,
Aul amnis ripis, uut olii Fornice savi,
Dum pini! in terris, ui possìnl, sole reduclo,
Ezercere diem: sic obrulus undique lelis
Aeneas nubcm belli, dum deloncl, omnem
Suslinel, et Lausum increpitai, Lausoqne minalur.
Ouo moriture ruis, maioraque viribus audes ?
Fallii le incautum pietas tua. Nec minus ilio
Eisultal demens. Saevac iamque allius irae
Dardanio surgunt ductori, eilrcmaque Lauso
Parca e fila legunl: validum namque esigi! coseni
Per medium Aeneas iuvenem, lolumquc reconditi
Transiil el parmam mucro, levia arma minaci»,
El lunicam, molli maler quam neveral auro;
Implevilquc sinum sanguis; lum vita per auros
Concessi! inoesla ad Hanes, corpusque reliquie
Al vero u! vullum vidil morienlis el ora,
Ora modis Ancbisiadcs pallenlia mirisi
ingemmi miserans graviler, dcslramquc tclcndil,
El mcntem palriae slrinsil piclalis imago.
Quid libi nunc, miserande puer, prò laudibus ìslis.
Quid pius Aeneas lauta dabil indole dignum ?
Arma, quibus laelalus, habe tua; leque parcnlum
Manibus el cineri, si qua est ea cura, remino.
Hoc (amen inFeliz miseralo solabcrc mortemi
Aeneae magni destra cadis. Increpat ullro
Cunctanlcs socios, el terra sublevat ipsum,
Sanguine lurpanlem comlos de more capillos.
E 'l lerror ne la Fronte, a lui si slriuse.
Lauso, che in lauto rischio il caro padre
Si vide avanti, amor, tema e dolore
Se ne semi, ne sospirò, ne pianse.
E qui, giotinc illustre, il caso indegno
De la tua morie c 'i Ino zelo e 'I luo Falò
Non lacerò; se pur tanta pietatc
Fia chi creda de' posteri, e d' un figlio
D' un empio padre. Il padre a si gran colpo
Si trasse in dietro, cbè di già Ferito,
Benché non gravemente, c da F intrico
De l’ asta imbarazzalo, era a la pugna
Fallo inutile e lardo. Or mentre cede,
Mentre che de lo scudo il dardo ostile
Di sFerrar s' argomenta, il buon garzone
Succede nc la pugna, e del gii mosso
Braccio e del brando che stridente c grave
Calava por Ferirlo, il mortai colpo
Ricevè con lo scudo e lo sostenne.
E perdi' agio a ritrarsi il padre avesse
Riparalo dal figlio, i suoi compagni
Secondàr con le grida ; e con un nembo
D' armi, che gli avvenlir lutti in un tempo.
Lo ribullaro. Enea via piò Feroce
InFuriando , sotto al gran pavese
Si tenea ricoverlo. E qual, cadendo
Grandine a nembi, il vialor talora,
Che in sicuro a l' albergo è già ridotto,
Ogni agricola vede, ogni aratore
Fuggir da la campagna ; o qual d 1 un greppo
D' una ripa, o d' un antro il zappatore,
Piovendo, si Fa schermo, e 'I sole aspetta
Per compir l' opra ; in quella stessa guisa,
Teinpeslato da l' armi Enea la nube
Sostenea de la pugna : e Lauso inlanlo
Minacciando garria : Dove ne vai,
Mescliinello, a la morie ? A che pur osi
Più che non puoi ì La tua pietà l' inganna,
E sei giovine c soro. Ei non per questo,
Folle, meno insultava ; onde più crebbe
L‘ ira del Teucro duce. E già la Parca,
Véla la rocca c non pien anco il Fuso,
Il suo nitido filo avea reciso.
Trasse Enea de la spada, e nc lo scudo
Clic liev' era e non pari a tanta Forza,
Lo colpi, lo passò, passogli insieme
La reste che di seta e d' or contesta
Gli avea la stessa madre ; c lui per mezzo
Trafisse, e moribondo a terra il trasse.
Ma poscia ebe di sangue e di pallore
Lo vide asperso e della morte in preda,
Ne gl’ increbbe e nc pianse ; c di paterna
Pietà quasi una imago avanti a gli occhi
Veder gli parve, e ’nteuerito il core
Stese la destra c sollcvollo, e disse ;
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DliLI/ ENEIDE
Inierca genilor Tiberini ail duminis untlam
Vulnera siccabal lympltis, corpusquc Icvabat
Arbori* acclini* Irunco. Procul aerea ramis
Depcndel galea, el proio gravi» arma quicscunt.
Stani ledi circum iuvenes: ipse noger, anhclnns,
Colla fovel, fusus propexam in peclorc barbino;
Al olla super Lauso rogiiat, multosque remillit.
Qui revocenl, nioesliquc feranl mamlata parcnlis.
Al Lausum sodi evanimcm super arma fcrebant
Flentes, iugenfciii, alque ingenti vulnero victum.
Agnovit longe gemilum prac>aga mali mcns.
Caniliem niullo deformai pubere, el amba*
A«l eoclum Icndil polmas, el eorporc inhaercl.
Tanlanc nic lennil rivendi, naie, voluplas.
Mi prò me liosiili patcrer succedere dexlrae,
Quem genui ? Tuane bacc genilor per vulnera scrvor,
Morte Ina vivens ? Ileu, nunc misero miiii demum
Exsilium infelix ! nunc alle vulnus adaclum I
Idem ego, nate, luum maculavi crimine nonien,
Pulsus ob invidiati) soiio sceptrisquc paterni*.
Debucram palriae pocnas ndiisque meorum:
Omnes per niorles onimam sonlcra ipse dedisscm.
Nunc vivo! ncque adirne bomines lueemque relinquo ! :
Sed linquam. Simili boc dicens nllollii in aegrum
Se femur; cl, quamquam vis allo vulnero lardai,
Hauti deicclus, equum duci iubet. line decus illi,
Hoc solnmen eroi; bcllis hoc viclor allibai
Omnibus. Àlloquilur mocrenlcm, cl lalibus inlit:
Rliocbe, din (rcs si qua diu morlalibus ulta est)
Viximus. Aut hodie viclor spolia illa emonia
El caput Acneac referes, Lausique dolorum
lJllor ciis mecum: aut, apcril si nulla viam vis,
Occunibes pariler. Ncque cnim, fortissime, credo,
lussa aliena pali et dominos dignubcrcTeucrus.
Divii, cl cxceplus tergo consuela locavi!
Membra, manusque ambas iarulis oncravil acutis,
Acre caput fulgcns, crislaquc hirsulus equina.
Sic cursum in medios rapidns dedil. Acstuat ingens
l'no iu corde pudor, mixtoquc insania luclu;
Miserabil fanciullo! c quale aila,
Quale il pietoso Enea può farli onore
Degno de le lue lodi c del presagio
Clic n’ Imi dato di (e ? L' armi che lauto
Ti son piaciute, a te lascio, c T luo corpo
A la cura de* tuoi, se di ciò cura
Ila pur l' empio luo padre, acciò di tomba
E d’ esequie l’onori. E tu, meschino,
Poiché dal grand* Enea morte ricevi,
Di morir li consola. Indi assccura,
Sollecita, riprende, e de I* indugio
Garrisce i suoi compagni; c di sua mano
L'alza, il sostiene, il terge c de la gora
Del suo sangue lo tragge, ove rovescio
Giacea languido il volto e lordo il crine.
Clic di rose eran prima e d' ostro c d* oro.
Slava del Tcbro in su la riva intanto
Lo sfortunato padre, c la ferita
Già lavala nc Monde, afflino e stanco
S* era con la persona appo d’ un tronco
Por posarsi appoggialo; c I* olmo a canlo
Da’ rami gli pendea. L* armi piò gravi
Su ’l verde prato avean posa con lui.
Slavagli intorno de* più scelti un cerchio
K de* più fidi. Ed egli anelo ed egro,
Chino il collo al (roncone c *1 mento al petto,
Mollo di Lauso interrogava, e molli
Gli mandava or con preci, or con precetti,
Cl»* al mesto padre ornai si rilraesse.
.Ma già vinto, già morto e già disteso
Sopra al suo scudo, a braccia riportato
Da' suoi con mollo pianto era il meschino.
Udì Mczenzio il pianto, e di lontano
( Come del mal sovente è M uom presago )
Morto il figlio conobbe. Onde di polve
Sparso il canuto crine, ambe le mani
Al ciel alzando, al suo corpo accoslossi :
Ah mio figlio, dicendo, ah come tanto
Fui di vivere ingordo, che soffrissi
Te, di me nato, ondar per me di morto
A sì gran rischio, a tal nimica destra
Succedendo in mia vece? Adunque io salvo
Son per le tue ferite? Adunque io vivo
Per la tua morte? 0 miseralo) vita !
0 sconsolato csiglio! Or questo è ’l colpo
Ch’ai cor m’è giunto Ed io, mio figliolo sono
Ch’ho macchialo il luo nome, ch’ho sommerso
La tua fortuna c’I mio stalo felice
Co’ demeriti miei. Dal mio furore
Son dal seggio deposto. Io son clic debbo
Ogni grave supplizio ed ogni morte
A la mia patria, al grand'odio de* miei.
E pur son vivo, c gli uomini non fuggo?
E non fuggo la luce? Al»! fupgirolla
Pur una volta. E, così detto, alzossi
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LIBRO REGIMO
233
l El Fui iis agitatus amor, cl conscio virlus |.
Alquc Ire Acncan magna ter voce vocatil.
Acneas agnovit cnim, laetusque prccalur:
Sic poter ille deùm facinl, sic allus Apollo I
Incipias confcrre mannm.
Tanluin effalus, cl inresla subii obrius liasla.
Ille aulem: Quid me, ercplo, saevissime, nolo,
Tcrrcs ? llacc ila sola fuil, quo perdere posse».
Nec morlcm liorremus, lice divAm parcimus ulti.
Desine: iam renio morilurus, cl haec libi porto
Dona prius. Dixil, telumquc intorsil in hoslem;
Inde aliud super atque aliud figilque, volalque
Ingenti gyro: sud sustincl aureus umbo.
Ter circuiti adslanlcm lacros equilaril in orbes,
Tela manu iacicns; ter secum TroTus lieros
Immanem aeralo circumferl tegmine silvam.
Inde ubi tol Iravisse mora», tot spicula lacdel
Veliere, cl nrgclur pugna congressus iniqua:
Molla morcns animo, iam tandem crumpil, el inlcr
Bellaloris equi cava lempora coniicil liaslam.
Tallii se arreclum quadrupes, et calcibus auras
Verbcral, elfusumquc cquilem super ipse seculus
Implicai, ciccloque incumbil ccrnuus armo.
Clamore inccndunt coclum Trocsquc Laiinique,
Advulat Acneas, taginaque eripit cnsem,
Et super liacc: Ubi nunc Mczcnlius accr, et illa
KITcra vis animi ? Contea Tyrrlienus, ut auras
Suspiciens liausit coelum, menlemquc recepii:
Iloslis amare, quid incrcpilas, morlcmque minaris ?
Nullum in caede nefas; ncc sic ad proclia veni;
Nec tecuin meus linee pcpigit mihi fonderà Lausus.
Unum hoc, per, si qua csl ticlis venia boslibus, oro;
Corpus liumo paliarc legi. Srio acerba meorum
Circumslare odia: hunc, oro, Refende furorem;
El me consorlem itali concede sepulcro.
llacc loquilur, iuguloque haud inscius accipit ensem,
Vndanliquc animam diffundil in arma cruore.
Su la ferila coscia. E benché tardo
Per la piaga ne fosse e per l'angoscia,
Non per questo avvilito, un suo cavallo
Ch'era quanto diletto e quanta speme
Arca ne l'armi, e quel clic in ogni guerra
Salvo mai sempre e vincilor lo rese,
Addur si fece. E poi clic addolorato
Se ’l vide avanti, in tal guisa gli disse:
Rebo, noi siam fin qui vissuti assai,
Se pur assai di vita Ita mortai cosa.
Oggi è quel di che 0 vincitori il capo
Riportercm d'Enea con quelle spoglie
Clic son del sangue del mio Aglio infoile ,
E che tu del mio duolo e de la morie
Di lui vcndicator meco sarai;
0 che meco, se vano è 'I poter nostro,
Finirai parimenle i giorni tuoi;
Chè la tua fé, cred'io, la lua fortezza
Sdegnoso li fari d'esser soggetto
A' miei nemici, c di servire altrui.
Cosi dicendo, il consueto dorso
Per sé modesmo il buon Rcbo gli offerse
Ed ei l'elmo ripreso, il cui cimiero
Era pur di cavallo un'irta coda,
Suvvi, come potè, comodamente
Vi s'adagiò. Poscia d'acuti strali
Ambe cardie le mani, infra le schiere
Lanciossi. Amor, vergogna, insania c lutto
E dolore c furore c coscienza
Del suo stesso valore accolli in uno
Gli arsero il core e gii ovvamparo il volto.
Qui Ire* volle a gran voce Enea sAdando
Chiamò: che tosto udillo, e baldanzoso,
Cosi